Testi e immagini al tempo del Coronavirus – 4
Proseguiamo con questa quarta serie di contributi, dopo la prima, la seconda e la terza, del 21 marzo, del 27 marzo e del 10 aprile scorsi.
Vedi a
https://www.milanocosa.it/temi-e-riflessioni/testi-e-immagini-al-tempo-del-coronavirus-1
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https://www.milanocosa.it/temi-e-riflessioni/testi-al-tempo-del-coronavirus-3
A.V.
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Seguono testi di
Gabriella Galzio, Massimo Pamio,
Fabia Ghenzovich, Raffaele Urraro, Adam Vaccaro
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In questo IV post sull’argomento, con testi che agiscono su un crinale tra poesia pensante e pensiero poetante, sottolineo due contributi che pongono la necessità storica di radicali riflessioni sulla logica dominante del sistema economico-sociale in atto: l’analisi di Gabriella Galzio, che ci offre una circumnavigazione degli enormi problemi che abbiamo sia di fronte, sia soprattutto in prospettiva, con una analisi critico-interrogante; segue il decalogo (ri)proposto di Massimo Pamio, quale estremo appello etico-sociale a tutti noi, al tempo stesso visionario e necessario.
Entrambi questi interventi ci sollecitano, pur in modi diversi, a utilizzare questa evenienza tragica per farne lo storico doloroso magistero, di una riflessione sulle nostre carenze culturali, rispetto al nucleo da cui si ramificano tutti i nostri problemi. Senza il riferimento a tale punto cruciale (il “modello economico o sistema neoliberista”, come richiamato da Galzio), ci si perde in infiniti e marginali dibattiti sulle conseguenze e non sulle cause. Si è spesso utilizzato nel corso degli ultimi anni, anche con giustificazioni, il termine epocale. Questo virus lo rende ancora più adeguato, mettendo a nudo in maniera quanto mai drammatica il fallimento umano di un sistema economico, fondato sull’interesse di pochissimi a danno dei più.
Ora, è terribilmente evidente il bivio in cui si trova l’umanità se vogliamo evitare le prospettive della sua autodistruzione: ripensare con urgenza e reindirizzare moto e obiettivi folli dominanti l’esistente, contrari sia a giustizia sociale, sia a inderogabili ripristini di equilibri ecologici.
Adam Vaccaro
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Gabriella Galzio
PANDEMIA MON AMOUR
Come disse Resnais a proposito del suo “Hiroshima mon amour”, anche noi oggi siamo posti dinanzi alla “grande contraddizione (che) consiste nel fatto che abbiamo il dovere e la volontà di ricordarci, ma siamo obbligati a dimenticare per vivere”. Anche noi, oggi, di fronte a questa pandemia vorremmo dimenticare cosa accade là fuori per vivere – fosse anche solo per godersi (per chi ce li ha) un terrazzo, un giardino al sole per festeggiare la cosmica primavera; per scoprire persino che passare la Pasqua su un balcone che affaccia in un cavedio, può rivelarsi il prodigio di un merlo canoro che sovrasta il campanaro. Per non dire delle non poche persone che mi hanno confessato di sentirsi liberate dall’eccesso di estroversione fuori casa, e reintegrate nella quiete e nel benessere di stare in casa. Riecheggia qui il monito lanciato da James Hillman a inizio millennio, quando predisse che la globalizzazione avrebbe comportato una ulteriore accelerazione degli aspetti Hermes della civiltà, e che se non avessimo recuperato i lati Vesta avremmo vissuto un profondo disequilibrio.
Se dunque l’istinto vitale ci chiama ad apprezzare i paradossali benefici di questa reclusione, al tempo stesso, però, non possiamo rimuovere il pensiero dei troppi deceduti, dei tanti medici, infermieri e sanitari che rischiano la pelle o i tanti anziani abbandonati nelle RSA o i tanti single che a Milano (1 su 3) si trovano a sostenere il forzato isolamento in solitudine. Questo per parlare dell’oggi sanitario, senza indagare le conseguenze economiche imponderabili di domani.
Ma nella ridda di impressioni e riflessioni che hanno costellato la vita di tutti, anche nel magma indistinto della mia mente alcune di queste si sono imposte più di altre. E volendo strutturare un pensiero, sono partita da una premessa di ordine temporale. La prospettiva che ci si pone di fronte potremmo considerarla di breve, medio e lungo periodo. Nel breve siamo nell’emergenza e, se non siamo più bravi dei cinesi che ci hanno messo 5 mesi a venir fuori dall’emergenza, non prima di giugno (ipotesi peraltro ventilata anche dal Prof. Galli dell’Ospedale Sacco di Milano) potremo forse anche noi concludere questa fase di isolamento radicale.
Il punto è che usciti da questa emergenza, inizierà la fase della convivenza, quella con il virus. Perché forse una cosa non è stata abbastanza ribadita, e cioè che scampato il pericolo del collasso delle strutture sanitarie, rimane però sempre in agguato il pericolo 0, cioè il pericolo per la vita umana, perché questo è un virus che si è dimostrato ampiamente letale. Quindi convivere con il virus vuol dire comunque convivere con il rischio di morire. Il che significa che nel medio periodo saremo pur sempre costretti a stare isolati dietro un monitor, ad indossare le mascherine imbavagliati come prigionieri, ad attuare il distanziamento sociale, a fare la fila davanti a un mercato, a subire periodici, reiterati periodi di lock down. Non potremo ballare il tango nel suo caldo abrazo, non potremo prendere in braccio i nipotini, forse gli adolescenti rimarranno distanti dai loro primi amori, addio ai salotti letterari conviviali, alla gioia della festa e alla mania telestica…
Insomma ridotti a una vita sacrificata, innaturale, sostanzialmente medicalizzata. Questo, almeno, fintanto che non si troverà un vaccino (e una volta trovato, ci vorrà un anno, un anno e mezzo perché sia a disposizione della popolazione, ma potremmo anche non trovarlo come è accaduto per l’HIV). Ma proviamo ora a fare una proiezione di lungo periodo. Quello che potrebbe essere stato questo periodo di sacrifici, diciamo della durata di un anno e mezzo, non vorrei che venisse preso a pretesto dai colossi globalizzati della digitalizzazione per implementare una serie di spinte di fatto già in atto per permeare la nostra civiltà nel senso di una ulteriore virtualizzazione della nostra vita. Io spero che usciti da questo periodo difficile la gente tornerà, al contrario, a dare ancora maggior valore alla stretta di mano, all’abbraccio, al bacio, alla carezza. E che non si lascerà indurre in tentazione nel senso di pensare “Ah com’è bella la realtà virtuale!” (Gaber).
L’abbiamo sperimentata, abbiamo la comoda spesa a domicilio, abbiamo lo smart working, abbiamo persino i salotti letterari on-line! “Com’è bella la realtà virtuale!” Ecco, io non vorrei che cadessimo in questa trappola, di scambiare uno strumento necessario in una congiuntura straordinaria per una soluzione strategica eretta a sistema in condizioni di normalità. Vorrei al contrario che avessimo capito che non è quella la direzione in cui spingere l’evoluzione della nostra civiltà, sempre più lontana dalla natura, ostile all’ambiente, sempre più verso la robotizzazione, la digitalizzazione, le radiazioni delle pervasive tecnologie 5G! Ché, al contrario, è necessario riavvicinarsi alla natura, fare scelte economiche ambientali, ritrovare la solidarietà tra umani e non solo, in una strategia di pacifica coesistenza (e non di sfruttamento) con gli animali, le piante, l’ambiente, il cosmo nel suo complesso.
Qualcuno potrebbe obiettare che certe tecnologie, lo smart working da casa ad esempio, potrebbero alleggerire il carico o l’alienazione del lavoro (anche se ho imparato a diffidare della parola smart, da quando è stata associata al lavoro flessibile e precarizzato). Ma qui veniamo al punto di un’ulteriore riflessione. Chi decide la riorganizzazione del lavoro? Ne abbiamo un esempio oggi, con il team diretto da Colao (ex AD di Vodafone) che, secondo le parole del Presidente del consiglio, dovrà “modificare le logiche dell’organizzazione del lavoro sin qui consolidate, di ripensare alcuni radicati modelli organizzativi di vita economica e sociale”. Chi decide – dall’alto – sono Docenti universitari, Ricercatori, Dirigenti d’azienda, Consulenti economici, Presidenti, Amministratori Delegati, certamente depositari di consolidate esperienze e competenze…ma i lavoratori? Dov’è la voce – dal basso – dei lavoratori? È solo un esempio, ma che ci fa capire una questione più generale. Come facciamo noi cittadini a incidere veramente dal basso sul processo decisionale, in modo tale da consentirci di tracciare gli assi strategici della nostra civiltà?
In quest’epoca di pandemia ho molto riflettuto in realtà sulla inadeguatezza della politica, così come oggi è concepita, al fine di consentirci di prendere decisioni strategiche in merito al modello antropologico della nostra civiltà. Piuttosto si ha come la sensazione che le decisioni importanti, strategiche, vengano prese in un altrove, lontano dai contesti ufficiali della politica, e come se noi cittadini venissimo messi di fronte al fatto compiuto. Nessuno ci ha chiesto, per dirla con Hillman, quanto volessimo inseguire unilateralmente Hermes e quanto volessimo invece ristabilire un bilanciamento con l’intima quiete di Vesta; quanto volessimo spingerci nel tempo lineare e quanto avessimo bisogno di un radicamento nel tempo ciclico. E in questo la tecnologia l’ha fatta da padrona. Le reti 5G chi ci ha chiesto se le volevamo? Chi ci ha chiesto di piantarle sul nostro territorio? Eppure sono già tutte lì schierate dalla pianura padana alla dorsale appenninica fino a Palermo.
Chi ci ha chiesto di vendere l’oro blu, l’acqua del nostro Sud Italia alla Francia? Chi ci chiede se vogliamo che la ricerca, soprattutto quella sanitaria e quella ad alto impatto bioetico, debba essere condotta da enti privati a scopo di profitto o non invece da enti pubblici per il bene collettivo (cfr. l’art. 32 della Costituzione sulla salute “fondamentale interesse della collettività”)? Chi ci interpella se non vogliamo invertire la rotta di un modello produttivo che sta aggravando inquinamento, buco dell’ozono, mutazione climatica, incrinando l’equilibrio ambientale e ingenerando uno scenario pandemico a ondate sempre più ravvicinate? E ancora chi ci chiede se non preferiremmo devolvere le spaventose voci di spesa militare in favore della sanità pubblica o del risanamento ambientale? E la “potenza di fuoco” tanto rimbalzata nei tg e nei talk show? Quasi si fossero fregiati – dal Presidente del Consiglio ai vari giornalisti – della simbologia della guerra per un inconscio bisogno di valore e di potenza! (Non certo i medici e gli infermieri che forse erano gli unici giustificati a parlare di un’emergenza di guerra, assediati com’erano dal continuo afflusso di ricoverati, intubati, moribondi come fossero stati al fronte!).
Ma il punto che dovrebbe far riflettere è il seguente: perché il linguaggio della guerra, spesso gratuito, è così ambito? Perché in esso si manifesta l’intima essenza di questa civiltà patriarcale che si fonda sul dominio e sulla volontà di potenza, dei capi, degli stati, della corsa agli armamenti…! È quello che vogliamo? Queste logiche mortifere, queste grandi scelte strategiche (si pensi anche solo che Internet nasce in ambiente militare) passano sopra la nostra testa. In buona sostanza la politica dei partiti e della c.d. democrazia rappresentativa si è dimostrata inadeguata a farci scegliere, a farci decidere in senso strategico dell’indirizzo tecnologico, dell’indirizzo ambientale, per non parlare del modello economico o sistema neoliberista fondato su una presunta crescita (di pochi a discapito dei molti), modello che appare ancora oggi indiscusso quando Confindustria spinge perché si riparta subito comunque (anche prematuramente, a dispetto dei morti e del rischio di morte) più forti che pria.
Ecco perché parlo di inadeguatezza della politica, come se il cappotto della civiltà venisse tagliato in altra sartoria, e alla politica ufficiale – e ai cittadini che ci credono – lasciassero solo la scelta delle chiusure lampo o dei bottoni, di un po’ più o un po’ meno di stato sociale, di qualche tassa in più o in meno. Allora il problema che si pone è di quale nuova politica abbiamo bisogno, di quale nuovo modello di partecipazione al processo decisionale abbiamo bisogno per poter veramente imprimere un indirizzo strategico a un mondo che possa dirsi abitabile. Io non lo so, ma è come se avessimo bisogno di una nuova Costituente, e in via permanente, come se, a rinforzo degli istituti di democrazia diretta già in essere (petizioni e referendum), cercassimo nuovi strumenti, istituti della politica, per fare affiorare dal basso una nuova visione e nuove scelte di valore (anziché vedercele calare dall’alto come da deus ex machina, come se tutto il reale fosse razionale). Ecco, io vorrei che uscendo dalla pandemia noi riuscissimo a mettere a fuoco questa grande esigenza: di metterci alla ricerca di nuovi strumenti decisionali per una nuova politica realmente partecipativa capace di immaginare da subito la civiltà nova che ci attende.
Milano, 12 aprile 2020
Gabriella Galzio
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Massimo Pamio
ALL’UOMO DEI NOSTRI GIORNI E A TUTTI I POPOLI DELLA TERRA
Decalogo dell’uomo se vorrà futuro
1) Fino a che tutte le nazioni non faranno sedere sui loro Parlamenti un rappresentante delle associazioni ambientaliste e umanitarie e delle minoranze etniche, linguistiche, religiose e un rappresentante dei poveri, l’uomo non avrà capito nulla e dunque sarà destinato all’estinzione,
2) Fino a che tutti i Comuni non creeranno una commissione ambientale che vigili e decida sulla realizzazione di opere che comportino un intervento sul territorio,
3) Fino a che tutti i Governi del mondo non indichino nelle loro Costituzioni che la nazione è basata sui principi della gentilezza, del rispetto, del bene comune e della solidarietà,
4) Fino a che i Governi non riconoscano come “patrimonio della Terra” le foreste vergini dell’Amazzonia e dell’Indonesia concedendo un indennizzo annuale ai Paesi in cui insistono quelle superfici, che non dovranno essere sfiorate da passi umani,
5) Fino a che i Governi non riconoscano che bisogna creare una nuova economia etica, circolare, sostenibile, solidale, smantellando tutti gli attuali meccanismi commerciali,
6) Fino a che l’umanità non accolga l’uso di una moneta unica mondiale il cui possesso spetti ai popoli,
7) Fino a che l’uomo non comprenda che bisogna tornare a un’economia non solo agricola ma anche energetica a chilometro zero,
8) Fino a che l’uomo non comprenda che bisogna creare un’energia non inquinante favorendo invenzioni senza bloccarne la realizzazione,
9) Fino a che l’uomo non comprenda che la salute dell’uomo dipende da quella del pianeta, che la salute di ogni individuo è sacra, che l’esistenza di ogni individuo va rispettata al di là di ogni sua credenza, che ogni individuo è collegato all’altro strettamente e che la salvezza di ciascuno di noi dipende dalla salvezza dell’altro,
10) Fino a che l’uomo non comprenda che la felicità dell’individuo dipende da quella della comunità, e che la felicità comune è l’unica meta verso cui tendere, l’uomo non avrà capito nulla e dunque sarà destinato all’estinzione.
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Fabia Ghenzovich
Come in un film d’epoca
gli alieni dunque siamo noi
sterminati dal virus. Noi
i parassiti che infestano
il pianeta in fiamme
le stellette sventolando
dell’apocalisse
che ci sta a pennello addosso.
Questa implacabile
immobilità a risucchiarci
nel disordine delle stanze
in sillabe ruffiane
che del vuoto esplorano un nuovo
senso carnale insomma evidente
che almeno un poco brilli
la vita non soltanto
differita al solito refrain
di un somaro occhi bassi e spallucce
che tra sé e sé bofonchia
è sempre meglio di niente.
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Raffaele Urraro
La vita asintomatica
il cielo è più nero stasera
e difatti si vede soltanto
il buio oltre le tenebre
non mi sono mai sentito
così provvisorio
come sperduto nella bocca di una nuvola
anche stasera
come ieri
come domani
la morte vola disinvolta
nell’aria ferma
mentre il vento se ne sta
chissà dove
stordito e incapace
di portare un soffio un sorriso
o un po’ di amore
la terra che produce la vita
produce anche la morte
ma non lo sa
mentre noi
gettati su queste sponde
a volte rigogliose
a volte secche come
pane ingiallito
navighiamo a vista
e non sappiamo neanche
se marciamo verso un abisso
o verso un punto imprecisato
dove nasce il sole
e la vita è diventata anch’essa
asintomatica
: non ha parola
che ci consoli
non ha sguardo
che ci conforti
non ha sorriso
che ci sfiori
ma morire da soli
è uno schiaffo alla vita
perciò ci resta soltanto
la forza del cuore
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Adam Vaccaro
(Vilma Venturi, classe 1920 di Castiglione di Romagna, staffetta della Resistenza e prima donna giornalista della Rai,
ci ha lasciati il 5 aprile 2020)
Lettera di Vilma
Ciao cari miei! Ah che viaggio è stato
per me pieno di ardori tra i tanti freni!
È questo solo che ora ricordo mentre
corro libera in una immensità che –
che non immaginavo nemmeno
nei miei più furenti andirivieni
in bicicletta sonante come ‘na
bagnarola – ridacchiava mamma
Nerina lumandomi accaldata nel suo
forno davanti alla bresa che avvampava
il pane e un po’ anche me dicendo va là
che ‘rivi come ‘n’oca affannata all’alba! –
Ah quell’Alba, quell’Alba rinata come
il Natale di primavera degli anni ‘40
dopo la cacciata di topi e tedeschi
A caccia di noi che cantando bella ciao
gridavamo viva la Patria e nascondevamo
armi e salami e formaggi in cunicoli che
solo noi sapevamo Resistenti con quel
vento dentro – che ci ha guidato fino a
questa palude senza guida e senza idee
evirata di vita e colma solo di mille invisibili
virus – a voi spetta il tempo di inventare un vento
capace di liberare l’aria e i vostri cuori spersi – è
difficile come per noi allora in quel tempo così
lontano eppure per me ancora così vivo che
che mi dà ancora il fiato di dirvi, forza! la vita è
ancora vostra e sta sola nelle vostre mani – solo
questo è il regalo che mi aspetto bei burdeli
mentre volo libera in questa terra immensa e nuova
come in quell’alba rossa di Romagna di tanti anni fa!
8 aprile 2020
Molto pertinente l’intervento di Gabriella Galzio, che esamina, tra l’altro, le ragioni – meglio, le “non ragioni” – per le quali il linguaggio della guerra, spesso gratuito e confuso, risulta “ambito” e, soprattutto, molto seguito dai lettori.
Per quanto riguarda il magnifico “Decalogo dell’uomo se vorrà futuro” di Massimo Pamio, ritengo che dovrebbe essere studiato nelle scuole.
Interessantissime le poesie di Fabia Ghenzovich e Raffaele Urraro.
Mi hanno commosso i versi di Adam Vaccaro dedicati alla partigiana Vilma Venturi. Versi tanto più efficaci e toccanti perché l’autore fa parlare direttamente Vilma: è lei, la staffetta della Resistenza, che esorta e rincuora noi, facendoci sentire sempre più piccoli e meschini.