SPOSTARE IL CENTRO DI GRAVITA’ DEL DISCORSO POETICO
Giorgio Linguaglossa
Milo De Angelis Quell’andarsene nel buio dei cortili Milano, Mondadori, 2010
Scriveva Franco Fortini nei suoi «appunti di poetica» nel 1962: «Spostare il centro di gravità del moto dialettico dai rapporti predicativi (aggettivali) a quelli operativi, da quelli grammaticali a quelli sintattici, da quelli ritmici a quelli metrici (…) Ridurre gli elementi espressivi. La poesia deve proporsi la raffigurazione di oggetti (condizioni rapporti) non quella dei sentimenti. Quanto maggiore è il consenso sui fondamenti della commozione tanto più l’atto lirico è confermativo del sistema».
Ritengo queste osservazioni di Fortini del tutto pertinenti anche dopo cinquanta anni dalla loro stesura. I problemi di fondo non sono cambiati e non bastano cinquanta anni a modificare certe invarianti delle istituzioni stilistiche. Vorrei dire, per semplificare, che certe cattive abitudini di certe istituzioni stilistiche, tendono a riprodursi nella misura in cui tendono a sclerotizzarsi certe condizioni non stilistiche. Al fondo della questione resta, ora come allora, il «consenso sui fondamenti della commozione». Insomma, attraverso la lettura e l’ingrandimento di certi dettagli stilistici puoi radiografare e fotografare la fideiussione stilistica (e non) che sta al di sotto di certe valorizzazioni stilistiche; ed anche: che certe retorizzazioni sono consustanziali alle invarianti del gusto, del movimento delle opinioni, alla adesione intorno al fatto poetico… insomma.
Non c’è dubbio che nella poesia di Milo De Angelis si rinviene uno sbilanciamento dei rapporti poetici in favore dei «rapporti predicativi (aggettivali)» rispetto a «quelli operativi», ovvero, «sintattici», così che il punto di equilibrio passa dai rapporti ritmici e sintattici a quelli dis-metrici, dalla funzione sostantivale a quella aggettivale. In questo senso, il primo libro di De Angelis Somiglianze (1976) è un esempio impareggiabile, e mai più eguagliato, (nonostante una quarantennale imitazione da parte di una innumerevole schiera di epigoni), di spostamento dei rapporti poetici dalla funzione sostantivale a quella aggettivale. Si direbbe che il «nuovo» modo di intendere la funzione poetica inaugurato dal poeta milanese sia stato baciato dalle labbra di un successo onnilaterale e incondizionato durato quasi trentacinque anni e, si ritiene, che debba durare almeno per altrettanto in quanto certi disequilibri di fondo delle istituzioni stilistiche novecentesche sono, di fatto, rimasti immutati. Voglio dire che certo «consenso» «sui fondamenti della commozione» (come diceva Fortini), è rimasto immutato (e destinato ad essere immutabile) perché sono rimasti immutati i sottostanti fondamenti, appunto, della «commozione»: il registro lirico di De Angelis nell’arco di un trentacinquennio si è venuto così a sclerotizzarsi in una esondazione maggioritaria del principio aggettivale rispetto all’altro piatto della bilancia del principio sostanziale e sostantivale. E qui sarebbe il caso di andare ad indagare sul perché la poesia italiana del tardo Novecento abbia subito la esondazione del principio aggettivale senza neanche tentare una linea di resistenza almeno difensiva. Non voglio dire che ci sia stata una supina e generalizzata accettazione del «nuovo» uso della funzione poetica perché una tale affermazione non sarebbe vera, ma, di fatto, tale «linea di resistenza difensiva» è rimasta inascoltata, è rimasta minoritaria. Come non pensare alla poesia di un Ripellino o a quella di una Helle Busacca o a quella di Maria Rosaria Madonna, di Salvatore Toma, di Giuseppe Pedota e di Maria Marchesi (tanto per citare soltanto poeti morti) se non come un tentativo di raddrizzare lo sbilanciamento dei rapporti tra le istituzioni stilistiche?
Di fatto, però, (lo so, forse è paradossale) è avvenuto che una poesia di indubbia caratura come quella di De Angelis abbia finito per ridurre (ulteriormente) gli spazi di manovra e di affermazione di una poesia «diversa» che si richiamasse alla via fortiniana del principio sostanziale rispetto a quello aggettivale.
Tutta incentrata sul piano emotivo e sulla commozione emozionale, la poesia di De Angelis rivela una predilezione, ed un uso asintotico, per l’impiego di una aggettivazione sghemba, che taglia obliquamente il sostantivo…una aggettivazione incantatoria, convalescenziale, febbricitante. Già il titolo con «quell’andarsene nel buio dei cortili», dove «la luce parlava. Sulla tua fronte/ il prodigio. La nudità/ di tutto il sangue. Un vestito…», è sintomatico di quella ricerca dell’originalità a tutti i costi… quando si sa innanzitutto che la luce non parla e non può parlare, che il sangue non può mai essere nudo, che la fronte non fa nessun prodigio e così via… i metaforismi di De Angelis sono dei travestimenti che ormai non sorprendono più nessuno, sono un linguaggio che rivela la sclerosi multipla della significazione, un impiego telefonato delle retorizzazioni, un uso abilissimo dell’abbecedario delle variazioni del principio aggettivale.
Di fatto, e nei fatti, la poesia di De Angelis ha contribuito in modo determinante a spostare il centro di gravità della poesia italiana del tardo Novecento verso, come detto, il piatto della raffigurazione dei sentimenti e delle emozioni, delle effrazioni delle emozioni mediante l’impiego di metaforismi e una imagery rigorosamente «intensificata». Scrivere che «Il citofono chiede ancora la tua voce», è una brillante ma scontata e prevedibile inversione dei nessi logici e causali del linguaggio strumentale, ma quando frasari simili invadono la totalità del testo poetico si ha, per contraccolpo, una desertificazione, un isterilimento della significazione: forse sarebbe stato più vantaggioso invertire nel modo seguente: «la voce chiede ancora il citofono», il che avrebbe avuto più senso.
Ma quand’anche, sta di fatto che questo impiego generalizzato e, ritengo, quasi inconsapevole da parte dell’autore milanese, di inversioni, ellissi, accentuazioni, iperboli, ablativi al posto di nominativi, e viceversa produce l’affievolimento della attenzione critica da parte del lettore intelligente il quale viene bersagliato e soggiogato e infine assopito da una enorme massa di inversioni logico-sintattiche del tutto gratuite ed arbitrarie e di una produzione irriflessa di espressioni aggettivali. Potrei continuare con centinaia di altri esempi ma sarebbe un esercizio scolastico e stucchevole. Sempre per restare nella stessa composizione a pag. 55 si legge:
«Un vestito./ i gialli, gli azzurri,/ un colletto. Il citofono chiede ancora/ la tua voce. Se non parli,/ tutto si oscura. Solitudine saliente./ Solitudine innata…».
Non c’è dubbio che qui siamo dinanzi ad un fenomeno di idioletto, di sillabazione in stato semi ipnotico, di lallismo in stato di veglia…la poesia è ridotta a veicolare lo stato semi comatoso della coscienza, del dormiveglia, degli irrazionalismi e delle pulsioni, di incomprensibili lacerti di memoria.
Si ha la sensazione, leggendo questo tipo di poesia, che il mondo sia diventato più lontano e incomprensibile.
Giorgio Linguaglossa
Caro Giorgio,
ho letto la tua recensione a De Angelis e la trovo assai pertinente.
Penso che la questione poesia aggettivale/ poesia sostanziale che tu poni a fondamento della nuova raccolta di Milo sia la vera e profonda antinomia in cui si dibatte la poesia attuale per uscire dal Novecento. Ho già avuto modo di dirti che ormai chi scrive poesia lo fa travestendo i propri pensieri (di cui spesso non c’importa un fico secco) con tutti gli strumenti della retorica (altro che stilistica!). In questo senso la poesia attuale è una via di mezzo fra il pensare filosofico e il cascame dei rituali apotropaici: ha un ruolo pericolosamente ancillare rispetto all’uno e all’altro. “Il citofono chiede ancora la tua voce” non dice nulla di più che “vorrei sentire ancora la tua voce al citofono”. Embè? C’era bisogno di metterlo in versi? Allora davvero le scorciatoie “tecniche” servono soltanto ad addormentare il lettore e a sottometterlo.
Per altro verso la fortiniana poesia sostanziale ripropone la priorità della poetica rispetto alla poesia (il critico prima del poeta! E’ avvenuto spesso, e il risultato è rimasto puntualmente sepolto nei repertori o nei manuali della storia della critica). Non solo: di quel verso di De Angelis forse Fortini accoglierebbe appena la versione scheletrica, l’ossatura della lingua. Questo ci ha portato inevitabilmente entro il vicolo cieco del minimalismo, che tu irridi e paventi. L’indicazione fortiniana rende la poesia un affluente del grande corso della dialettica storicistica, fino all’estuario.
Eppure il Novecento non è morto. Forse non siamo riusciti a capire fino in fondo, per esempio, la lezione palazzeschiana dei Cavalli bianchi dove la parola è oggettivante e ogni sillogismo è stato delegato ad altri. Questo signore è stato così modesto da occultare nel pandemonio del futurismo quanto di fecondo e salutare rimaneva in patrimonio (ti ho anche detto come la penso, a proposito di Mele rosse). Ci sarà modo di riprendere il percorso rimasto interrotto? Ogni volta che il critico ha indicato una direzione e gli scrittori di poesia l’hanno seguita pedissequamente, la voce si è strozzata in gola. Perché allora non rileggiamo la grande poesia de Novecento (e non solo) e proviamo a farne – davvero e non frettolosamente – il punto; a rivelarne le lucentezze che ancora propagano riflessi e barbagli? Dobbiamo continuare a sostenere i borborigmi del parassitismo professorale che impiega a vanvera il tempo (e il potere) nelle università? E lasciamo a certi sacerdoti paludati la celebrazione funeralizia della morta poesia, ma che ci lascino però in pace! I “critici” dovrebbero abbandonare un po’ della loro protervia quando propongono alternative. Io penso che spetta a loro soprattutto ripulire lo stagno con la voracità dei piranha. Sono un antimoderno?
Roma, 21 febbraio 2011
Ciao, Luigi Manzi
Se “la poesia deve proporsi la raffigurazione di oggetti (condizioni rapporti) non quella dei sentimenti” e se preme la necessità di ricucire con i bagliori del Novecento, allora la soluzione è presto trovata e si riassume in un nome: Antonio Pizzuto.
Ma non credo sia esercizio utile, almeno al di fuori del ruminare storico-accademico, al di fuori dello studio letterario.
Il vero problema è quello che cita Luigi Manzi: dove sono i piranhas che devono ripulire lo stagno?
Scrivevo altrove: “…chiaro che a questo punto del ragionamento è necessario coinvolgere la critica, l’occhio esterno –in senso figurato- capace di mettere insieme i pezzi del puzzle della poesia contemporanea e di darne una visione d’insieme, una collocazione e una matrice di riconoscibilità.
[…]
Serve lo sforzo in questo senso, uno scatto di reni per non trovarci fra tre lustri a parlare degli anni Dieci.
[…]
Prima però bisogna distillare una galassia organizzata da una nebulosa caotica, questo il compito impegnativo che la critica non assume -eccetto casi sporadici- e che invece è urgente assuma…”
Mentre si aspetta, però, il mondo non si ferma, prosegue la sua corsa e nuovo materiale poetico viene continuamente prodotto. A questo ritmo evolutivo andare a caccia delle derivazioni novecentesche della poesia contemporanea riesce, al massimo, a far rallentare il passo. In fondo nessuno può essere davvero immune alla cultura venuta prima, e allora anche la poesia di oggi conserverà sempre e comunque una certa impronta, un certo dna tramandato, che sia evidente o meno, che sia storicizzato o meno, che sia stato sottoposto a critica o meno.
Nessuna preoccupazione in questo senso, il Novecento non è morto (come non lo è la poesia), è stato digerito e siamo passati al pasto successivo. Affermarlo non è dichiarare “modernismi” o “antimodernismi”:
Antico principio
(al Maestro Battiato)
L’universo è una ballerina
bizzosa in punta di piedi
cambia la nota cambia equilibrio
immobilità unico vero peccato
contro lo spirito, il centro
di gravità permanente non esiste.
Probabilmente l’unico vero problema è proprio l’immobilità, la mielosa volontà di rimanere invischiati in un passato glorioso ma pur sempre passato, e non riuscendovi per motivi che sono insiti nella natura delle cose umane, allora ci si accontenta di celebrarlo senza rinnovamento.
L’esempio socio-architettonico è Venezia, già bersaglio del Manifesto futurista (peraltro, quello sì, ancora valido quando si conosce a fondo la città e i suoi intestini). Ma in realtà l’esempio siamo tutti noi (italiani), che non riusciamo a divincolarci dalla preponderanza del nostro “ego museale”, recinto dove abbiamo messo al riparo la produzione artistica passata da esibire come carta d’identità internazionale, dimenticando che abbiamo la responsabilità di traghettare verso il futuro la produzione culturale di questo paese.
Ecco, trovo che il peggiore dei mali sia continuare a dibattere sull’opportunità di riallacciare con il Novecento o meno, invece di guardare quello che succede ora fuori dalla finestra. Che comunque succede.
Lorenzo Pezzato
Ringrazio Luigi Manzi e Lorenzo Pezzato, per i loro approfonditi articolati contributi, diversi dai soliti appuntini di cortesia.