Un lucido e – come al solito – documentato articolo di Travaglio sulle miserabili vicende tra le più alte cariche della Stato e la mafia, mistificate dai più prestigiosi pennivendoli e giornali (che rivendicano l’appartenenza al mestiere più antico).
A.V.
Memento Mori
Marco Travaglio sul Fatto quotidiano di domenica 21 luglio 2013
Una combriccola di giureconsulti – tutta gente seria, tant’è che s’accompagna a una donna cannone con barba, rossetto e cartello al collo “Siamo tutti puttane” – ci accusa di aver nascosto l’assoluzione dell’ex generale Mario Mori e dell’ex colonnello Mauro Obinu dall’accusa di favoreggiamento mafioso per la mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995-’96. Naturalmente è vero il contrario: il Fatto è il quotidiano che ha dato il maggior risalto alla notizia, dedicandole il secondo titolo di prima pagina subito sotto lo scandalo italo-kazako. Ma ciò che davvero disturba è che il Fatto la notizia l’ha data giusta. Mentre gli altri raccontano che, siccome li hanno assolti, Mori e Obinu non han fatto niente di male, dunque la Procura s’è inventata tutto, noi abbiamo scritto l’unica verità che al momento, in attesa delle motivazioni della sentenza, emerge dal dispositivo: “Il fatto non costituisce reato”. Se i giudici avessero scritto “il fatto non sussiste” avrebbero bocciato la ricostruzione fattuale dei pm e del gup. Se avessero scritto “per non aver commesso il fatto” l’avrebbero confermata, attribuendola però a persone diverse dai due imputati. Invece l’han confermata escludendo il “dolo”, cioè la volontà di favorire Cosa Nostra.
Il “fatto” che “non costituisce reato”, ma è stato commesso dai due alti ufficiali, è una serie di condotte elencate dalla procura nel capo d’imputazione: e cioè la mancata cattura di Provenzano sebbene il boss confidente Luigi Ilardo avesse svelato al colonnello Riccio un casolare di Mezzojuso frequentato dallo Zu Binu; e la mancata informazione alla Procura della concreta possibilità di arrestarlo; il tutto appena due anni dopo la mancata perquisizione del covo di Riina da parte dello stesso Ros che ben si era guardato dall’informare la Procura sul ritiro del servizio di sorveglianza dinanzi al nascondiglio di Zu Totò. Tutto ciò è avvenuto davvero. Per due volte il Tribunale l’ha messo nero su bianco, ma per due volte ha respinto il movente indicato dalla Procura: non perquisire il covo di Riina, lasciarlo perquisire dai mafiosi, non arrestare i mafiosi che lo perquisivano, tenerne all’oscuro i magistrati, e poi non catturare Provenzano e nascondere ai magistrati anche quella possibilità è – per i giudici – solo una serie impressionante di sviste, sbadataggini, equivoci, amnesie.
Cioè, un corpo speciale specializzato nella lotta al crimine organizzato è rimasto, negli anni cruciali delle stragi e del dopo-stragi, nelle mani di un branco di fessi, incapaci e dilettanti allo sbaraglio. La qual cosa dovrebbe non rassicurare, ma preoccupare vieppiù non solo i diretti interessati, che dovrebbero essere i primi a ribellarsi a queste sentenze che li dipingono peggio dell’ispettore Clouseau. Ma anche i loro fans a mezzo stampa, che dovrebbero vergognarsi di adorare simili idoli di cartapesta. Ma i fans, tutti riuniti attorno al Platinette Barbuto, non sanno nulla di questo processo, anzi non sanno proprio cos’è un processo, né sanno leggere le sentenze e, anche se le leggono, non le capiscono. Il povero Claudio Cerasa, noto improvvisatore del Foglio, non conosce neppure il nome degli imputati (“Mario Obinu” si chiama Mauro: Mario è Mori) ed è convinto che il “ruolo chiave lo ricopre il figlio di Don Vito Ciancimino” (no, caro: il ruolo chiave qui lo ricopre il colonnello Riccio: Ciancimino è chiave nell’altro processo, quello sulla trattativa). Il lucido Macaluso, sull’Unità, s’inventa un tal “colonnello Ricci” (gli dettano i pezzi al telefono, ma non sente bene) e poi scrive che la sentenza dà ragione alle “rigorose argomentazioni del Prof. Fiandaca” (che però non ha mai fatto considerazioni sul processo Mori, ma sull’altro, quello sulla trattativa). Il quale Fiandaca confessa finalmente al Corriere di non aver letto gli atti né dell’uno né dell’altro processo, ma solo “la memoria dei pm, venti paginette” (un bignamino da studenti ripetenti, col caldo che fa a Palermo).
Libero titola: “Mori assolto, il patto Stato-mafia è una panzana” (ma qui l’accusa non era il patto, era la mancata cattura di Provenzano, che è solo una delle mille presunte conseguenze del patto). E la macchietta con le mèches, sempre molto informata, svela che Mori era imputato perché “non fece perquisire un casolare dove non c’era nessuno” (ma il covo dove non c’era nessuno è quello di Riina dopo l’arresto; in quello di Provenzano, semplicemente, c’era Provenzano). Poi sostiene, come Macaluso, che l’assoluzione “significa solo una cosa: che non dovevi indagare, non dovevi procedere” perché “giustizia è non fare processi inutili”. Dunque, a suo avviso, le indagini e i processi non si fanno per accertare se Tizio, sospettato di fatti gravissimi (tipo non catturare Provenzano), sia colpevole o innocente: prima si accerta che Tizio è colpevole e verrà condannato fino in Cassazione, poi si inizia a indagare; altrimenti non si comincia neppure. Separare le carriere non basta: bisogna proprio togliere le indagini ai pm e affidarle ai medium. Il più informato, però, rimane quello col rossetto: premette che non arrestare Provenzano è “ordinaria amministrazione” (ci mancherebbe), poi sostiene che “la sentenza Mori fa crollare” anche “le accuse a Mancino e Conso”. I quali però sono accusati di altri reati (falsa testimonianza) nell’altro processo per aver mentito su tutt’altri fatti (Mancino sul dissenso di Martelli sulla trattativa e sull’avvicendamento con Scotti al Viminale; Conso sulla revoca del 41-bis a 340 mafiosi detenuti). Ma presto il Platinette ci spiegherà che la sentenza Mori scagiona anche Michele Misseri per il caso di Avetrana, Amanda e Raffaele per il delitto di Perugia e Alberto Stasi per il giallo di Garlasco.
Il guaio è che, come dice Mario Brega a padre Alfio in un famoso film di Verdone, “je mancano proprio i fondamentali”. E dire che, per conoscere il “fatto” che per i giudici “non costituisce reato” ma è accertato, basterebbe leggere il capo d’imputazione. È talmente breve che ce la può fare persino Fiandaca e lo può capire financo Ferrara (Cerasa no). Testuale: “Avere omesso di organizzare un adeguato servizio che consentisse l’arresto del latitante Provenzano in occasione dell’incontro con Ilardo… nonostante la preventiva conoscenza della programmazione dell’incontro e dell’elevatissima e già sperimentata attendibilità delle indicazioni confidenziali dell’Ilardo; omesso anche nelle fasi successive all’incontro… qualsiasi comunicazione ai magistrati della Procura di Palermo che coordinavano le attività della Polizia Giudiziaria per la cattura del latitante; omesso di attivare… attività d’indagine di qualsivoglia tipo finalizzata alla necessaria verifica della permanenza del Provenzano in quel territorio; omesso di attivare (nonostante le indicazioni fornite da Ilardo sui soggetti che in quel momento gestivano la latitanza del Provenzano: Napoli Giovanni e La Barbera Nicolò) mirata attività d’indagine di qualsivoglia tipo sui predetti soggetti per verificare quanto asserito dal confidente…”. Ecco, gentili giureconsulti: siccome il “fatto” accertato è tutto questo, ma chi l’ha commesso non voleva favorire la mafia, vi saremmo molto grati se, con l’ausilio del vostro spirito-guida, ci levaste questa semplice curiosità: perché il Ros non catturò Provenzano?
Dal Fatto quotidiano di domenica 21 luglio 2013 e da Pagine On-line, n. 70