IL TEMPO DEL NORD
RILEGGENDO IL DISCORSO LEOPARDIANO “SOPRA I COSTUMI DEGL’ITALIANI”
Vincenzo Guarracino
Gli Italiani, qualunque sia la loro classe di appartenenza, alle “classi superiori” non meno che al “popolaccio”, sono oggi i più cinici del mondo: “ridono della vita: ne ridono assai più, e con più verità e persuasione intima di disprezzo e freddezza che non fa niun’altra nazione”.
Privi di amor proprio e di orgoglio nazionale, “passano il loro tempo a deridersi scambievolmente, a pungersi fino al sangue”, tutti presi a combattersi l’un l’altro, in una sorta di bellum omnium contra omnes interminabile: questo perché ognuno, trincerato nel suo risentito individualismo, se non vuole essere travolto e oppresso, deve imparare a difendersi e combattere.
Cinismo, disprezzo, freddezza, indifferenza, superficialità, inettitudine, dissimulazione (con corollario di improvvisazione, disorganizzazione, provvisorietà, disordine, grettezza, “misantropia”, pressappochismo): qualità tutte da “paese senza”, non di un popolo che voglia essere “nazione” o “patria”, conseguenze della mancanza di una “società stretta”, quella di “un commercio più intimo degl’individui fra loro”, di una coesistenza che va oltre il soddisfacimento delle esigenze primarie ed è fondata sulle buone maniere, e della carenza di ogni spinta ideale e di un’etica civile capace di legare responsabilmente gli individuo alla società, sottraendoli al rischio della “misantropia” e alla coltivazione del proprio esclusivo, “pestifero” particulare di guicciardiniana memoria.
Pregiudizi, forse, preconcetti, ma in linea con tutta una pubblicistica d’epoca d’oltralpe (e non solo, se si pensa ad esempio al Goldoni della Vedova scaltra), che, a non voler scomodare Hegel, secondo il quale impietosamente “l’inganno e l’infamia sono qui a casa propria”, alla meglio sbrigava la questione italiana con giudizi come quello, tra divertito e scandalizzato, del viaggiatore settecentesco Pierre-Jean Grosley: “L’Italie est le pays où le mot ‘furbo’ est éloge”.
In un’epoca in cui “le nazioni civili d’Europa”, hanno “deposto gran parte degli antichi pregiudizi nazionali sfavorevoli ai forestieri”, che resistano tali stereotipi nei confronti degli Italiani non è cosa da sottovalutare.
Se poi a esprimerli in maniera allarmata è un Italiano, un Italiano non comune come Leopardi, è d’obbligo: tanto più sapendo che si tratta di uno che, nel 1824, l’anno della composizione del Discorso sopra i costumi degl’Italiani (“acutissimo, tumultuoso e spesso paradossale”, l’ha definito Walter Binni), da cui le affermazioni precedenti sono tratte, è immerso, come un “Eremita degli Appennini”, tra Operette morali e Zibaldone, nel perseguimento di una sua essenziale battaglia di verità, condotta per via fantastica e insieme riflessiva; di uno che il deserto e la “ruina immensa” del mondo circostante, la vita come desolante “serraglio di disperati” (come lo definirà nel Frammento sul suicidio, 1832), si applica eroicamente ad esplorarli ed esorcizzarli attraverso l’”avventura formale” di una scrittura, di volta in volta analitica ed appassionata, gelida e tagliente ma anche calda ed effusiva, di una scrittura insomma “senza nome”, incurante di abbellimenti e “cerimonie”, corrispondente ai moti del “sentimento”, oltre ogni settorializzazione e competenza di genere.
Una battaglia di “verità”, un impegno etico, di “civiltà”, per un ideale “risorgimento” dalla “barbarie”, dunque, per contrastare la “ragione geometrica”, il “cinismo”, “la strage delle illusioni”, con le armi solo di una corrosiva lucidità: davvero un “angelo” dalla spada sguainata, questo Leopardi del Discorso, “chiuso nella sua corazza” di intelligenza, come lo vedrà Walter Benjamin in una celebre pagina sui Pensieri.
Attraverso una diagnosi impietosa e spregiudicata, condotta con “la libertà e sincerità con cui ne potrebbe scrivere uno straniero”, programmaticamente “senz’animosità” e al tempo stesso appassionata: costruttivo, insomma, sorretto com’è dall’ansia di “ravvivare negl’Italiani” quell’essenziale “amore verso la patria”, da cui hanno principio “la probità e nobiltà” di un popolo degno di questo nome, come dichiara nella Prefazione alle Dieci Canzoni dell’edizione bolognese Nobili, si badi bene, dello stesso anno: una cosa nuova e imprevedibile rispetto a ciò che emergeva da tanti testi in prosa (lettere e pagine zibaldoniane) e in versi (le Canzoni cosiddette civili degli anni precedenti, All’Italia, 1818, Ad Angelo Mai, 1820, soprattutto) degli anni precedenti governati da uno sdegno a tratti anche patetico e velleitario dinanzi al “secol di fango” e alla “mediocrità” dei contemporanei, a testimonianza della mobilità dell’orizzonte teorico e morale, tutto in progress, “al presente”, dello scrittore.
Lucido e impietoso, disincantato, il ritratto che ne emerge degli Italiani, nel progressivo crepuscolo di ogni illusione e grandezza, con sullo sfondo, a specchio, le “altre nazioni” europee, “con più vita” e “con più società” rispetto a quanto non avvenga in Italia e con le quali si istituisce una sorta di confronto-scontro antropologico.
Lucidamente polemico, ma non al punto di non lasciare intravedere dietro la diagnosi dura e spassionata, come forse mai altrove in maniera così organica e argomentata, assieme a una nostalgia di verginità, un lievito diverso, una sollecitudine drammaticamente moderna per la “patria infelice” (A un vincitore nel pallone, 1821), proprio mentre si sofferma con sgomento di fronte alla “strage delle illusioni”, destinata a riecheggiare lividamente nel “silenzio nudo” del coevo Cantico del gallo silvestre, metafora assoluta dell’”arcano mirabile e spaventoso” dell’esistenza universale ma anche emblema del paesaggio morale e culturale dell’Italia contemporanea.
Un deserto senza consolazione, davvero, un “secol morto”, un “secol di fango” oppresso da una greve “nebbia di tedio”, da un’inguaribile “mediocrità”, quale appare al Leopardi della canzone Ad Angelo Mai: di questa Italia (un’astrazione, un nome vuoto, senza soggetto), forse oggi davvero è meglio “ridersi” come fanno gl’Italiani, senza bisogno di ulteriormente addentrarsi nell’esegesi dell’analisi leopardiana.
A meno di non soffermarsi su un punto, conclusivo ma non marginale nell’organismo complessivo del Discorso.
Mi riferisco al passaggio in cui l’anomalia dell’Italia rispetto agli altri paesi europei, quelli virtuosi della “rinata civiltà” del settentrione (“principalmente la Francia, l’Inghilterra e la Germania”), viene segnalata in termini che rivelano una loro intrigante importanza e attualità.
Oggi, dice, “sembra che il tempo del settentrione sia venuto”: come sottrarsi a una sensazione nuova di fronte a questo fantasma della “modernità”, che da qui aleggia e si protende sulla storia, disegnando una sorta di diagramma dell’ineluttabile marcia della civiltà dal meridione ai paesi del settentrione dell’Europa, come in una sorta di materialismo dialettico, in nome della “superiorità della loro immaginazione”?
C’è un che di oggettivo e al tempo di profetico in questa affermazione. Il rilievo assegnato a un Nord “civile” che sopravanza gli altri paesi “ne’ tempi della natura de’ moderni”, con l’Italia (assieme, ahinoi, anche a Spagna, Portogallo ed altri paesi dell’est europeo!) confinata nel confronto in condizioni di oggettiva inferiorità civile non meno che culturale, è l’elevazione del tema della “modernità” a dato necessario e inconfutabile oltre ogni negatività.
È in questo che risiede la vera novità, la parte teoricamente più originale del Discorso e l’attualità di questo Leopardi: in questa scommessa sulla “modernità”, un fatto, per niente “accidentale” e tanto meno effimero, ma che anzi, spogliato di ogni orpello di facile ottimismo, acquista i tratti della necessità di una nuova eticità, di una nuova “scienza dell’uomo”, intesa come nuovo modo di porsi di fronte alla vita con la consapevolezza della piccolezza e finitudine umana e insieme l’esigenza di un modo diverso di stare insieme con gli altri esseri, quell’”ultrafilosofia” che sembra essere prerogativa dei popoli giovani del Nord che posseggono tutto quanto è necessario per inaugurare una “rigenerazione” civile e morale (“le virtù, le illusioni, l’entusiasmo, in somma la natura”, Zib. 115).
Oltre “la strage delle illusioni”, oltre il riso illividito di Bruto, un “ridere” per esorcizzare le rovine e l’”infinita vanità del tutto”, Leopardi si protende, già “erta la fronte” e “renitente al fato”, nel presagio di nuove consapevolezze ed urgenze sentimentali ed etiche.