L’ESPRESSIONE GEOGRAFICA E IL CULO DELL’OCCIDENTE
di Franco Romanò
Il ministro della guerra Ignazio La Russa, il pagliaccio di guerra Silvio Berlusconi, l’ectoplasma di guerra Franco Frattini, il signore della guerra Massimo D’Alema, lo schizofrenico di guerra Umberto Bossi, l’imboscato di guerra Robertino Maroni e il cretino di guerra Walter Veltroni, hanno portato per la seconda volta in pochi anni l’Italia a partecipare a un conflitto bellico dagli esiti imprevedibili, provocando una crisi verticale e forse definitiva dell’Europa, nel mezzo di una crisi che non è più solo economica, ma anche energetica, culturale ed etica, come si dovrebbe comprendere di quello che è accaduto in Giappone. Alla fine delle certezze spocchiose e criminali, dei deliri di onnipotenza sulla sicurezza delle centrali atomiche e altre idiozie, non c’è niente di meglio di una guerra per risolvere i problemi.
Dopo la mirabolante impresa dei bombardamenti sulla Serbia che ha portato al potere in Kossovo una banda di criminali (l’UCK) dediti al commercio di droga e al traffico di organi di bambini e che ha regalato agli Usa la più grande base in Europa, ecco la nuova impresa: la guerra alla Libia, che per l’Italia sembra essere anche una sottile nemesi, visto che accade giusto nell’anniversario della prima invasione avvenuta nel 1911.
Per l’ennesima volta l’espressione geografica viola un trattato appena sottoscritto, visto che nei recenti e solenni patti d’amicizia sanciti con tanto di baciamano con il colonnello Gheddafi sta scritto che L’Italia “non concederà basi o parteciperà ad atti ostili nei confronti della Jahmailia.”
La disinvoltura delle classi dirigenti italiane, con il loro sovversivismo gaglioffo già denunciato da Gramsci, non è nuovo nella storia nazionale e ha precedenti illustri, così come il partire per un guerra alleati con gli uni per concluderla alleati con gli altri.
E gli altri non compresi nell’elenco cosa dicono? Si dividono su tutto, hanno persino dimenticato tutte le analogie che esistono fra questa guerra e le precedenti in Afghanistan e in Iraq su cui peraltro avevano protestato. Vendola chiede che si torni alla diplomazia e sarebbe di domandargli prima di tutto e chi lo stia chiedendo. Incapaci persino di esprimere una solidarietà viva e fattiva all’eroica popolazione di Lampedusa che giustamente protesta perché non riesce più a reggere l’impatto con la immigrazione. Andrà a finire che l’arcipelago variegato del pacifismo post bombardamenti dirà che i lampedusani sono un po’ razzisti e poco generosi, mentre occorrerebbe subito una forte iniziativa sia nei confronti dell’Europa perché si arrivi a una distribuzione dei profughi su tutti i paesi europei, accompagnato da adeguate misure. Ovviamente per fare ciò ci vorrebbe un governo più credibile di questo, ma potrebbero già essere qualcosa movimenti e anche manifestazioni che escano dal clichè stupidamente buonista del dobbiamo accogliere tutti, ancora più peloso e disonesto quando si sa benissimo che il ricatto leghista sul governo scaricherebbe sulle sole regioni meridionali il peso di questa ondata migratoria.
In ogni caso, che la sinistra filo imperiale vada fino in fondo nella sua deriva non è un male a questo punto, essendo incapace a tutto.
Detto questo bisogna cercare di ragionare su quello che è accaduto e che sta accadendo, che non è poi così difficile da comprendere come in troppi affermano, più per pigrizia o per attitudine a fare gli struzzi.
Le insurrezioni popolari di Tunisia ed Egitto che, pur non potendo vincere, avevano e hanno ancora motivazioni profonde e complesse che potrebbero riservare anche positive sorprese in futuro, sono del tutto diverse dagli avvenimenti di Libia.
In quest’ultimo caso, qualcuno che ormai ha un nome preciso (il Presidente Sarkozy e il primo ministro britannico David Camerun), ha lanciato un segnale a forze interne al regime del colonnello Gheddafi e ad altre esterne e tradizionalmente ostile come le tribù della Cirenaica, promettendo aiuti che sono stati in bilico fino all’ultimo perché il contrasto fra le potenze occidentali deve essere stato piuttosto aspro e probabilmente dettato unicamente da questioni di leadership. In Libia ci sono forze armate che si combattono, persino un inviato al di sopra di ogni sospetto come Lorenzo Cremonesi del Corriere della Sera e la giornalista svizzera Francesca Spinola hanno più volte detto, inascoltati, che in Libia i combattimenti sono fra due schieramenti entrambi armati. In un’intervista a Radio popolare Cremonesi ha detto con chiarezza che la definizione di mercenari è ridicola, una balla confezionata dalla propaganda. Ci vorranno dieci anni a smontare queste frottole come ce ne sono voluti dieci per scoprire che le famose culle con dentro i bambini, incendiate dagli iracheni a Kuwait city non erano altro che propaganda di guerra.
Le rivolte tunisine ed egiziane (certamente suscitate anche dal discorso di Obama al Cairo di due anni fa, ma che hanno radici profonde e popolari anche nei due paesi) sono state un duplice pretesto per scatenare quello che mi sembra un progetto di smembramento della Libia in due stati (su questo tornerò successivamente parlando di un’interessante intervista) – il che non è detto che riesca, ma questo è un altro discorso – e che ha pure un obiettivo secondario ma importante: creare una testa di ponte occidentale in quei territori, anche per fronteggiare eventuali sviluppi imprevedibili delle insurrezioni degli altri paesi, diverse almeno potenzialmente, lo ripeto, da quella libica.
Le leadership di Francia e Gran Bretagna cercano senz’altro la rivincita a lunga distanza per lo smacco subito nel lontano 1956, quando dovettero ritirarsi dall’impresa neocoloniale di abbattere il governo Nasser che aveva nazionalizzato il canale di Suez.
La Gran Bretagna, in particolare, fuori dalla politica mediterranea da quegli anni e impedita a rientrarci anche dalla politica sostanzialmente filoaraba dei governi italiani e dagli accordi bilaterali con Gheddafi, trova nell’espressione geografica di oggi un ventre sicuramente molle, tanto molle da cercare di affondare il colpo, costringendo il governo Berlusconi al ridicolo due volte: prima per avere sottoscritto accordi senza alcuna dignità e senza capire nulla dello scontro che si stava aprendo in Libia, poi accodandosi alla guerra in due giorni senza alcun sussulto di dignità (non sono tali le furbesche prese di distanza di Bossi e i silenzi dell’imboscato Maroni).
L’intervista cui facevo in precedenza riferimento, aiuta molto a capire, sempre che lo si voglia. L’intervistato è il generale Fabio Mini, ex capo di stato maggiore delle forze Nato. L’intervista è pubblicata sull’Unità di sabato ed è un tragicomico esempio di schizofrenia politico-giornalistica. Dopo l’entusiastico peana dal titolo Con il cuore gonfio scritto in prima pagina dalla signora della guerra Conchita De Gregorio, ecco cosa dice il generale alla pagina sette.
Tralascio alcune indicazioni di stretto carattere tecnico-militare a arrivo ai due punti politici dell’intervista:
“La risoluzione 1973 del consiglio di sicurezza dell’Onu, autorizza genericamente gli stati membri dell’Onu riuniti o non in organizzazioni, a intervenire con qualsiasi mezzo e specialmente con la forza, per difendere la popolazione civile in Libia. Come hanno messo in evidenza i cinque paesi che si sono astenuti, manca qualsiasi indicazione su chi debba condurre le misure di forza e su chi debba controllarle. Mancano anche indicazioni circa i limiti dell’ingaggio dal punto di vista militare.”
Apro una breve parentesi. Lo stesso generale Mini, in un’intervista a Rai News 24 nello stesso giorno, a una domanda precisa sull’efficacia della No fly zone, rispondeva che misure come questa sono già state tentate in passato e sortiscono effetti “Solo se il governo contro il quale sono dirette le rispetta! Altrimenti non si può fare altro che intervenire anche da terra!”
Continua Mini sull’Unità:
“Sul piano operativo, l’organizzazione che è chiamata in causa è la Nato, la quale, dovendo decidere all’unanimità, ha fra i suoi membri un paese che al palazzo di Vetro si è astenuto, e non si tratta di un paese qualsiasi, visto che è la Germania…”
E L’Italia? Chiede l’intervistatore. Risposta:
“Se la Nato dovesse intervenire, l’Italia sarebbe in prima linea” (Cosa che si è verificata puntualmente il giorno dopo.)
Una prima considerazione a questo punto dell’intervista. L’intervento Nato è in aperta violazione dello statuto dell’organizzazione, dal momento che la Merkel ha affermato con una certa enfasi e chiarezza che non avrebbe seguito gli alleati su questa strada.
Alla domanda infine sugli scenari futuri possibili, ecco la risposta:
“Dipende dal colonnello, che potrebbe eliminare i ribelli prima che l’operazione No fly zone sia avviata, oppure potrebbe lanciare un segnale, non attaccando ma decidendo di controllare dall’esterno le aree tenute dai ribelli…A questo punto la parola passerebbe ai veri interessi di tutto questo che non hanno a che fare né con l’aiuto umanitario, né con lo “scandalo” al quale gridano francesi e inglesi. Le vere ragioni sono quelle legate agli interessi di gas e petrolio che vedono non tanto le nazioni in prima linea ma le corporazioni che riescono a controllare le nazioni stesse. Noi pensiamo al Nord Africa come a un’area divisa in stati nazionali, più meno tirannici, più o meno canaglia. Dal punto di vista energetico, tutta l’area dall’Egitto alla Mauritania, è un’unica fonte di energia. Chi la vuole sfruttare meglio ha interesse a realizzare una “Federazione di sfruttamento” e non di impiantare nuove democrazie. In termini ancor più espliciti: quella che si prepara in Libia è una guerra targata Bp, Exxon e Mobil…”
E l’Eni? “L’Eni finirà in mezzo…come sempre.”
Con buona pace di chi pensa che in Nord Africa ci siano solo rivolte popolari per una fantomatica democrazia. Naturalmente, neppure il generale Mini parla per ideali democratici e se la guerra fosse targata solo ed esclusivamente Eni, gongolerebbe di certo; ma la verità a volte si serve anche dei capi di stato maggiore!
Quella che è in corso in Nord Africa è un pezzo della “quarta guerra mondiale” (penso che sia stato Giulietto Chiesa a usare per primo tale espressione o forse lui dice “terza”, ma non ha molta importanza): nella fattispecie, sull’abbrivio delle lotte popolari, si è inserito un classico conflitto sub imperialistico fra potenze locali, per il controllo di un’area di fonti energetiche. L’Italia, che aveva fino ad ora un ruolo preminente per i suoi rapporti con la Libia (che non sono un’invenzione di Berlusconi sarà bene ricordarlo, perché i governi Prodi e D’Alema hanno seguito la stessa traccia che viene peraltro da lontano), si vede oggi scavalcata da Francia, Gran Bretagna e in posizione più defilata Spagna, per ragioni evidenti: il discredito di Berlusconi, un ministro degli esteri che potrebbe esser tranquillamente sostituito da un manichino ecc. ecc.
E gli Usa? Non sono io a dirlo, ma sono stati in parte scavalcati e hanno dovuto rincorrere. Il che naturalmente non accredita Barak Obama come presidente pacifista, magari in quanto di colore (sempre meno a giudicare dalle immagini televisive: non si farà i pigmenti per schiarire la pelle come faceva Micael Jackson?) – persino Gheddafi si è rivolto a lui chiamandolo “fratello”: a questa barzelletta ormai ci credono solo l’ex segretario di Rifondazione comunista Giordano, alcuni giornalisti del manifesto e molti altri abitanti di sinistra dell’espressione geografica. La sinistra americana lo ha già scaricato da due anni (cito per tutti il libro di Noam Chomskj intitolato No we can’t) e lo slogan ironico che accompagna il premio Nobel per la pace quando si fa vedere in pubblico è Say no war… unless the President is a Democrat.
Il problema è che Barak Obama, incerto e indeciso a tutto, verbalmente demagogico, incapace di chiudere persino Guantanamo, dopo avere probabilmente contribuito con il discorso del Cairo e con l’appoggio all’opposizione egiziana, alle rivolte, non è stato in grado di controllarle e in Libia si è trovato alle prese con pressioni europee alle quali non aveva nulla da opporre. Alla fine ovviamente sta nel gioco e vuole tornare a guidarlo, ma tutti hanno visto che la sua credibilità presso alcuni importanti alleati è quasi ridotta a zero. È una buona notizia? La perdita di egemonia da parte degli Usa non è cosa di oggi e in sé è cosa buona, ma non ritengo che una guerra dell’Occidente diretta dal culo anglo-francese sia meglio di una guerra condotta dalla testa statunitense: le potenze periferiche, per di più quando sono governate da leader mediocri come Camerun e Sarkozy, possono fare anche più danni.
Il primo effetto di questa sciagurata guerra è la rottura forse definitiva dell’asse franco-tedesco che aveva in qualche modo tenuto in piedi un simulacro di Europa. L’unica potenza europea che ha parlato in nome di interessi un po’ più ampi e con un minimo di respiro politico è stata la Germania. Non è granché perché la Merkel purtroppo non è De Gaulle e non mi sembra abbia in mente una strategia che aggreghi una posizione europea diversa; tuttavia la società tedesca e la sinistra tedesca è la sola oggi in Europa che non sia diventata un’appendice stupida del partito democratico statunitense e che abbia mantenuto un suo profilo. Turchia e Germania mi sembrano esprimere una scelta di semplice buon senso che andrebbe incoraggiata: altrimenti è probabile che anche questo labile filo di saggezza venga rotto dalle prevedibili opposizioni interne, specialmente in Germania.
C’è qualcuno nel parlamento europeo che possa proporre immediate iniziative fondate su un minimo di ragionamento politico, scavalcando gli ormai inesistenti steccati che separavano un tempo destra e sinistra?
Diverso il discorso per Russia e Cina, più ispirate a esclusivi calcoli di geopolitica, improntati mi sembra unicamente a un sottile ragionamento che riassumerei sinteticamente, modificando di poco una famosa battuta dei fratelli De Rege, in un bel: “Vai avanti cretino” dove il cretino è la coalizione occidentale, che dalla caduta del muro di Berlino in poi ho promosso in venti anni sette guerre (ma forse ho perso il conto e sono di più): Prima del Golfo, Seconda del Golfo, Somalia, Serbia, Afgahnistan, Iraq, Libia. Chi sarà il prossimo? E fino a quando? Prima o poi dovrà finire, questo sembra essere il calcolo, non del tutto errato, aihmè, di russi e cinesi.