Expo 2015

Pubblicato il 3 novembre 2009 su Saggi Società da Adam Vaccaro

Expo 2015: l’ultimo round per Milano?

Massimiliano Carocci

Davanti a noi non c’è uno spazio infinito in cui perdersi, né la potenza di un’immagine in cui riflettere la sorte umana – dall’osso animale come strumento di potere alle macchine futuriste con cui viaggiare dalla preistoria all’era della tecnica. E non c’è Kubrick a raccontare. Né, soprattutto, un pubblico disposto a partecipare. C’è solo il rumore scuro di una città comprata. E il respiro dei suoi abitanti venduto.

L’expo del 2015 sarà l’ultimo round per Milano. La città operaia eroica resistente colpita dal terrorismo, scivolata al tappeto lungo i cocktail degl’anni ’80, paralizzata ora nella volgarità del berlusconismo, soffiata nel vortice di polvere della cocaina in questo stesso momento.

L’ultimo round? Forse, per chi ne ha già prese tante.

Immaginiamo la scena: 8 milioni di metri quadrati di aree dismesse, abbandonate dalla morte dell’industria manifatturiera. I telefoni che squillano, le mani che si stringono. Riempiamoli di cemento, prendiamoci i soldi; negl’occhi dei milanesi i grattacieli che coprono il sole – già opaco di suo –, nelle nostre mani tutto quello che possiamo rubare.

Sorride Renzo Piano pensando al suo progetto respinto. Sorride nella saggezza di chi comprende uomini e forme distinguendo sentimenti e prodotti. Milano non è San Francisco. Nella città della baia l’architetto ha creato l’Academy of Science come il suo amico De André regalava poesie: il tetto dell’edificio vivente, metafora di un organismo capace di respirare e di trasudare. Rifiutando la pratica modernista del contenitore sigillato, il Centro non ha aria condizionata e la caratteristica più rivoluzionaria è costituita dalle maniglie delle grandi vetrate dei laboratori, apribili alle brezze della baia. “I musei, spiega Piano, di solito sono opachi e pieni di luoghi chiusi al pubblico. Sono il regno delle tenebre dove si entra con un certo timore. Qui siamo nel mezzo di un parco straordinario e non ha senso chiudersi dentro, tagliando fuori la natura”[1].

Sorrido io, ora, dal mio balcone all’ingresso della periferia sud-ovest, appena prima del quartiere di Baggio. Sorrido e vorrei trovare saggezza come De André scovava dignità nelle vite dei perdenti. Ci provo. Ma non so se ci riesco.

Dalla Bovisa all’ex Ansaldo, da Porta Vittoria a Porta Nuova-Garibaldi-Repubblica, dal Portello a Montecity-Santa Giulia. Venticinque grandi progetti lottizzati tra i gruppi immobiliari con olimpico fair play, che cambieranno lo skyline meneghino insieme alle potenze immobiliari d’Italia.

Il primo vero grattacielo è la nuova sede della Regione a Garibaldi – monumento alla grandezza ed alla furbizia del governatore Roberto Formigoni, ciellino scaltro e potente capace di maneggiare gli aiuti all’Iraq senza alcuna pietà cristiana – dopo di esso un’infinità di “case-torri” da una trentina di piani ciascuna simili all’attuale Pirellone…pecunia non olet. Ma in verità questi sono solo pesanti fantasmi utili a distrarre l’attenzione, a convogliare i giudizi, lo stupore o la referenza. La partita è da un’altra parte, nell’area della vecchia Fiera. È qui che si distingue netto il furore dell’arrembaggio. CityLife, un affare da due miliardi, che prima ancora di partire è costato 523 milioni di euro, il prezzo pagato alla Fondazione Fiera per i 23 ettari (che diventano 36 con le aree limitrofe) acquistati dalla cordata immobiliar-assicurativa vincente. CityLife, la vita della città, la città della vita…quale vita?

Una velenosa pianta di cemento cui germogliano intorno quartieri selvaggi, simili a quelli che hanno assediato e sconfitto la Roma dei palazzinari e del Vaticano…pecunia non olet, l’avevamo capito.

Domenica 11 maggio 2008. È quel giorno che una nuvola di polvere oscura i palazzi novecenteschi che si affacciano nella zona dell’ex Fiera, tra viale Boezio, Piazza VI Febbraio, via Gattamelata, Largo Domodossola, piazza Giulio Cesare, via Eginardo. Un’imprecisata carica di esplosivo ha sbriciolato in pochi secondi il Padigione 20, 230 mila metri cubi di calcestruzzo, per far luogo al mitico “Central Park” di Milano, che certificherà il Nuovo Rinascimento di Milano. È lì che sorgeranno non uno, ma tre grattacieli. Il più alto, di 209 metri firmato dal giapponese Arata Isozaki, il secondo di 170 metri dall’irachena Zaha Hadid e il terzo di 140 metri, quello a forma di banana che ha ferito il buongusto persino del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi (!) progettato dall’americano Daniel Libenskind.

Intorno, 140 mila metri quadri di edilizia residenziale e 100 mila di uffici, il tutto in cinque mega-blocchi di altezza variabile tra i cinque e i venti piani, protetti da un sistema di “torri di guardia del quartiere” mentre il Central Park rimane infilzato lì sotto tra i blocchi svettanti verso il cielo. Per non inorridire, non dovete affacciarvi oggi a una delle porte della ex Fiera, da cui non vedreste che un deprimente paesaggio lunare, o soffermarvi nel cratere vuoto di Porta Nuova, dove scaricano travi da 30 metri che dovranno sorreggere un tunnel stradale. Dovreste invece passeggiare intorno ai plastici esposti in uno show-room che i padroni di CityLife, cioè Ligresti, i Fratelli Toti della Lamaro, gli stessi immobiliaristi che spadroneggiano a Roma, insieme a Generali e Allianz hanno voluto a piazza Cordusio, cuore della Milano bancaria. O, ancora meglio, farvi mostrare il rendering, cioè le simulazioni al computer, come consigliano Luigi Offeddu e Ferruccio Sansa nel loro libro “Milano da morire”, dove con ironia raccontano visioni paradisiache di grattacieli scintillanti in un cielo di purissimo azzurro. Come a Milano si vede non più di dieci giorni l’anno.

Ma forse ci siamo persi qualcosa.

A volte ritornano, a volte non se ne sono mai andati. Don Salvatore Ligresti, dalla Milano da bere di Craxi alla Milano da redimere (col cemento) della CL di Formigoni e Moratti. Pazienza le condanne per Tangentopoli, la relativa prigione, ben venga l’affidamento ai servizi sociali se poi con lui possiamo completare l’opera – prima le anime e i loro soldi, poi i corpi e le loro vite. È così che hanno scommesso sul solito cavallo vincente, quello che i più scaltri galoppini di San Siro sanno aver già la vittoria nel loro destino: ora Ligresti controlla buona parte dei sei principali progetti immobiliari milanesi – tra cui CityLife e Porta Nuova-Garibaldi – coprendo col miraggio dell’Expo, in cui il mondo dovrebbe entrare nella Nostra Città, l’immediato futuro, in cui la nostra superstite bellezza entrerà nel loro cemento. Per non uscirne più.

Originario di Paternò, provincia di Catania, Ligresti cucì la storia di Milano come un abile ragno una tela invisibile ma assai robusta: introdotto nei palazzi della finanza dalla famiglia missina La Russa – anch’essa di Paternò –, riuscì poi a legare Craxi al conterraneo Enrico Cuccia, allora padrone del capitalismo italiano, per poi, oggi, trovare in CL l’anima gemella di un nuovo parto economico producendo così una sintesi dialettica tra le più affilate nella storia di Milano: una politica dai tanti soldi e poca qualità, sospesa (nel baratro) tra postfascismo, berlusconismo, leghismo ed integralismo affaristico ciellino.

Ignazio La Russa – fulgido rappresentante del fascismo milanese dalle spranghe di piazza San Babila alle ballerine di Porta a Porta – presidia il ligrestismo al governo, il fratello Vincenzo e il figlio Geronimo siedono nel Consiglio della ligrestiana Premafin. Berlusconi, che quando faceva il palazzinaro non amava il concorrente nel cemento e nel cuore di Craxi, ora rischia d’imparentarsi con lui, dal momento che uno dei figli giovani è fidanzato con una nipotina Ligresti…Montecchi e Capuleti, artefici riconciliati di cupole opulente sotto cui le colpe dei padri si rinnovano, senza opposizioni decenti, in figli e catene di vittime.


Le solite facce, dunque, i soliti nomi. A Milanofiori ed Assago risplende Matteo Cabassi, quinto figlio di Giuseppe, “el sabiunatt” degli anni Settanta. È titolare di una parte dei terreni a destinazione agricola su cui sorgeranno le opere dell’Expo. Cedendoli al Comune si troverà 150 mila metri quadrati edificabili. A Porta Vittoria si sono fermati i lavori dopo l’arresto di Danilo Coppola. A Santa Giulia, sud-est di Milano, area Montedison, e a Sesto San Giovanni nell’area Falck, sta affondando un altro furbetto. È Luigi Zunino, esposto con le banche, soprattutto Intesa-San Paolo, per 2 miliardi. Con questi chiari di luna, riuscirà l’immobiliarista piemontese a fronteggiare il debito vendendo i palazzoni residenziali di Rogoredo che fanno da sfondo alla nuova sede argentea di Sky-Tv? Forse quelli di edilizia convenzionata a 2-3 mila euro al metro quadrato, più difficile quelli di lusso progettati da Norman Foster a 7-10 mila.

Dunque: Ligresti, Cabassi, i furbetti, Pirelli RE, i texani di Hines, Luigi Colombo, Manfredi Catella. Vecchio e nuovo – dice l’urbanista Matteo Bolocan Goldstein – “convivono nella modernizzazione equivoca di Milano, in una dimensione opaca, con una poliarchia solipsistica che non fa sistema”. Chi più chi meno, tutti lavorano con la cosiddetta “leva finanziaria”, che in pratica vuol dire i soldi delle banche. Che li investe nel cemento e non nelle persone, a meno di ricorrere a tassi usurai.

Sui 7 miliardi finora investiti sulla carta, sei, circa l’85 per cento sono di Intesa-San Paolo, Unicredit, Popolare di Milano, Monte dei Paschi, Antonveneta e Mediobanca, mentre la Banca d’Italia giudica corretta una quota del debito non superiore al 70 per cento rispetto al totale e un’equity del 30 per cento, cioè di investimento di tasca propria.

Chissà se la salvezza, o il disastro, verrà dal progetto dell’assessore allo Sviluppo del territorio Carlo Masseroli, definito dal suo ex collega Vittorio Sgarbi “coerente e leale vandalo integralista”, che vuole una Milano con 700 mila abitanti in più, portandola da un milione e 300 mila a 2 milioni tondi con più volumetrie ai palazzinari privati, aumentando gli indici di edificabilità di almeno un terzo – da 0,65 a 1 – e riducendo al minimo le regole della decenza.

Invece di occuparsi delle decine di migliaia di metri cubi di uffici sfitti e dei nuovi che stanno per arrivare sul mercato, i signori della città scelgono il cemento fresco di una ricostruzione non necessaria.

La Milano metropoli senz’anima da due milioni di abitanti, piccola Londra o New York del cemento, è una malefica chimera che dovrebbe violentare l’attenzione dei politici democratici come le Erinni il sonno di Oreste. Eppure un grande silenzio pervade l’arena politica e nessuna volontà di vendetta – pardon, giustizia – risale la valle in cui si costruisce e in cui si muore, ogni giorno, di lavoro.

Eppure manca ancora qualcosa. Tolti i 4,1 miliardi necessari per realizzare il sito fieristico, mancano quasi tre miliardi per le opere infrastrutturali essenziali (metropolitane, ferrovie, stazioni, raccordi, strade) e 6 miliardi per le infrastrutture “minori”. Il sogno della Milano da mangiare, oltre a 65 mila nuovi posti di lavoro dal 2010 al 2015, vagheggia 29 milioni di visitatori, 160 mila al giorno per sei mesi, che porteranno un indotto di 44 miliardi di euro. Ma perché quasi trenta milioni di persone dovrebbero venire a Milano nell’estate 2015? Per vedere il grattacielo-banana all’interno di una mostra sull’alimentazione? Saragozza fu un flop, Milano si prenota.

Ad ogni modo potremo lasciare l’auto nel parcheggio di cinque piani scavato sotto la Basilica di Sant’Ambrogio, nel parco medievale più importante della civiltà lombarda, o trovare cocaina a buon prezzo intorno alle discoteche di Corso Como, pietire un impiego lottizzato da CL nelle università come in comune, provare a modificare la lapide per Pinelli, scendere insomma nel torpore di quell’oblio che è la più grande rivoluzione del secolo: diventare finalmente l’uomo ad una dimensione, la semplice sopravvivenza, senza nulla da conquistare, nulla di difendere.

(Sull’argomento vedi anche “Milàn, Milàn e po’ pù…2015, Odissea nel cemento”, articolo di Alberto Statera su Repubblica del 26 novembre 2008)


[1]Una «Ferrari a zero consumi e zero emissioni», la definisce Piano con ironia: un gioiello di alta tecnologia ad elevato gradiente poetico, dove per la prima volta in maniera convincente la sostenibilità esce fuori dal gergo degli ecologisti e dei costruttori edili per entrare organicamente nell’arte del costruire. Visto da lontano, infatti, il segno distintivo del museo è una sorta di prato sospeso al posto del tetto: una leggera ondulazione di colline erbose alta circa dieci metri sul suolo, come se un lembo di parco fosse stato sollevato per nascondervi sotto il mondo della scienza: PANNELLI SOLARI. Circondato da un bordo di vetro con 60 mila cellule fotovoltaiche (che forniscono il 5% dell’energia per illuminare) il tetto è rivestito da uno spessore di terra di un metro e mezzo e garantisce un abbassamento della temperatura all’interno di circa 10 gradi più efficiente di un normale tetto. TETTO GIARDINO. È il tratto distintivo: il tetto-giardino è parte integrante del museo perché è una serra sperimentale all’aria aperta per la coltivazione e la conservazione di specie originarie della flora californiana. La forma delle colline è modellata sui grandi volumi del Planetarium e dell’Acquarium. STRUTTURE METALLICHE. L’85% delle strutture metalliche utilizzano materiali riciclati. Persino gli scarti dei jeans sono stati impiegati con successo come materiale isolante. È uno dei motivi per cui l’edificio è stata subito definito «il museo più verde degli Stati Uniti» e insignito del riconoscimento più alto in materia di sostenibilità. DODICI EDIFICI A EMISSIONI ZERO. L’edificio ospita in un’unica sede dodici diverse strutture costruite in circa ottanta anni e danneggiate dal terremoto del 1989.

One comment

  1. matteo ha detto:

    Un post molto interessante quello lasciato da Massimiliano Carocci.
    consiglio il seguente blog
    http://blog.libero.it/MilanoExpo2015/

    Matteo Casalino

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