Domande aperte agli europei dai fratelli del mare nostrum
Franco Romanò
Premessa. Il sito Megachip ha pubblicato lo stralcio del testo pasoliniano che anch’io riporto. Me lo hanno ispirato loro e in particolare Giacomo La Franca, autore dell’articolo. Colgo l’occasione per invitare tutti a visitare il sito: http://www.megachip.info/tematiche/democrazia-nella-comunicazione/5664-il-cuore-neorealista-del-sogno-americano.html.
Exergum:
Alì dagli Occhi Azzurri
………………………uno dei tanti figli di figli,
………………………scenderà da Algeri, su navi
………………………a vela e a remi. Saranno
………………………con lui migliaia di uomini
……………………….coi corpicini e gli occhi
…………………….. ..di poveri cani dei padri
sulle barche varate nei Regni della Fame. Porteranno con sè i bambini,
e il pane e il formaggio, nelle carte gialle del Lunedì di Pasqua.
Porteranno le nonne e gli asini, sulle triremi rubate ai porti coloniali.
……………………….Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,
……………………….a milioni, vestiti di stracci
……………………….asiatici, e di camicie americane.
……………………….Subito i Calabresi diranno,
……………………….come da malandrini a malandrini:
……………………….«Ecco i vecchi fratelli,
……………………….coi figli e il pane e formaggio!»
……………………….Da Crotone o Palmi saliranno
……………………….a Napoli, e da lì a Barcellona,
……………………….a Salonicco e a Marsiglia,
……………………….nelle Città della Malavita.
……………………….Anime e angeli, topi e pidocchi,
……………………….col germe della Storia Antica
……………………….voleranno davanti alle willaye.
……………………….Essi sempre umili
……………………….Essi sempre deboli
……………………….essi sempre timidi
……………………….essi sempre infimi
……………………….essi sempre colpevoli
……………………….essi sempre sudditi
……………………….essi sempre piccoli,
essi che non vollero mai sapere, essi che ebbero occhi solo per implorare,
essi che vissero come assassini sotto terra, essi che vissero come banditi
in fondo al mare, essi che vissero come pazzi in mezzo al cielo,
……………………….essi che si costruirono
……………………….leggi fuori dalla legge,
……………………….essi che si adattarono
……………………….a un mondo sotto il mondo
……………………….essi che credettero
……………………….in un Dio servo di Dio,
……………………….essi che cantavano
……………………….ai massacri dei re,
……………………….essi che ballavano
……………………….alle guerre borghesi,
……………………….essi che pregavano
……………………….alle lotte operaie…
……………………….deponendo l’onestà
……………………….delle religioni contadine,
……………………….dimenticando l’onore
……………………….della malavita,
……………………….tradendo il candore
……………………….dei popoli barbari,
……………………….dietro ai loro Alì
dagli Occhi Azzurri – usciranno da sotto la terra per uccidere e
usciranno dal fondo del mare per aggredire – scenderanno
dall’alto del cielo per derubare – e prima di giungere a Parigi
……………………….per insegnare la gioia di vivere,
……………………….prima di giungere a Londra
……………………….per insegnare a essere liberi,
……………………….prima di giungere a New York,
……………………….per insegnare come si è fratelli
……………………….– distruggeranno Roma
……………………….e sulle sue rovine
……………………….deporranno il germe
……………………….della Storia Antica.
……………………….Poi col Papa e ogni sacramento
……………………….andranno su come zingari
……………………….verso nord-ovest
……………………….con le bandiere rosse
……………………….di Trotzky al vento…
Pier Paolo Pasolini: stralcio da Alì dagli occhi azzurri. (1965)
“Non è quello del comunismo. E, per ora, non lo si può chiamare “fantasma della democrazia”. E’ una rivolta da fine dell’Impero. E’ uno dei sintomi della crisi globale del pianeta, che progressivamente sta sostituendo, e sostituirà completamente in pochi anni, tutte le agiografie adoranti della globalizzazione imperiale.”
Così Giulietto Chiesa inizia il suo articolo di riflessioni sulle vicende di questi giorni che coinvolgono il nord Africa arabo, pubblicato sul sito Megachip. Trovo questa sintetica affermazione del tutto condivisibile e da essa vorrei partire per una riflessione più ampia, cui premetto tuttavia, la riconoscenza che personalmente mi sento di tributare al coraggio di chi si batte oggi, anche per me, nelle strade di Tunisi, Cairo, Tripoli, Bengasi e sperabilmente presto anche in quelle di Rabat, Casablanca e Damasco. Anche per me, perché queste ribellioni di massa, pur probabilmente destinate alla sconfitta dei loro sogni più genuini, sono l’unica seria seminagione da alcuni anni a questa parte, nella porzione di mondo che abitiamo. Altre porzioni, come l’America latina, si sono già incamminate sulla strada delle buone semine, ma sono lontane.
Fatta questa premessa, non solo per me necessaria ma addirittura indispensabile, vorrei proporre alcuni temi di riflessione e analisi di quello che sta accadendo.
A me piacciono molto le analogie storiche e mi servirò di queste, dando per acquisito che l’analogia va presa cum grano salis.
Quello che accade oggi nell’Africa del nord mi ricorda, restringendo il campo alla politica, il biennio 1848-49 in Europa.
Anche allora una sollevazione generale, eterogenea nei propositi e nei fini, magmatica e dunque caotica, mise in crisi gli assetti politici stabiliti al Congresso di Vienna del 1815, successivo alla sconfitta napoleonica. La direzione politica di quei moti, incerta quanto generosa e più spesso irrealistica non permise a quei movimenti di vincere subito e nel giro di un paio di anni, le vecchie classi dirigenti tornarono al potere; ma ci tornarono per l’ultima volta.
È molto probabile che accada la medesima cosa oggi: lo sbocco politico delle lotte popolari nel mondo arabo nordafricano manifestano una grande slancio rivoluzionario ma una povertà di orizzonti politici di cambiamento, che non lascia molto sperare nel breve periodo: perciò non credo all’enfasi con cui Samir Amin, parla di un possibile “rinascimento arabo”. Da egiziano qual è, però, io capisco la sua speranza e il suo entusiasmo; tanto più se viene da un uomo come lui, protagonista da ormai cinquant’anni di battaglie e passione intellettuale segnata da una merce rarissima ai tempi di oggi: la coerenza ai propri ideali. Penso che Amin non usi la parola rinascimento nel senso che noi europei possiamo darle ma neppure come sinonimo di una rivoluzione sociale possibile, tanto meno in senso socialista; penso che la usi dandole il significato di risveglio, presa di coscienza.
Tornando invece a Giulietto Chiesa, egli afferma che le lotte in corso infliggono un colpo mortale alle “agiografie della globalizzazione imperiale.”
Niente sarà più come prima e l’assetto nato successivamente la caduta del muro di Berlino viene messo da parte anche in questa parte del mondo e avrà riverberi assai importanti sull’Europa tutta, mettendone ancor più in crisi la già quasi inesistente unità.
In fondo andò così anche in pieno 800. Prima la carboneria cercò di scalfire l’assetto stabilito nel 1815, riuscendo solo a fare qualche danno qui e là, ma facendo crescere una generazione che sarebbe durata nel tempo, covando il fuoco sotto la cenere; il 1830 in Francia fu la prima fiammata, troppo circoscritta ma ugualmente importante perché rafforzò la generazione che era sopravvissuta al disfacimento delle carbonerie, portandone al tempo stesso una seconda nel vivo della lotta; infine il biennio 48-49.
Se ripercorriamo la storia dei movimenti e dei tentativi di resistenza alla globalizzazione liberista (con i suoi corredi ideologici e cioè la fine della storia di Fukuyama, la scuola economica di Chicago di Milton Friedman, TINA, ecc. ecc.) 1 gli scenari sono molto simili.
Dall’insurrezione zapatista in Chiapas, al convegno di Madrid il Cerchio dei popoli (entrambi del 1994), poi gli incontri intercontinentali, la riscoperta strategica della questione indigena nel continente americano, si sono create alcune delle condizioni che hanno modificato la situazione bloccata dell’America latina. I forum delle alternative sono stati un altro momento, ora esaurito o in via di esaurimento, di confronto su alternative economiche possibili e strategia di difesa sul piano sociale, ora le insurrezioni. Qualcuno potrà domandare a questo punto che cosa c’entrano queste insurrezioni con tutto ciò che le precede e che sembra riguardare altre aree del mondo. Ovviamente viene qui alla luce il limite di ogni analogia, ma la differenza con il 48 europeo è anch’essa facilmente percepibile. Quel mondo non era globalizzato, o meglio lo era all’interno di aree geopolitiche ristrette che tendevano ad essere sistemi relativamente chiusi. Oggi un evento che sembra lontano da noi ha ripercussioni immediate anche qui, il sistema chiuso corrisponde al pianeta nella sua estensione totale. Se mai la domanda da porsi è un’altra: perché il “quarantotto” è scoppiato proprio lì? Poteva scoppiare altrove? Anche in questo caso la risposta è possibile e non è vero che nessuno lo aveva previsto. Se si vanno a leggere le previsioni allarmate di quel pericoloso organismo di rivoluzionari che è il Fondo Monetario Internazionale, si legge fin dagli inizi del 2008, che l’aumento dei prezzi delle materie prime alimentari avrebbe generato rivolte popolari in numerosi paesi. Questi dati li ho riportati anch’io in un mio saggio recentemente pubblicato nel sito di Comunità&Comunismo. Fra i paesi a rischio che venivano indicati dal presiedente del Fondo c’erano: Egitto, Tunisia, Bangladesh (dove le rivolte sono effettivamente scoppiate) e alcuni stati centro africani! Dove sta la sorpresa?
Detto questo, tuttavia, è evidente che nelle rivolte popolari in corso non c’è soltanto la componente della fame, delle disperate condizioni sociali, anche se queste giocano un ruolo di primo piano. Le politiche del Fondo monetario e della Banca mondiale hanno impoverito i popoli del sud del mondo anche se non tutti nello stesso modo: la Libia, per esempio non è affatto nelle stesse condizioni di indigenza dell’Egitto anzi, ha standard molti vicini a quelli di Polonia e Portogallo. Leggendo le analisi di questi giorni e seguendo proprio il sito di Chiesa e altri, penso che siano tre le componenti principali:
1) la questione sociale già ricordata.
2) Il tentativo di parte imperiale di anticipare il crollo di alcuni regimi decotti.
3) Il disagio di una generazione di giovani senza lavoro e senza alcuna prospettiva ma colta o almeno scolarizzata e quindi con un maggiore e più spiccato senso critico.
4) Le organizzazioni islamiche tipo fratelli Musulmani, Hamas e suoi alleati.
5) L’amplificazione generata dai mezzi di comunicazione rapidissimi, in primis le televisioni come Aljazira e al-Arabìa, più che non i soliti Internet e cellulari.
È difficile stabilire ora a quali assetti porterà nel breve periodo (di qui alla fine dell’anno quando ci saranno le elezioni egiziane), questa sollevazione, anche perchè non è chiaro cosa accadrà nell’immediato in Libia; ma forse per questo basteranno pochi giorni, mentre ci vorrà di più per capire se l’area geografica di queste sollevazioni è destinata ad allargarsi oppure no. Alcune parziali deduzioni però si possono cominciare a trarre.
1) Le organizzazioni islamiche non sono alla testa del movimento per la prima volta dopo venti o trentanni. Che siano fra le forze politiche più organizzate e dunque capaci di risposte politiche più di altri è vero, ma il movimento lo hanno subito e non promosso. In Tunisia questo è particolarmente evidente, dal momento che sembra davvero che lì nessuno sappia bene cosa fare: il vuoto non è stato riempito. In Egitto la prudenza dei Fratelli Musulmani è evidente.
2) L’Europa sonnolenta e immobile è stata costretta a un brusco risveglio: l’Europa e non solo l’Italia perché problemi quali l’approvvigionamento energetico, l’aumento dei flussi migratori, le ripercussioni sulle aziende coinvolte, non sono problemi da poco per nessuno. Questa emergenza non potrà essere rimossa come si è fatto furbescamente fino ad ora, fingendo di non capire (oppure non capendolo sul serio come sostiene Pino Arlacchi nel suo articolo), che i regimi corrotti con i quali si continuava a trattare e a commerciare erano vicini al crollo.
Come reagirà l’Europa alla questione libica che oggi è centrale? L’assenza di una parvenza di politica e la paura possono essere un melange assai pericoloso, anche perchè i rischi sono molto seri. L’Europa può reggere l’effetto combinato dei problemi di approvvigionamento energetico e aumento dei prezzi del petrolio, contraccolpo sulle aziende più esposte (che non sono soltanto italiane), flussi migratori?
Seconda questione. Gli scontri in Libia, dove gli insorti sembrano avere anche loro armi pesanti, tanto da controllare del tutto parti importanti di territorio, fa pensare a uno scontro interno al regime e a una guerra civile. Allora la domanda se i ribelli abbiano delle sponde fuori dalla Libia non è affatto peregrina. Una notizia data con nonchalance dal Tg1 delle tredici è che a livello europeo si sta discutendo la possibilità di un intervento armato ovviamente ‘umanitario’. Detta così è una bufala perché non esiste un esercito europeo autonomo dalle strutture dell’Alleanza Atlantica, né una difesa comune europea. Questo significa che gli Usa ne sarebbero per forza coinvolti e questo permetterebbe loro di mettere le mani sul petrolio libico, strategicamente importante per l’Europa e dal controllo del quale erano fino ad ora sostanzialmente esclusi. Se così fosse sarebbe del tutto evidente che fra le sollevazioni in Tunisia ed Egitto e quello che accade in Libia le differenze sono abissali. Se così fosse gli europei sarebbero chiamati a sostenere anche economicamente una guerra (altro che spedizione umanitaria), che rimetterebbe nelle mani degli Stati Uniti il controllo del petrolio libico e che scaricherebbe soltanto sui paesi europei i costi di una emigrazione di massa. Sopporteremo anche questo o ci sveglieremo almeno un po’?
Aggiungo qualcosa dopo avere ascoltato il Tg di questa mattina. Si dice che tre indizi sono una prova, ma in politica forse ne bastano due. A una ventilata ipotesi di intervento armato europeo del Tg di ieri, si affianca questa mattina una dichiarazione ufficiale del primo ministro inglese Camerun. L’asse Londra-Washington e l’ipotesi ormai certa di intervento armato, nonché le notizie che provengono dalla Libia mi spingono a riformulare i dubbi nella parte finale del mio intervento, in alcune domande molto precise.
1) Come è possibile che dei ribelli siano in grado nel giro di pochi giorni di conquistare parti consistenti di territorio (la Cirenaica)? I resistenti vietnamiti, al di là della mitologia rivoluzionaria, poterono vincere perché erano riforniti di armi dall’Unione sovietica e dalla Repubblica popolare cinese, per cui la distanza fra i loro armamenti e quelli statunitensi era almeno assai accorciata.
2) È possibile la conquista di territorio solo se i ribelli possiedono più o meno le stesse armi dei governativi e questo significa che quella in corso in Libia non è una insurrezione popolare ma una spaccatura interna al regime libico, con pezzi dell’esercito che si combattono e non dunque che fanno da garanti come è avvenuto in Egitto.
3) È difficile pensare che questi settori si siano mossi senza avere qualche garanzia che viene dal di fuori della Libia.
4) L’ipotesi di intervento dell’Alleanza atlantica (non esiste un esercito europeo di difesa comune), riporterebbe i controllo sul petrolio libico nelle mani degli Usa e della Gran Bretagna e scaricherebbe i costi sociali dell’emigrazione sugli europei e in particolare sugli stati mediterranei.
5) Le fosse comuni e i 10.000 morti. Dove sono? Dalle immagini che si vedono in tv e anche in Internet non si capisce.
6) Ci ricordiamo delle famose armi di distruzione di massa di Saddam Hussein? Ci ricordiamo del cormorano cosparso di petrolio nel golfo persico che fece tanto piangere gli ecologisti nostrani più pronti a commuoversi per gli uccelli piuttosto che per i morti umani e che altro non era che un cormorano al largo delle coste della Scozia inquinate dalle falle di una petroliera? Ci ricordiamo della culla bruciata dai soldati iracheni in Kuwait che altro non era che un servizio preparato ad arte da un’agenzia di stampa per suscitar l’indignazione dell’opinione pubblica occidentale?
7) Che cosa sta realmente succedendo in Libia?
1 TINA è un acronimo inventato da Margaret Thatcher e significa there is no alternative (non c’è alternativa), beninteso alla società liberista e globalizzata
Vedi anche su http://www.agendadiscrittore.blogspot.com/