Diario di viaggio di Luciano Troisio

Pubblicato il 30 aprile 2010 su Resoconti da Adam Vaccaro

Phnon Penh, 18 gennaio 2010, ore 16 – Luciano Troisio

Sono tornato dal Quay Sisowath, alla Capitol Guesthouse, vicino al Monivong Boulevard, due ore prima del solito. Il tratto è di circa due chilometri. Uso dei motociclisti, in apparenza mendicanti, in realtà truffatori, che accettano un compenso soltanto doppio invece che quadruplo.

[Prima di partire alle 15 avevo visto alla Rai-international la visita del papa alla sinagoga, con quei barboni ebrei solenni e furbetti, concentrati sul loro Olocausto (mentre io qui sono ancora sotto lo shock del genocidio cambogiano; i morti oscillano secondo le stime tra 1.300.000 e tre milioni. Ho visitato ieri per la seconda volta i killing fields e il liceo S 21 delle torture a morte. Se ne parla poco, eppure è altrettanto terrificante della Shoà. Ricordo una discussione all’università, con una mia allieva che durante l’intervallo tra due ore di lezione mi aveva interpellato davanti al distributore di caffè riguardo al fatto che avevo detto che della Shoà si parla molto, mentre di Armeni e di Cambogiani (di cui gli studenti sembravano non sapere assolutamente nulla, nessuno parla. E che dire del puputan balinese commesso dagli olandesi nel 1907? Ma l’elenco dei misfatti sarebbe lunghissimo. Avendo fatto riproporre la questione in aula, la ragazza disse che la gravità della Shoà consisteva nell’essere stata commessa da europei, e non la vidi più a lezione.

Io però (tra l’altro ho molta simpatia per chi sa creare giardini nel deserto) sto con tutta la specie umana. Chiudiamo la parentesi)]

Ero arrivato alle 15 allo splendido lungofiume. Proprio qui davanti, il Ton Le Sap, prima lago pescosissimo (i pesci gatto arrivano a 450 chili) e poi fiume emissario, confluisce nel Mekong e nel meno noto Bessac. Sembra evidente che la scelta del luogo della capitale Phnon Penh, qui trasferitasi da Angkor Thom nel XV secolo, sia dovuta a questa confluenza di acque e traffici, forse anche a motivi strategici, quando l’impero Khmer comprendeva tutta la penisola indocinese e le isole indonesiane (Giava, Sumatra: è da qui che trae origine la cultura khmer).

Mi sono seduto in uno dei bar famosi, che però cambiano spesso nome e gestione. Questo non si chiama più River side; sta proprio in front of Bar Fresco (già Circolo della stampa, su tre piani, che conosco bene e che preferisco, nonostante sia molto più costoso. Anche i suoi cafelate sono migliori, mentre il cappuccino bevuto oggi di fronte rasentava lo schifo. C’è una vasta graduatoria di schifezze riguardanti molti settori e soprattutto il caffè).

Ma molte cose sono cambiate e ora ci sono perfino dei locali notturni. All’esterno, nel dehor, pur separato dalla strada da una folta siepe, si è continuamente importunati da molesti venditori di giornali, guide, occhiali ecc. Ho notato, rispetto alle altre volte, un calo di deformi e mendicanti. Sono stati tolti anche i segnali stradali di divieto defecazione cani, illustrato ideogrammaticamente in maniera poco elegante specie per la contigua sede reale (io ne ho comunque copia in archivio, available a semplice richiesta). Già che ci sono avviso la spettabile clientela che nel Museo Nazionale la testa bronzea di Buddha giacente, trovata in una famosa isoletta, è stata spostata in fondo all’ala sinistra entrando, dove prima c’erano i reperti paleolitici, e che anche la banale cofana di terraglia francese fine ottocento (di quelle che tutte le nostre nonne ci hanno lasciato, magari senza coperchio), con cartellino provenienza sconosciuta periodo sconosciuto, non è più esposta.

In tutto il lungofiume, sempre affollato da residenti e turisti, da mendicanti e lestofanti, c’è una discreta ma fitta sorveglianza di polizia. Ho visto spintonare dei malavitosi, arrivare camionette di soldati con altoparlante, che hanno fatto sgomberare dei miseri nomadi con moltissimi bambini. Mi è parso che avessero l’ordine di tener conto dei molti turisti che fotografano tutto, di astenersi dal maltrattare, insomma di rispettare una certa immagine. Infatti nessuno di loro si è avvicinato ai nomadi. Che in molti sono scappati. Ho anche notato che nel frattempo tutto il vasto settore indovini che avevo appena filmato, è sparito in un baleno con tutto l’armamentario di feticci, smorfie, mazzi di carte, tappeti, statuette dai magici poteri ecc.

A pochi metri dal fiume c’è il complesso dei palazzi reali, della Pagoda d’argento, che custodisce il Buddha di smeraldo; oserei dire, se non fosse un probabile sacrilegio, identico a quello di Bangkok (antichissimo e misterioso. Non mi dilungo a parlare di questa statua che ha un’enorme importanza. Merita un saggio a parte. Dirò solo che i siamesi l’hanno rubata a Vientiane nel Settecento. Quale sarà quello vero?)

A 500 metri più a nord si trova il Museo Nazionale. Una volta l’ingresso era affollato da mendicanti mutilati con divisa militare. Ora non più. Qui ci sono palazzotti ripuliti e ville sedi di vari organismi internazionali. C’è anche un grande prato con quattro stradine che si incrociano in un’aiola al centro, dove molti si fanno fotografare e ci sono sempre molti fotografi ufficiali. È qui che sono vietati i cani. Sul lato a ovest c’è un grande marciapiede, così largo che potrebbe essere definito piazza. Verso sera ci sono molte belle famigliole borghesucce pulitine con bambinetti, venditori di palloncini, frutta. Vendono anche mais per i piccioni. È una vera festa colma di gioia. I bambini sono deliziosi, si fanno ottime foto. Ci sono anche ragazze, non molto belle, ma sempre affascinanti come futuribile scenario del mondo apparente. Al di là del prato, verso ovest c’è una strada parallela al fiume e poi il largo marciapiede lungofiume, di almeno un chilometro. Su questo tratto si incontra sempre molta gente e molta se ne sta seduta al fresco sul parapetto e guarda il fiume. Parecchi i monaci in passeggiata. A un certo punto c’è l’imbarcadero: un padiglione aperto con una scala di pietra che scende a pelo d’acqua. Attualmente direi che il livello del fiume (siamo nella stagione secca) è almeno 10 metri più basso dell’argine. Mi sono chiesto quante volte è successo che il fiume abbia inondato la città.

Ai lati del padiglione ci sono due tempietti, uno è dedicato ai Protettori, tre signori baffuti che impugnano una mazza nera (come i guardiani balinesi), non c’entra nulla col buddismo ed è in genere deserto. Mi sono fatto spiegare dai custodi, senza capire gran che. L’altro è buddista, in certe ore del pomeriggio talmente affollato che bisogna fare la fila. All’interno c’è una divinità ekatonkira in piedi molto venerata cui vengono offerti loti, cocchi, incenso, frutta e porchette. Venerdì scorso davanti a questo tempietto dalla parte del fiume c’era un padiglione (provvisorio) sopraelevato dove la gente saliva a pregare. Ci sono giunto attirato dal suono di tamburi. Un’orchestrina di percussioni metalliche sul genere dei gamelan, musica abbastanza bella, tutto pieno di fiori e frutta, bandiere buddiste, fatto molte foto. Un addetto indicava ai fedeli quando dovevano salire sul padiglione e quando andarsene per entrare nel tempietto. Poi di fianco, all’esterno, si lavavano le mani, il volto, credo parte della cerimonia. Dietro al tempietto c’erano cassonetti colmi di offerte e fiori ancora splendidi gettati. Le porchette, posate sull’altare venivano poi restituite agli offerenti. Appena sulla destra del tempietto dei guardiani, guardando dall’imbarcadero, c’è un grande traliccio elettrico, sulla cui base è stato creato un altare con tutto l’armamentario di offerte e incenso (fotografato attentamente i fedeli durante il culto del traliccio, mai visto prima in vita mia).

Naturalmente al di là della strada c’è tutto un florido mercatino di fiori e cocchi. Molto suggestivo assistere alla precisa confezione delle offerte. Inoltre ci sono persone che hanno gabbie colme di uccellini che vengono venduti ai devoti, i quali li liberano. Quest’uso beneaugurante è molto diffuso in varie nazioni asiatiche. Tengono gli uccellini a cinque, dieci, per le zampine, che una volta liberati tendono a farsi catturare di nuovo. Se ne vedono per terra di stremati e morti. Si vendono anche cotti e laccati in rosso, assieme a uccelli più grandi simili a piccole quaglie. Non mancano mai sfiziose bancarelle con ragni fritti, scorpioni, crisalidi, bruchi, insetti enormi. Notata l’assenza di cavallette, leccornia sempre presente a Kao Sharn. Sono quattro giorni che vengo in questo luogo. Specie verso il tramonto la luce è straordinaria e anche qualche mia foto. Mi sono dedicato ai bambini, ho evitato le bambine troppo pettinate e semitruccate. Chiedevano denaro (temo che offrissero altro, ben istruite); alcune belle ragazze mi hanno chiesto delle foto, è un peccato non poter fare meglio, limitarsi ad istantanee, spesso rubate. È un mondo in perenne movimento. L’immagine richiede riflessione, taglio, inquadratura, luce ottimale. L’istantanea non permette tutto questo. Anche alcune anziane venditrici erano bellissime e affascinanti nella loro disperata autenticità. Una aveva una bilancia (ho perso 4 chili), così ho trovato il modo di ricompensarla senza offenderla. Che luogo straordinario! Non me ne vado mai se la batteria non è esausta.

Quando arrivo al quay nel pomeriggio entro subito in qualche bar, dove un caffè mi costa come l’intero ottimo filetto con patate al Capitol. L’arredo dei bar è sempre lo stesso: cambia la gestione, restano le scassatissime solenni poltrone di vimini (invece il Fresco al secondo piano ha comode ingombranti poltrone e divani in cuoio. Tutti questi posti, nonostante si spenda almeno il triplo e si paghi in dollari, sono sempre affollatissimi di bianchi, giapponesi e gente del luogo, in gran parte farabutti e cattive signorine quasi eleganti. Una tendenza abbastanza birichina è accettare il pagamento in dollari e dare il resto in rial al cambio di 4000; ma se pagate voi in rial il cambio è di 4200 per dollaro, inoltre gli arrotondamenti a vostro danno sono notevoli. Mi diverto a fare osservare questo comportamento, mentre io essendo bianco in questi siti devo fare il signore. Il che mi pare pochissimo sportivo oltre che miserabile, se penso che appena fuori dovrò tornare cinico di fronte a madri che esibiscono bambini idrocefali dagli occhi indicibili e dal testone gigantesco. (Caro Dio che non rispondi, ti ringrazio comunque).

Quest’anno tra i mendicanti vanno molto i carrettini tirati a mano da una ragazzetta sana, mentre sul carretto è steso un giovane (malato?) che si lamenta a comando in modo straziante e comunque stridente. La bambina tira il carretto soprattutto alle costole di coppiette di rilassati turisti che pensano ad altro e lui sta corteggiando la sua bellona, esondante salute e bella ciccia.

Se si riesce a tollerare mendicanti, infinite offerte di tuk tuk, di venditori di cianfrusaglie; se si finge di non vedere che gli snelli ragazzini di dolce torace e le ragazzine di dieci anni, spesso di bellezza straordinaria e destinate a prevedibile futuro di schiave del sesso (con i loro sfruttatori vigili nei pressi), potrebbero essere disponibili a tutto; nonché le fanciulle maggiorenni, ben truccate e ben vestite, ammiccanti travestite da cameriere nei bar degli alberghi zeppi di turisti, e più tardi i malandrini omosessuali che camminano lento pede, il labbruzzo pendulo, nel largo marciapiede a favore di fiume e arietta serotina (il clima è straordinariamente gradevole, l’occaso, sebbene a ovest, è fantastico anche per un single che tale resterà), insomma: se si riesce a uscire indenni dall’onnipresente volgare mercimonio, che non riguarda l’eros ma la più squallida genitalità, allora si può dire che il lungofiume di Phnon Penh è un luogo straordinariamente affascinante.

Arrivo camminando al punto dove in un grande bivio sorge un monumento che molti scambiano per l’ennesimo Buddha rivestito di tunica ocra, mentre si tratta di mediocre copia del Re Lebbroso di Angkor Tom; in questo caso la mano, priva di falangi nell’originale (attualmente esposto a Tokyo; nel museo al suo posto al centro del chiostro ce n’è una altra ancora più volgare in cemento, e ancora un’altra si trova nel luogo originario e cioè sulla Terrazza del Re Lebbroso di Angkor Tom, e un’ultima, con mano sanguinante, in un venerato tempietto in centro a Siem Reap); la mano dicevo, è completa, con le dita chiuse a reggere un mazzo di fiori freschi. Scatto una foto, la macchina mi avvisa che la batteria è scarica. Incredibile: per la prima volta ho dimenticato di ricaricare la batteria notturna. Messaggio dell’inconscio? Che vorrà dirmi? Quando ho la batteria scarica vedo immediatamente inquadrature bellissime, soggetti singolari, donne dal volto ammaliante. La vita, il reale diventano di colpo stupendi e imperdibili. Attenti ai campanelli.

Ho dimenticato di dire una cosa fondamentale: stamattina al Capitol ho comperato un biglietto d’autobus per domani. Avevo deciso di partire per Siem Reap, cioè per Angkor, dove passare gli ultimi giorni in Cambogia (il visto mi scade il 27 gennaio). In Myanmar mi sono sempre spostato in aereo anche nei molti voli interni. In Cambogia ho fatto l’opposto, tutto via terra da Bangkok e ritorno. Ora per fortuna le strade sono molto migliorate (rispetto a 8 anni fa), sebbene il paesaggio non sia troppo interessante, anzi, dà l’impressione di una campagna povera, di una popolazione passiva, tutto trasandato, abbandonato. Siamo anche nella stagione secca e le risaie gialle di stoppie, costellate di zebù macilenti aumentano la sensazione di squallore. Boscaglia poco lussureggiante, palme isolate alcune stupende altre per lo più spelacchiate, villaggi miseri e sozzi.

Ore 21: ebbene sì, mi sono fatto posporre la data del biglietto di un giorno, e ho anche ottenuto il seat n°1. Prima avevo il 16.

Il lungofiume è troppo bello, ci sono un centinaio di bandiere di tutto il mondo (la nostra è l’ultima verso sud, accanto a una enorme voliera vuota). C’è sempre un po’ di vento assai gradevole. Evitando le ore centrali la temperatura è sui 27 gradi. Si sta benissimo, la gente è molto interessante, sia i locali che i turisti, il lungofiume Sisowath è tutto un susseguirsi di alberghi anche di lusso, di bar e ristoranti (dove si mangia male, sono adatti a nordici e australiani che infatti li affollano). Io mangio il mio discreto filet mignot con patatine al Capitol e non ho nessuna intenzione di cambiare. Ma a Siem Reap ricordo un posto cinese con giao ze e von ton stupendi che spero di ritrovare.

A dire la verità, in arrivo a Phnon Penh mi sono fatto portare al lago (nella parte nordovest della città), avendo l’indirizzo datomi da un vecchio ebreo con codino, della Same same bat different, poi risultata lurida topaia. Io, specie quando sto in giro a lungo, cerco di non buttare via i soldi, ma ho anche certe regole di igiene e di sicurezza. Più invecchio e più divento schizzinoso. L’ambiente in riva al lago Boeng Kak è una serie di stradine da suk africano, per terra si pestano pozzanghere su cui è meglio non indagare, né intingervi le ruote del trolley, la sporcizia è accuratamente accumulata e conservata meglio che a Napoli, si vedono porticine e vicoli dove può succedere di tutto, anche sparire senza lasciare traccia alcuna. Ciononostante è fittamente popolato da bianchi e ci sono anche molte donne giovani, stanche di non essere mai rapite. Molto suggestivo e attraente, non per me che sono già alla fase della delusione. Quindi ho visitato altri tre posti decorosi-costosi, però tutto era full già alle 14 (nonostante fossi partito la mattina presto da Kep, per non arrivare nella capitale tardi); tra il dileggio e lo scompiscio dei tuk-tukari, mi sono fatto portare al Capitol, noto prestigioso posto di freak globetrotter. E infatti ce n’erano molti, al ristorante del ground, quasi tutti malandati e più vecchi di me, con quel patetico codino “a valle della pelata” che lancia un messaggio, che testimonia una fedeltà anche ideologica a un passato ormai solo rimpianto. (Non mollare, perché cambiare, ma chi ce lo fa fare, anche volendo, dato che non ci resta altro, almeno ricordare). Ma c’era anche il tipo Vercingetorige dopo la sconfitta; il tipo D’Artagnan ancor biondo forse tinto e capellone-baffone; il Cristo flagellato poco allegro; il motociclista ancor possente con gilè sul torso nudo, capelli rasati e braccia poderose; lo scheletro vivente ingobbito; il cupo affaticato solitario assai preoccupato sostenitore del globo terrestre; il giapponese ambiguo neutro giustiziere con barbetta e pantaloni corti; il bancario austroungarico ritondetto dal capello carota a spazzola, fuggito baffino porcino neonazista. Molti rimasti soli dopo mille avventure. Non mancavano alcune panzone biondo-canute con lunghi capelli sciolti, mammelle libere pendolari all’ombelico postmaman e glorioso passato di nudiste a Goa prima di tramutarsi in imprevedibili incredibili mongolfiere.

Ovviamente, per anarco-simpatia e melanconia, pur avendo nulla in comune sono sceso lì e ancora ci sono. Più che sceso sono salito, perché le uniche camere libere erano doppie e al secondo piano. Alla reception ho dovuto attendere parecchio perché davanti a me c’erano tre rimbambiti francesi, assolutamente monoglotti e disorientati nel tempo e nello spazio, due vecchi e una vecchia clamorosamente rossa, che viaggiano insieme eppure hanno preso tre camere doppie diverse; pensionati maleducati e poco attenti al prossimo. La loro villania non ha nulla di freak, piuttosto del provinciale pollo in batteria analfabeta (probabilmente di ritorno).

Mettiamo pure in conto la camera che dà sulla strada, il rumore, lo smartellamento a tutte le ore inevitabile nel terzo mondo, sebbene poco spiegabile, il fatto che nemmeno sceso dalla scala, da fuori mi fanno già ampi cenni, offrono tuk-tuk, ladies, smog e tutto il resto.

Tutto sommato, con i tappi di cera si dorme.

20 gennaio

Partiti. Scrivo con difficoltà, serrato da bue filosofo con codino, potrebbe essere anche giapponese; aveva occupato il mio seat n 1. Ora è al mio fianco e preme contro di me. Dovrò sopportare questo indesiderato contatto per almeno altre quattro ore, perché siamo partiti dalla capitale alle 8,45 e dovremmo arrivare alle 15. Ora sono le 11. A parte l’indigena alle mie spalle che telefona ininterrottamente (il suo vicino è molto peggio, voci lagnose, sfortunate), tutto il resto è sopportabile. Piove.

Ci siamo fermati alle 11.15 sotto una squallida tettoia. I mendicanti prima in ricreazione ora si attivano, ma non possono entrare nel ristorante. Non esiste cucina, solo un bidone da petrolio da dove si estrae il riso in papparella. Prendo un po’ di carne che al primo boccone risulta schifosa. Anche il riso bollito viene respinto dal mio stomaco. Interrompo immediatamente, forse non ho fame. Gli europei sono tre o quattro in una folla indigena che mangia allegramente il suo sterco alle spezie.

Grossi topi neri bagnati e scapigliati attraversano il ristorante.

Ora il pullman è stato riaperto e mi affretto a salire. La pioggerella è diminuita. Andiamo verso nord e la campagna è meno squallida: ci sono anche tratti di risaie verdi, campetti di ortaggi, di mais. Poco traffico, molti altri autobus ci hanno sorpassato, noi non ne abbiamo sorpassato nessuno. La tratta Phnon Penh-Siem Reap è la più frequentata dai turisti che non viaggiano in aereo. La velocità di crociera è scarsa, anche perché attraversiamo spesso piccoli centri abitati e affollati. Il pilota rispetta il frequente limite di 40. Inoltre alle 11 le lezioni cessano e al solito ci sono centinaia di studenti in uniforme scolastica delle superiori in bicicletta, anche delle elementari, questi in maggioranza a piedi (perché la scuola è più vicina). Nessuno usa l’ombrello. Stagni con grandi foglie di loto senza fiori, con fiori, banani, pozzanghere con anatre, palme. Ogni 500 metri c’è un grande cartello azzurro del Cambodian People’s Party, molto più raramente quello del Funcipeg Party e ne ho visto uno anche di un terzo partito che comincia con Nodorom e di un quarto, per Sem. Solo un attimo dal finestrino.

Tutto si ripete monotonamente (come la vita e l’amore).

Ore 13.15: Abbiamo attraversato il grosso centro di Kampong Thom (il lemma Thom significa grande), stiamo seguendo la statale n 6; siamo arrivati a un grosso bivio verso ovest, per Poipet (verso la Tailandia) e Siem Reap (verso Angkor). Da lì è cominciata una itineris nova ratio: strada con linea tratteggiata al centro (che indica trattarsi di cosa seria), poco traffico, pochi centri attraversati, velocità raddoppiata. In questo momento stiamo attraversando un villaggio, il clacson è spietato, dopo ore di autobus non se ne può più.

13.30: Altra fermata stavolta va meglio. C’è una zuppa di vermicelli fusi a matassina. Sufficiente. Il sapore non è male, via. Ora il tempo è peggiorato e la pioggia scroscia. Si riparte. Siamo cullati da una canzone interminabile. La voce, maschile, non sarebbe spregevole, è la lagna infinita che rattrista. Forse le parole saranno belle. Comunque si apprezza che il volume sia tenuto abbastanza basso.

Haiku: bruta la Cambogia/e pegio/ soto la piogia.

Oh arrivare ad Angkor con la piova.

Arrivo puntuale alle 15.

Assalto dei tuk-tuk: uno dei momenti peggiori di tutto il viaggio.

Trovo posto alla guesthouse Victory, discreta.

[…]

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