Phnon Penh, 15 gennaio 2010
Ho appena comperato 18 bustine di Kamagra (tutto il disponibile) su commissione di un cliente padovano. La commessa non credeva ai suoi occhi e con meraviglia mi ha fatto ripetere l’ordinazione due volte. Invece la scafata superiora, faccia da quadro khmer sui 50, non credo si stupisca più di nulla. Per prenderla in giro le ho chiesto uno sconto; lei ha risposto un no con particolare accento di strozzina che se potesse torturerebbe ancora.
La farmacia è sotto casa, anzi ce ne sono tre in cento metri. Come del resto vari internet-point e boulangeries. Qui è tutto sottocasa, vicino al Capitol.
Il Capitol è una prestigiosa guesthouse in pieno centro, posizione invidiabile, molto nota nel mondo dei globetrotter, 100 metri dal boulevard Monivong, asse della città, e dall’altra parte a 50 metri c’è il famoso Orussey market, per ubriacarsi in fretta senza bere, pestare sconcezze, bagnarsi i piedi in acque lorde che allagano il pavimento specie in prossimità dell’ampio settore pescivendole. Nella parte esterna c’è tra le altre mille cose il banco porchette, con un’étalage delle medesime laccate in rosso, appese intere, continuamente amorosamente ripassate con una specie di fon da cui esce una fiamma quasi ossidrica, altre a pezzi sul ripiano delle bancarelle. Molte le teste intatte, suggestive e amabili anche come fisionomie; mi pare che fosse Shopenauer che diceva che gli animali non hanno fisionomia, forse mi sbaglio e comunque si sbaglia lui. Queste ce l’hanno e alcune mi ricordano professori, ma anche melanconiche ragazze.
Conosco il Capitol fin dalla mia prima visita in Cambogia, dove sono giunto via terra nel dicembre 2001. Il confine di Ko Kong era stato appena aperto. (Nel gennaio seguente a Bangkok ho visto per la prima volta gli euro dal vero). Al pianterreno c’è il ristorante (toilette e cucina, pur distinte tra loro, sono inguardabili). Nello stesso ambiente c’è il cambio, ora perfino un bancomat della Canadia bank (mai sentita nominare), ma soprattutto il banco che vende biglietti di autobus e battello veloce per Siem Reap, che costa ben 35 dollari. L’autobus 5 dollari e ci mette 6 ore invece di 4. Vende anche una dozzina di escursioni varie (per ognuna c’è un foglio appeso al banco, su cui scrivere il proprio nome onde raggiungere il minimo di persone, altrimenti salta tutto, il che si verifica molto spesso). Ieri ho fatto il loro il city-tour, assieme a gente sgradevole. Il palazzo reale era chiuso, ma al Capitol se ne fregano, tanto i soldi li hanno già beccati. In giro per la città si vedono parecchi autobus della Capitol tour e hanno perfino un’acqua minerale col loro nome. Ho parlato con la ragazza figlia del padrone, bruttina, snella, distinta, sui 25, sa il francese e si autocorregge specie nei verbi (forse l’insegnante la riprendeva spesso), ha un fratello e tre sorelle, una delle quali dev’essere quella desolata brutta e grassa che fa l’altro turno; non mi serve chiedere, la sicumera ce l’ha scritta in faccia: sono la figlia del padrone. Tipico atteggiamento supponente da cinese ricco (e infatti il loro calendario esposto è quello notissimo da queste parti, rosso cinese fatto in Tailandia). Invece le altre commesse indossano un’uniforme, sono carine, finte gentili, sorridenti coi clienti, alcune negli intervalli vuoti ridono in continuazione come sceme. Ho avuto modo di esaminarle a lungo dal tavolo dove mangio ogni giorno.
Il Capitol è un frastornante viavai ininterrotto, la mattina ci sono i bonzi a elemosinare. Guesthouse de canton fa soldi ogni bonzon. Quelli scrocconi si presentano soli con l’ombrello aperto, di solito ogni monaco ha un fedele assistente con gamella a vari piani che elemosina per loro. In generale poco simpatici. Ricordo anche, in varie nazioni indocinesi (fino a qualche anno fa, ora non più, essendo ormai fuori concorso) parecchie proposte e ammiccamenti (omo)sessuali da parte di monaci, che notoriamente sono, come tutto il buddismo, misogini (ma allora è meglio l’islam col suo paradiso colmo di splendide Urì che scopulano ininterrottamente coi martiri).
Il mio interesse per i monaci non riguarda la religione ma la fotografia. L’ho già scritto varie volte, come tema lo trovo stupendo. Oggi dopo le 4, tornerò davanti al Palazzo Reale sul lungofiume, dove sono stato anche ieri, a fotografare. È una delle poche cose belle da fare nella scialba Phon Penh. Diciamola tutta: la Cambogia ha poco da offrire. La costa è bella, si mangia ottimo pesce, granchi, granséole, canoce, ma l’unico motivo per venirci anche da lontano è Angkor, luogo mitico e assoluto a livello mondiale. Mi hanno detto che ora il complesso di Angkor è stato comperato da privati che ci speculano a gogò. E io che credevo che fosse l’Unesco. Si fregiano dell’Unesco ma i soldi sono tutti per loro.
Stavolta ho trovato Pnon Penh diversa, più attiva, in un certo senso migliorata; molti edifici nuovi di zecca, qualche grattacielo, le sedi dei ministeri sono in palazzi ben ristrutturati, ridipinti, come anche le recinzioni in muratura. Le strade perpendicolari al boulevard sono state riasfaltate, molti i negozi di tipo vecchiotto/tradizionale, telefonini, elettrodomestici, ferramenta, ventilatori, lampade e lampadari anche giganteschi, bici, anche per bambini, moto, perfino rappresentanze di auto, tutte giapponesi. Da notare un’evidente stranezza: non ci sono negozi di abbigliamento, se non arcaici e rari con manichini comici e poche immagini. L’unico Big Burger del Boulevard centrale è stato chiuso e perfino l’annesso supermercato. Ora al suo posto ci sono negozi di mobili e tecnologia avanzata. I nomi sono sempre gli stessi: americani, giapponesi, ma c’è anche Ariston. Incredibile dictu, mentre ci sono molte farmacie, non ho visto un solo supermercato nemmeno piccolo nel corso centrale lungo parecchi chilometri. Non me lo spiego, o forse il tutto sarà stato spostato in luoghi periferici dove i turisti non arriveranno mai. Se uno vuole comperare dei biscotti, una penna biro, un quaderno, non sa dove sbattere la testa. Probabilmente bisogna andare all’Orussey market, dove, in condizioni igieniche inaccettabili, si trova di tutto, dai dollari finti da bruciare per i defunti, ai ristorantini che guariscono dalla stitichezza, alle radici farmaceutiche, alla bigiotteria di latta, ai dolci, alla frutta, alla carne, agli arredi religiosi. Ci sono altri due piani: si intravedono abiti. Non sono salito. Uguale o aumentata la sporcizia, gli sputi. Le ragazze scatarrano e sputano come slavi, alcune sono belline, ma niente di speciale.
Si vedono pochissime belle donne asiatiche, slanciate, eleganti anche troppo. Specie verso il lungofiume, luogo elegante della città. Temo che siano turiste, con ogni probabilità tailandesi che vengono, anche accompagnate, a fare le americane.
Ci sono, specie sulla costa, grandi pannelli che condannano la prostituzione e lo sfruttamento infantile (abuse and exploitation of children). Nei luoghi frequentati da turisti si trovano depliant in inglese (concepiti piuttosto maluccio da gente poco preparata) con i numeri telefonici cui rivolgersi per denunciare gli abusi. Purtroppo il turismo sessuale e la prostituzione infantile sono piuttosto diffusi in Asia, ma anche in Italia e a Padova (quindi non occorrerebbe spostarsi di molto per imbattersi in certe cretine moraliste di mia conoscenza, che probabilmente sono le prime a prostituire le proprie figliolette e pronipotine, per non dire di peggio).
Si cerca di fare il possibile per aiutare davvero i bambini senza che vengano derubati dai loro sfruttatori. Il cibo offerto (frutta, biscotti multivitaminici) deve essere fatto ingerire subito, col sistema francese delle oche (ma senza imbuto). Erratissimo elargire soldi ai bambini: li si abitua a trasformarsi in strutturati mendicanti. Bisogna fornire cioccolata, frutta, oggetti per lo studio. A Bagan (Myanmar) ho comperato una cinquantina di quaderni e altrettante penne biro. Il primo giorno sono salito su una pagoda grande a terrazze, da cui si gode un panorama unico al mondo. Subito una ventina di bambini mi hanno seguito schiamazzando per vendermi cartoline. Ho fatto l’errore di estrarre dalla borsa i quaderni (me n’ero portato una dozzina). In meno di due minuti non avevo più nulla.
Le pagode costruite a Bagan, secondo i documenti antichi, sono 4.444. Quelle attualmente censite sono circa 2.500. Ogni giorno mi spostavo in bici lungo le due deserte autostrade che attraversano la zona archeologica, deviavo a caso per sentieri sterrati verso quelle che mi attiravano di più. Stili, epoche, da studiarci una vita. Il giorno dopo altra dozzina, se li strappavano dalle mani e così via fino a rapido esaurimento e mio acuto disappunto. Quando ormai non avevo più nulla ho fatto amicizia, sopra una pagoda assai famosa, di cui ora non ricordo il nome, con vari ragazzini di pochi anni, e con due studentesse quindicenni. Ho fatto molte foto, comperato varie banali cartoline (legate verticalmente e malamente tra loro con casalinghi pezzetti di adesivo), specie da una bimbetta di 6 anni, la più bruttina e triste, magra, dal viso triangolare, forse emarginata dalle prepotenti del gruppo, meschina (direbbe Caruso). Un polacco, che avevo già incontrato varie volte all’internet-point di Nuang U, mi ha chiesto di scattargli una foto, e io ho fatto altrettanto. Solo la bruttina mi seguiva, così ho voluto che si fotografasse con me. Ho girato intorno alla pagoda, il cielo era di un celeste incantevole, si vedevano, sparse nella scarsa boscaglia, nel territorio semidesertico e abbandonato (ci sono in realtà dei piccoli villaggi di poveri contadini, passano in lontananza lenti carri dalle ruote grandissime, tirate da zebù giganteschi e solenni) si vedevano profili di centinaia di stupa e pagode, vicine lontane controluce, a seconda dei lati, c’è sempre un po’ di foschia che aiuta la fotografia. Sceso dalle ripide scale all’indietro, alla terrazza inferiore, ho ritrovato una delle ragazze quindicenni, che avevo fotografato prima. Ho notato che, mentre a me girava la testa solo a sporgermi, loro si sedevano tranquillamente sull’orlo, anche sui merli e muretti, senza il minimo capogiro. Alcune foto sono venute benissimo. Vestita in modo piuttosto ricercato e affatto casuale, un bel viso ovale, le guance al solito coperte dalla crema gialla del Tanaka, una sofisticata borsetta di tela a tracolla (scrivo a memoria. Rivedendo le foto forse dovrò fare delle correzioni), stava leggendo ad alta voce da un minimo libro scolastico in myanmar. Era scalza, come tutti sulle pagode, i piedi erano volgari, polverosi e bruttissimi, anche la gambe, piene di punture di insetti. Siccome parlava un inglese fluente, mi sono incuriosito e le ho chiesto come mai lei e tutti quei bambini non fossero a scuola. Semplice: era domenica! (E gli altri giorni?). Le ho chiesto delle materie di studio e mille altre cose. Si chiama Cherry, abbastanza strano, forse nome di battaglia. Lei ha voluto sapere molte cose concrete e utili nell’immediato e si annotava, in alfabeto myanmar, alcune semplici frasi in italiano, di cui sapeva già qualche parola come tutti i bambini che vendono catroline. Le altre bambine mi avevano venduto le cartoline, set di dieci, a colori, belle e scioccamente generiche, a 500 kiat dopo aver chiesto 1000, lei pretendeva addirittura 2000, e si è annotata la frase: “le mie cartoline sono molto migliori”. Ma non era affatto vero, erano altrettanto banali: riproduzioni mediocri in bianco e nero di vecchie foto anni Trenta, reperibili a un dollaro negli aeroporti (che notoriamente hanno dovunque prezzi da ladroni diutifrì). Allora le ho detto che se le tenesse pure e che le davo ugualmente 1000 kiat. Non ha fatto una piega e ha intascato la banconota dicendomi che per me era nulla ma che per lei era importante. L’amichetta brutta intanto ha visto la mia stupenda scintillante penna dentro l’agenda Montepaschi (agenda annuale modesta assai, fatta in economia, adatta alla crisi. Quelle dell’Antonveneta d’antan, ai bei tempi erano molto più eleganti). Era la mia penna italiana personale e l’unica che mi restava, gliel’ho regalata. Lei si è illuminata e mi ha chiesto un foglio di carta. Avevo soltanto l’agenda, del 2009, quasi tutta ancora immacolata dato che avendo dietro il portatile, raramente ci scrivo, ed era ormai dicembre. Allora ho strappato un sedicesimo bianco dall’agenda e gliel’ho dato. Lei raggiante ha cominciato a disegnare. Subito altre bambine e bambini sono accorsi e io ho strappato altri sedicesimi di agenda. Un’altra bimbetta molto minuta mi guardava incuriosita. Non ce l’avrebbe mai fatta a superare il muro di aggressivi fratellastri, tanto che la quindicenne che assisteva con uno sguardo crucciato e quasi invidioso, mi diceva in italiano: basta, basta. Mi sono ricordato di avere nella monacale borsetta quella matitina corta che regalano all’IKEA (mi porto sempre dietro una matita per sottolineare leggermente i libri). Così l’ho data a quella bimba e ho continuato a strappare sedicesimi di agenda. Infine è arrivato uno studente grande e grosso e me ne ha sfrontatamente chiesto anche lui. Ho strappato anche l’ultimo sedicesimo bianco riservato ai numeri telefonici. Intanto riflettevo se quei bambini mi stessero prendendo in giro, se giocassero con il vecchio bacucco, o se invece avessero davvero fame di carta.
Quando, sazio della bellezza della zona e per evitare la sindrome di Stendhal, ho deciso di scendere, Cherry furtivamente determinata mi ha regalato un uccellino di carta (sua) che aveva confezionato per me. Sulle ali la birba aveva scritto il suo e-mail. Potrei una volta in Italia, allegarle le belle foto, ma sarà prudente con la dittatura?
Sono sceso finalmente al suolo di terra rossastra, ho rimesso gli infradito, mi sono diretto alla bici. C’erano cespugli di buganvillee, bancarelle, dipinti, campane-gong, infinite marionette e cartoline. Una voce mi chiamava: la bambina bruttina mi salutava dalla prima terrazza agitando la mano.
A Sihanoukville (Cambogia) c’erano, nei ristorantini coperti della spiaggia dove ci recavamo ogni giorno con l’amico Eugenio e altri, moltissimi bambini indigeni (oltre che biondi figli dei turisti specie russi. Una signora giovane consorte di inquietante magnate russo, lei di aspetto indiano, bellissima, colta, parlava 4 lingue, aveva quattro bambini sotto i sei anni. Un giorno è gentilmente venuta a scusarsi per il disturbo). Alcuni di questi bambini erano felici figlioletti bradi dei padroni; altri più straccioni, bambini del popolo che venivano con fare non piagnone, altamente seduttivo ma simpatico, a prelevare le bottiglie vuote, le lattine ecc. Alcuni, specie le bimbe, erano altamente fotogenici. Noi li coccolavamo; Eugenio, il comunista dal volto umano, li ringraziava con soldini, per svolgere quel lavoro di pulizia, erano sotto la nostra protezione, assieme alle sorelline maggiori che ci vendevano cianfrusaglie, patatine, salatini, oppure volgare cotonato, belle ragazzette sui 14-15 anni (attenzione: tutte persone molto serie, perfino educate e colte, studentine che cercano di guadagnare qualche soldo vendicchiando nonnulla in spiaggia), e le loro madri, tardone trentenni ormai sfatte, lavoratrici indefesse, col bilanciere che da una parte ha un pesante scaldino-fornello di terra refrattaria e dall’altra il bidone contenente i calamaretti da cuocere al momento. Ce n’erano anche con ottime canocchie laccate in rosso già cotte. Ce le preparavano con coltellini, le intingevano in una salsa buonissima, poi ci spremevano sopra il lime. Tutte nostre amiche e ogni giorno abbiamo fatto memorabili rimpiante scorpacciate comperando alla grande da loro, che ci davano amabilmente un supplemento gratuito come premio fedeltà.
(Altro che rimpiangere il nostro perduto puzzolente posto di lavoro!)
E ancora: le massaggiatrici e manicure, un paio di bellezza altera, forse espugnabile (ma gli ambìti seduttori bianchi vengono immantinente presentati ai genitori…), 7 dollari a massaggio (a me il massaggio più che altro infastidisce e non mi piace affatto, forse perché mi costringe a riflettere a lungo in un contesto inadatto; ne ho fatto solo uno ai piedi: un male tremendo).
Eugenio: simpatico lombardo pensionato picnomorfe sosia di Denny De Vito ma 5 cm. più alto, paleocomunista birradipendente, conosce le spiagge di Sihanoukville come le sue tasche, ha un accurato dossier per ogni persona, guesthouse, ristorante, turista, massaggiatrice, cameriera ecc. Ora è partito per Kuala Lumpur, ma in marzo torna a Sihanoukville, così rivedrà amici e amichette, mentre io sarò già tornato alle cimmerie nebbie della pianura padano-veneta.
Ho alloggiato al Sakal (sulla Victoty hill) che lui mi aveva da tempo segnalato via e-mail, posto discreto, gremito soprattutto di vecchi quasi sempre single. Stanno in camere e bungalow spartani economici, la loro attività principale è bere. Sihanoukville è l’unico porto della Cambogia e forse per questo motivo l’alcool, compresi i superalcolici anche stranieri, non costa nulla. Oltre ai fiumi di birra vanno molto la vodka, il rum, il cognac, ma anche liquori dolciastri e strani, Daiquiri, Drambuie, che conosco da sempre perché bevuti da Hemingway. Ho bevuto, dal 20 novembre scorso, una sola birra, un paio di brandy Mekong (sul lago Inle), un Martini bianco (schifoso), uno rosso discreto. Si tratta in genere di volgari imitazioni di fantasia per palati volgari e senza fondo.
Il bar del Sakal dà sulla strada, è aperto 24 ore. I trespoli sono occupati già alle nove di mattina, molti vi passano ore e ore. Sono clienti, mi riferisco ovviamente ai soli bianchi, che passano qui mesi e mesi, in genere pensionati, anche giovani nel senso di baby-pensionati, europei e australiani, gente strana, non sarebbe strano che alcuni avessero pendenze con la giustizia. Alcuni ci hanno candidamente raccontato che da anni non tornano a casa (vite, storie, drammi, liti, malattie, attese, solitudine, abbandoni, separazioni, fallimenti, lutti, ingiustizie, ferite inguaribili, oppure ragionieri spariti con la cassa, truffatori ora benestanti, vincitori di piccole lotterie, assassini, agenti passivi in sonno o benemeriti pentiti che hanno cambiato identità e fisionomia facciale a spese degli stati?). In gergo li chiamiamo lungodegenti. Alcuni hanno una compagna indigena molto più giovane, rare le ultrasinodali, in genere sono scimmiette rincagnate, di scarsissima avvenenza e gambe valghe, della serie: “guarda un po’ di cosa mi devo accontentare”. Ce ne fosse una belloccia. D’altra parte il contraltare è un banale vecchio bianco fallito ubriacone senza cultura, che ovviamente parla solo inglese, prossimo al rimbecillimento.
Più sopra, sulla collina (il Sakal si trova in basso, vicino alla spiaggia, la salita è ripida: moto e tuc-tuc carichi di cliente non ce la fanno, bisogna fare il giro), c’è una piccola strada del vizio, dove lo stesso alcool mediocre costa 3-5 volte di più, le ragazze sono più vistose, e cercano di accalappiarti. Tutto povero, squallido, non migliorato almeno negli ultimi 5 anni, prezzi quasi fermi. Anche la moneta, il Rial, si dimostra stabile, e non ha mutato negli ultimi anni il rapporto col dollaro: un Dollaro vale circa 4100 Rial e viene normalmente accettato in pagamento e dato come resto. Anche in Myanmar e in Laos, ma non in Tailandia che anzi impone il suo Bath ai vicini che lo accettano in pagamento più che volentieri.
Riflessione da fare su questo paese: nessun nudo, assoluta mancanza di richiami erotici. Ciò era ancor più evidente in Myanmar. Forse noi occidentali, ininterrottamente bombardati da messaggi erotici anche subliminali, lo notiamo di più. Le uniche donne belle che ho visto sono le russe in spiaggia: bionde di coscia lunga con bei tanga; la sineddoche allude al contenente per il contenuto (che però anche in questo caso rinvia a sua volta al contenente. Che figuraccia equivoca!). Bellezza fisica e linguaggio del corpo. Che le giovani australiane dotate di bellezza dell’asino, ma volgari e bifolche, non hanno di certo.
Insomma l’eros latita e si rimpiangono le curvilinee porcelle thai.