L’esperienza di Dio non è monopolio delle religioni
Patrizia Gioia
Partendo da questo illuminante pensiero di Raimon Panikkar, potremo, se davvero ci fermiamo a pensare con la testa ed il cuore, rispondere personalmente, prima di tutto a noi stessi, a questa domanda che ha scatenato drammatiche battaglie da più parti: che ne facciamo del Crocefisso?
Da anni “coltivo”, dentro me e fuori di me, questa difficilissima terra dove il dialogo interculturale e interreligioso è sempre più necessario e dove il pensiero di Panikkar è di vitale guida per il mio cammino. Il punto più difficile da accettare è quello di non temere di smarrirci nell’altro, perché è solo perdendo la nostra identità e, se serve anche la nostra fede, che davvero incontreremo l’altro da noi e noi stessi più in profondità. È la paura che ci rende aggrappati a sterili certezze, certezze che non esistono e che, sciogliendole, ci aprono alla meraviglia della differenza. Riconoscere che non ci sono universali culturali, anche se ci sono invarianti umane è il passo che ci apre all’incontro e non allo scontro.
Il rispetto culturale esige – scrive Panikkar – che rispettiamo i modi di vivere su cui non siamo d’accordo, o anche quelli che consideriamo nocivi. Possiamo essere costretti ad arrivare fino a combattere altre culture, ma non possiamo innalzare la nostra al rango di paradigma universale per giudicare le altre.
Quando ieri ho sentito un alto prelato dire che il Crocefisso è un simbolo universale, mi sono chiesta, con tutto il rispetto dovuto, quanto questo essere umano fosse davvero in verità con sé stesso. Davvero “credeva” a quel che diceva? Come non comprendere che il Crocefisso è simbolo per una parte del mondo e per altre parti no? Perché imporre il nostro simbolo a chi non lo può comprendere? Non è forse questo “non comprendere” che ci fa ergere difese e offendere e, spesso anche oltraggiare, il simbolo dell’altro “diverso” da noi?
Non esistono nemmeno diritti universali, ché la carta dei diritti universali esistente è l’occidente che l’ha stilata perché ancora l’occidente vuole predominare su altre culture, che arrogantemente e ignorantemente chiama “sottosviluppate” o del terzo mondo. E non si tratta di arroccarci nella nostra casa, ma sentite cosa scrive Tagore:
“ Mi hai fatto conoscere ad amici che non conoscevo. Mi hai fatto sedere in case che non erano la mia. Mi hai portato vicino il lontano e reso l’estraneo un fratello. In fondo al cuore mi sento a disagio quando abbandono l’abituale rifugio; scordo che il vecchio abita nel nuovo, e là Tu stesso hai dimora. Attraverso la nascita e la morte, in questo oppure in altri mondi, ovunque mi conduci, sei Tu, lo stesso, unico compagno della mia vita senza fine, che unisci con legami di gioia il mio cuore a ciò che non è familiare. Se conosco Te, nessuno mi sarà estraneo, non vi sarà porta chiusa, né legami, OH, esaudisci la mia preghiera: ch’io non perda mai la carezza dell’uno nel gioco dei molti.”
Chi è questo Tu? Questo compagno di viaggio? Se lo troveremo nelle nostre profondità, in quel conosci Te stesso, il Regno dei Cieli sarà anche in Terra, perché, come ha detto qualcuno: “Il Paradiso è la terra vista con gli occhi di Dio”.
Lo spazio tra le culture è vuoto. Possiamo colmarlo nel momento che usciamo da noi stessi e incontriamo l’altro.(Panikkar).
Come Kalpana Das, donna indiana direttrice dell’istituto Interculturale di Montreal scrive nell’ultimo numero di InterCulture: “per intraprendere l’avventura dell’interculturalità, bisogna fondamentalmente e innanzi tutto radicarsi al livello dell’essere e dell’esperienza che trovano espressione negli ambiti concreti della vita in società. Il pluralismo e l’interculturalità si fondano sull’avere fede (fiducia esistenziale) nel Mistero della vita (la Realtà) che si manifesta in forme infinitamente diverse e nella loro interconnessione si tratta di prendere coscienza dell’”uno nel gioco dei molti”, di assumere una coscienza pluralistica delle esperienze umane. Questo è il punto di partenza e l’atteggiamento di base e nello stesso tempo l’orizzonte che può guidarci nel cammino dell’azione e della vita interculturale nel mondo di oggi.”
La Religione non è monopolio delle religioni, l’esperienza di Dio non è monopolio delle religioni. È l’esperienza che si fa fede e la fede non ha oggetto, perché nel momento che ne “edifichiamo” uno, si inizierà a difenderlo e la difesa crea sempre offesa. Si tratta di imparare davvero che libertà e responsabilità sono inseparabili, che le culture, come la Realtà e come l’identità non sono statiche, ma in un continuo processo di trasformazione.
Il dialogo tra culture ci spinge a prendere coscienza del proprio “mito”, di metterlo in discussione e di trasformarlo, di cercare – come sempre dice Panikkar – di cercare equivalenti omeomorfici nei differenti discorsi culturali.
Questo è il processo di conoscenza a cui siamo oggi tutti chiamati, ognuno di noi, ogni cultura contribuisce al destino dell’umanità e dell’universo; è un processo di conoscenza di sé e una via per scoprire la inter-in-dipendenza di tutte le esistenze e delle tre dimensioni cosmica, divina e umana. L’interculturalità se non parte dalla mia trasformazione non potrà estendersi alla trasformazione della società, se la pace non nascerà prima dentro ognuno di noi, mai sarà fuori, perché anche la spiritualità perde il suo dinamismo e il suo significato senza le dimensioni psico socio politiche dell’interculturalità.
L’interculturalità riconosce che il monoculturalismo è letale e il multiculturalismo impossibile. Il monoculturalismo asfissia le altre culture opprimendole. Il multiculturalismo ci conduce a una guerra di culture o ci condanna a un “apartheid” culturale che alla lunga diventa a sua volta soffocante . (Panikkar).
Questa dell’interculturalità e interreligiosità è una nuova terra su cui stiamo camminando da tempo, moltissimi sono i trabocchetti, le erte salite, le vertiginose discese, i “cul de sac”, i miraggi, le scorciatoie, i precipizi, ma molte sono le “guide” che “profeticamente” ci indicano la giusta nuova via. Se davvero siamo uomini di buona volontà seguiremo le loro tracce, non per copiarli, ma per rischiare la nostra vera vita e le nostre risposte.
Anni fa, durante questo bello e difficile cammino verso il divenire uomo, feci una domanda ad una di queste “guide” per avere la sua risposta ad un mio dilemma. Mi rispose: “credo che tu oggi possa darti da sola questa risposta”. Per me fu un colpo basso, quanto mi piaceva essere sollevata dalle mie di risposte! Quanto più semplice e facile aderire a quelle degli altri. E così che ci si inizia all’ignavia e alla tirannide.
La risposta, semplice, amorevole e contemporaneamente dura di quel Maestro, mi invitava alla mia responsabilità e alla mia libertà. E questo è il libero arbitrio, posso scegliere la strada della paura e della sottomissione o quella della responsabilità e della libertà. Per quel che posso, ogni giorno mi incammino in ascolto dell’armonia del Mistero e della Realtà e con la Speranza che è sì nell’invisibile, ma confina col visibile, perché se mi muovo io anche la Provvidenza si muoverà con me!
Provare per credere!
Patrizia Gioia, alla mia maniera
Il Crocefisso è giusto che stia nelle chiese, nelle sacrestie e nelle case dei credenti. Dagli edifici pubblici doveva essere tolto già molti decenni fa, prima ancora che si ponesse il problema della multiculturalità, e questo non per fare un dispetto ai credenti (che se lo possono guardare tranquillamente a casa propria e portarselo appeso al collo) ma per rispettare i non cattolici, ebrei, atei e quant’altri che vivono in Italia e che davanti a questo simbolo esposto nelle aule degliedifici pubblici non provano né caldo né freddo (come del resto tanti “cattolici”). Perché non organizzare una controraccolta di firme? e portarle alla Corte Europea?
Grazie, Renato, del contributo, che condivido.
Adam
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