Cesenatico: Porto dei Poeti, 2014
Nel programma della sesta edizione del Porto dei Poeti, che quest’anno si svolgerà nel periodo compreso fra il 9-21 giugno, abbiamo ristampato un frammento del discorso tenuto da Giorgio Caproni all’Università di Urbino nel lontano 1984. Lo abbiamo fatto per amore del poeta ma soprattutto perché è un frammento di straordinaria lucidità e chiarezza. Capace di mettere a fuoco l’arte poetica, la sua funzione sociale in modo ineccepibile e comprensibile a tutti. Sono poche righe che possono far da guida in questi anni bui e faticosa attività.
“Il poeta è un minatore”, ha scritto Caproni. “È poeta colui che riesce a calarsi più a fondo in quelle che il grande Machado definiva las secretas galerìas del alma, e lì attingere quei nodi di luce che, sotto gli strati superficiali diversissimi da individuo a individuo, sono comuni a tutti anche se non tutti ne hanno conoscienza.
L’esercizio della poesia rimane puro narcisismo finché il poeta si ferma ai singoli fatti esterni della propria esistenza o biografia. Ma ogni narcisismo cessa non appena il poeta, partendo dai laterizi delle proprie personali esperienze e costruendo con tali laterizi le proprie metafore, riesce a chiudersi e a inabissarsi talmente in se stesso da scoprirvi e portare a giorno quei nodi di luce che sono non soltanto dell’io, ma di tutta intera la tribù. Quei nodi di luce che tutti i membri della tribù possiedono, ma che non tutti i membri della tribù sanno di possedere, o riescono a individuare. E si arriva così al paradosso che quanto più il poeta si immerge nel pozzo del proprio io, tanto più egli allontana da sé ogni facile accusa di solipsismo: appunto perché in quella profondissima zona del suo io, è il noi: un io che, dalla singolarità, passa immediatamente alla pluralità.
La funzione sociale – civile – della poesia sta, o dovrebbe stare, appunto in questo. Poesia significa in primo luogo libertà. Libertà e disobbedienza di fronte a ogni forma di sopraffazione o di annullamento della persona: di fronte a ogni forma di irreggimentazione o, peggio, di massificazione. La società in cui viviamo minaccia con sempre maggior pesantezza i più elementari diritti del singolo: minaccia la distruzione totale del privato (della persona), per ridurre gli individui a una somma di “consumatori”, ai quali – nell’imperante mercificazione anche di quelle che una volta venivano chiamate le aspirazioni spirituali – si vorrebbero imporre bisogni artificialmente creati per alimentare una macchina economica che trae a sé tutto il profitto, a pieno scapito d’ogni scelta interiore.
Il poeta è il più deciso oppositore, per sua propria natura, di tale sistema. È il più strenuo difensore della singolarità, rifiutando d’istinto ogni parola d’ordine. E per questo il sistema lo avversa, sia ignorandolo o fingendo d’ignorarlo, sia cercando di minimizzarne la figura con l’arma della sufficienza e dell’ironia.”
Non si poteva e ancora può dire meglio di così. Almeno credo. Per quanto riguarda la nostra esperienza, quando sei anni fa s’è deciso di far nascere Il Porto dei Poeti l’obbiettivo era chiaro: riprendere con fini e modalità diverse gli intenti e lo spirito della rivista Sul Porto: del fare cultura in provincia fondata a metà degli anni ’70, assieme a Ferruccio Benzoni. Allora per noi e per chi come noi aveva scelto di restare in provincia, rivendicandola come marginalità e rifiuto dei soliti giochi del potere editoriale, non era facile dissentire dalle ideologie dominanti che in quel periodo invitavano al triste banchetto di sempre, negando l’idea che la poesia potesse essere un ‘modo per consegnare la parte più leale di noi agli altri, rispetto a tutta l’altra parte contrattata che si spende nella vita’ come ci aveva insegnato Alfonso Gatto, in una notte di primavera a Cesenatico (vedi: Il Sogno del Poeta, incontro con Alfonso Gatto, Sul Porto giugno, 1974) Non era facile opporsi ad uno stalinismo ancora radicato che s’esprimeva nelle sedi della sinistra tradizionale. Non era facile opporsi alla neo-avanguardia letteraria trionfante, né a quelli che ci invitavano all’auto distruzione, in nome di un “individualismo ontologico perduto in uno sterile e inerte moralismo protestatario”.
Non lo era per chi come noi avvertiva nella tradizione e nei poeti degli anni ’50 un’esperienza irrinunciabile, specie nel neo-sperimentalismo postulato da Pasolini sulla rivista Officina (pg. 9-10, 1957). Né lo era scrivere (come in Tre Cronache dal Confino, numero unico di Sul Porto, marzo 1976) pensando chiaramente ad Asor Rosa, Barilli, Balestrini, Porta e compagnia bella: “Troppi, e a questo punto ce ne vogliano, parlano di cultura dalla terra asettica delle terze pagine dei quotidiani, dei settimanali ad alta tiratura, con il distacco e il qualunquismo di chi queste cose le fa unicamente per mestiere, di chi abita altrove e lì, fra quegli inchiostri, si sia trovato con fastidio impigliato per esprimere la propria remunerata e professionale opinione. E troppi altri invece ne scrivono nei così detti saggi specialistici, importanti, in maniche di camicia; fingendo di non sapere di essere gli uni estensori di degradate confezioni (cialde sfornate per soddisfare ed ulteriormente alimentare il consumo culturale di massa) e gli altri neo sacerdoti”, con in mano le chiavi d’accesso alle gerarchie del sapere. “Entrambi colpevoli di alimentare un’idea di cultura e di prassi culturale ingenerata dal Potere”. Non lo è neppure oggi. Ma sono cose che fanno parte della nostra storia; esperienze che abbiamo vissuto e di cui ci assumiamo ogni responsabilità. Ora i tempi sono cambiati, le sfide sono diverse, forse smisurate per le nostre forze. Lo scenario contempla la scomparsa di ogni scenario.
La memoria serve solo per dimenticare. L’ oscurantismo invoca più luce, mentre chi la luce dovrebbe mantenere viva si preoccupa di miniaturizzarla, al riparo con cautela per timore delle tenebre. In questo bailamme orripilante chiaramente la logica dei privilegi prolifera accanendosi sui più deboli. Vincono i privilegi in una loro forma arrogante e impunita. Le ragioni sociali ed economiche che quotidianamente producono quei privilegi e li giustificano non sono più dibattute. Il fanatismo utilizza con fare pugilistico la parola ‘amore’ e ne offusca la rintracciabilità anche minima, anche creaturale. I cultori dell’infelicità hanno mutatato pelle ma non il vizio. Ora occorrono nuove chiavi del dire, del fare, del pensare per non collaborare a false testimonianze; per comprendere i meccanismi del potere che discrimina, umilia e governa con aperta ferocia per l’inganno di sempre. I meccanismi che escludono la maggioranza degli uomini e delle donne dalle scelte che contano e determinano la loro realtà lavorano a pieno regime all’ombra della disoccupazione e del lavoro nero. Grazie alla disintegrazione del semplice pensare, più che alla scomparsa delle ideologie, e a una recessione economica planetaria di cui non sono ancora state avvertite le reali conseguenze, circola per le strade una fanghiglia spaventosa di rabbia e rancore; e nelle nostre piazze, più che di virtù comunali, prende piede un genere di fanatismo isterico che coabita sempre di più col tornaconto personale. Un intorbidimento del pensiero politico utile alle convenienze economiche di pochi migliaia come conseguenza di interessi privati in atti pubblici.
Associato ad un terrorismo retorico che da più di un decennio si affianca, degrada, sostiene e giustifica nuove forme di sfruttamento, violenza e massacro psichico ai danni di un’intera generazione (quella dei più giovani) e guerre partitiche interne per bande, potentati e clan culturali di servizio. Anche l’espressione ‘ del fare cultura in provincia’ purtroppo (in piena età telematica) non ha più senso. È una sontuosa rovina. Un’utile menzogna per non vedere ciò che sta accadendo; o meritevole distintivo di un passato che non tornerà mai più. Noi che per primi l’abbiamo usata, riprendendola da Renato Serra, per primi lo sappiamo soffrendola sulla nostra pelle. Perché quarant’anni di cultura di massa, lo spessore sinistro delle cose messo al mondo dal consumismo che operava ed opera ancora ad ogni livello, a cui la provincia si opponeva come luogo ideale, ha esaurito la sua fase trionfante. Ora, come un ciclone, sta spazzando via le false libertà che aveva generato.
Ne è speccchio e testimone anche lo stato di degrado, insicurezza, nevrosi collettiva e impoverimento del linguaggio comune che ci circonda. L’uso indiscriminato di parole oscene per mancanza di sapienza e conoscenza, che ammutoliscono quotidianamente tutti “appartengono a un modo bellico di pensare i rapporti tra gli esseri umani e di concepire la vita sociale e politica” sono accettate di buon grado, come scrive Gustavo Zagrebelsky nel suo saggio pubblicato lo scorso anno da Einaudi “Sulla lingua del tempo presente”, precisando inequivocabilmente: “ Oggi è politicamente corretto il dileggio, l’aggressione verbale, la volgarità, la scurrilità. È politicamente corretta la semplificazione, fino alla banalizzazione dei problemi comuni…l’occultamento delle difficoltà, le promesse dell’impossibile, la blandizia dei vizi pubblici e privati proposti come virtù.”
Mettendo a nudo intenzioni che strumentalizzano la politica o la religione a fini illegittimi per riaffermare un’idea illiberale della società: “o di qua o di là. Occorre schierarsi ‘assolutamente’, ‘categoricamente’. Chi non è con noi è contro di noi, come conseguenza della discensa in campo”. È venuto il momento di vendemmiare o di bestemmiare, come ha ricordato recentemente in maniera emblematica un poeta-politicante, per amore di pubblicità, al suo Papa, oggi dimissionario. Non va bene, indipendentemente dalle idee o dalla fede di ognuno, occorre ricostruire un sentire sociale comune, una decenza quotidiana orrendamente degradata e offesa. Noi sappiamo che la poesia è un’amorosa presenza, ‘è un’eresia che non cerca il rogo, perché anche i roghi sono stati consumati. Un poeta non si crede un martire, una vittima innocente di questo potere organizzato. È inutile sostenerlo. Il poeta non è vittima, ma nella sua contraddizione, è un vincitore alla fine, un vincitore che porta a termine una partita abbandonata dall’avversario”. Sono sempre parole di Alfonso Gatto, cittadino onorario di Cesenatico. Personalmente ci sentiamo decisamente lontani dalle parole che separano, umiliano e agiscono come forbici nel corpo della società. Parole ipocrite e non innocenti, espresse “Con una brama di servitù che un giorno, quando sarà studiata, parrà inconcepibile”, come ha scritto Fortini. Ci sentiamo vicini ad Ermanno Olmi, al protagonista del suo ultimo film, quando con un’innocenza disarmante che rasenta la follia dice: “Se non apriamo le nostre case, compresa la casa più intima, che è il nostro animo, siamo solo uomini di cartone”. Anche per questo abbiamo fondato Il Porto dei Poeti sei anni fa, perché gli animi si aprano, per non essere uomini o poeti di cartone. Perché le parole della poesia, quando è vera poesia, sono parole di verità. Parole che includono, dialogano, allontanano ogni discriminazione e soffrono orrendamente l’ingiustizia.
Oggi non è facile esistere (più che resistere) per la poesia che non si identifica con il potere, con la storia dei vincitori, seppure ‘temporanei’, come disse Calvino parlano della poesia di Alfonso Gatto. Non è facile ripetere con Rimbaud “pas de commissions”. Quasi impossibile produrre momenti di cultura autonoma in tempi recessivi ostili alla solidarietà, all’etica, ad interessi che non coincidano con la pura logica del profitto. Quasi impossibile, ma non del tutto impossibile. Se assieme ai tanti che si sono prodigati con noi ci sembra, almeno in parte, di avere realizzato l’obbiettivo che ci eravamo proposti: creare una manifestazione internazionale di poesia legata al territorio, libera e indipendente. In cinque anni il Porto dei Poeti ha ospitato oltre cinquanta poeti provenienti da tutto il mondo; giovani musicisti, attori, scrittori di varie lingue, dialetti, etnie e nazionalità. Alcuni prestigiosi e di chiara fama, altri meno noti ma per noi altrettanto importanti. Sono venuti per leggere i loro versi e confondersi coi passanti nei luoghi che contraddistinguono una piccola città di mare creando una rete attiva di collaborazioni; dialoghi, rapporti umani, amicizie trasparenti per quella “ Difesa del diritto alla espressione letteraria e poetica intesa anche come polemico discorso ai vicini e ai lontani, dunque come diritto all’ascolto”, come disse Fortini parlando di Sul Porto anni fa. Sono parole che mettono allegria e ancora una volta vorremmo festeggiare con tutti i poeti che sono già stati a Cesenatico e con quelli che verranno.
Stefano Simoncelli, Walter Valeri