Angelo Gaccione, L’incendio di Roccabruna,
Di Felice edizioni, Martinsicuro 2019
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Laura Cantelmo
Sperduto in Calabria tra mare e monti, Roccabruna è il nome di fantasia di un paese reale, luogo d’origine di Angelo Gaccione e teatro delle storie narrate.
In bilico tra realtà e leggenda, esse risultano “talmente reali da parere inverosimili”, come avverte l’Autore, ma ciò che sorprende è come resti immutabile nel tempo la rete di soprusi e di sopraffazioni che si ripresentano ogni volta con la stessa brutalità. Quasi che nei secoli i rapporti umani e sociali fossero segnati da una insanabile dannazione che si tramuta in violenza spietata verso i propri avversari o verso gli animali, senza essere mai scalfiti dalla razionalità, da una consapevolezza umana o dal perdono cristiano. Ne emerge una distopia, un vero inferno dantesco i cui dannati, in corpo e in spirito, sono gli stessi abitanti di Roccabruna.
Il nucleo narrativo sgorga da azioni e reazioni all’interno di una società ancorata a superstizioni ancestrali e alla conservazione di un precario equilibrio legato a un codice di comportamento che vede le indicibili vessazioni dei potenti nei riguardi dei “villani” e le reazioni uguali e contrarie di questi ultimi, esplodere come impulso catartico, ma mai come ribellione tesa a un riscatto sociale. La violenza si manifesta senza pietà verso veri o presunti rivali e non risparmia neppure inermi animali.
Il problema è l’assenza di qualsiasi barlume di redenzione, mai vagheggiata né ricercata, quasi che nella vendetta o nello scorrimento di sangue si trovi l’unica possibilità di rivalsa a causa dell’accettazione fatalistica di un destino ineluttabile.
Anche la storica vicenda del brigantaggio, che altrove ha visto non solo ruberie, ma possibilità di riscatto, nel territorio di Roccabruna si configura come furibonda resa dei conti contro tutti, galantuomini, preti e giacobini – forse portatori, questi ultimi, di una supremazia socioculturale da tenere in grave sospetto e quindi da tacitare.
Non a caso l’episodio dell’incendio eponimo cade nel 1806, poco dopo la Rivoluzione francese, quando anche quella speranza di cui Roccabruna non avrà percepito neppure il vento, aveva già registrato una seria involuzione. Ne conseguirà un’altra devastante vendetta da parte dei giacobini, conclusasi nel massacro più truce. E l’incendio appare qui una radicale quanto illusoria opportunità di catarsi.
A quel punto l’Autore stesso si chiederà, con evidente angoscia, quale sangue scorra nelle sue vene, essendo tutti gli abitanti, senza distinzione di casta o di classe, corresponsabili delle nefandezze avvenute.
In sintonia con lo spirito che pervade i racconti, “Sepolta viva” testimonia di una concezione ancestrale della donna, tanto che la dirompente sensualità della protagonista e la sua orgogliosa mancanza di sottomissione vengono atrocemente sanzionate fino a condannarla a essere seppellita viva. E in modo speculare, nelle vicende delle mogli dei migranti – le “vedove bianche” – al tempo della grande speranza della migrazione verso il continente americano, le lettere anonime verranno usate come miserabile strumento per denunciare i tradimenti delle giovani lasciate sole al paese. La pena per le sventurate e per i loro amanti, commisurata alla gravità dello sfregio, raggiungerà livelli di inaudita crudeltà. In un caso, il depistaggio delle indagini contribuirà ad accrescere l’orrore, portando alla condanna di poveri innocenti, destinati a finire ingiustamente i loro giorni in galera.
La lettura pessimistica della realtà del Meridione si colloca a buona ragione all’interno del paradigma Verga /Sciascia. L’indagine sulla “grande disgregazione del Sud”, come la definì Gramsci trattando la questione meridionale, si dipana attraverso una rappresentazione corale, priva di alcun cedimento sentimentale. E in quanto narratore onnisciente, a conclusione di ogni storia l’Autore si manifesta con le proprie osservazioni, lasciando trapelare la fonte d’informazione, ossia il dovizioso ricamo di leggende ereditato dalla tradizione orale.
I racconti, bellissimi nella loro scarna linearità, con un andamento musicale nella pregnante essenzialità del linguaggio, ricercano nella storia di un piccolo paese del Meridione le radici della violenza dei “vinti” che deflagra negando il diritto di vivere a chi è vittima della fatalistica immobilità del proprio destino fino ad esporsi alle vessazioni e allo scherno dei propri pari (v. “Il delitto di Santo Stefano”) il cui privilegio di servire il padrone, immedesimandosi nei suoi interessi, finisce per renderli viepiù schiavi.
Ne “La promessa” lo scrittore vede riconosciuto il suo ruolo di intellettuale impegnato che non scende a compromessi nella ricerca della verità. La storia si svolge in un tempo abbastanza recente, allorché nella “paralisi” di Roccabruna (mi si consenta il paragone con la Dublino joyciana) si affaccia con la carica di Prefetto proveniente dal Nord un forestiero timorato di Dio, amante dell’ordine e della legalità. Il quale ignora i codici di comportamento e le diverse sensibilità dei notabili locali, che mirano ad attirarlo in tutti i modi nella propria cerchia di relazioni sociali e di interessi economici con un matrimonio di convenienza da combinare con la di lui figlia. Il fatto di sangue che ne consegue sarà la vendetta contro la resistenza della giovane – un delitto perfetto – “una cosa pulita”, da gente che non si sporca le mani, garantendo l’impunità agli assassini. Dopo molti anni dall’evento, lo Scrittore riceverà un anonimo plico corredato dalle generalità dei responsabili dell’insospettato errore giudiziario: un tacito invito a rivelare in forma narrativa l’identità dei veri colpevoli ormai defunti, che coprirà per sempre di ignominia l’onore delle famiglie coinvolte. Una vendetta sottile, perversa e coerentemente anonima.
Altrove Gaccione concede libero sfogo alla sua vena affabulatoria ricorrendo alla categoria del grottesco (che introduce anche un po’ di ironia) grazie a un classico espediente letterario, quello di un antico documento risalente al secolo XI, rinvenuto negli archivi di Roccabruna. La responsabilità dei fatti strabilianti e dei crimini che vi si narrano viene addossata ad alcuni animali – una rivolta incontrollata, simile nelle conseguenze a un flagello biblico: ”Pareva un castigo del cielo”. Una evidente forma di rivalsa degli ultimi tra gli ultimi, quegli animali che i contadini hanno spesso trattato alla stregua di schiavi e che il documento afferma essere divenuti loro alleati, con “scambi” scandalosi come l’accoppiamento carnale. Ne consegue una inevitabile confusione nell’interpretazione delle leggi e dei limiti del diritto per quanto riguarda l’attribuzione delle responsabilità e delle relative pene.
Si conferma, in questo caso, l’ipotesi che per Gaccione il paradosso della colpevolezza degli animali rappresenti un artificio allegorico che pervade in forma diversa tutti i racconti, alludendo a storture e ingiustizie ancora evidenti nel nostro presente.
Nel suo aspetto più truculento la vena grottesca si ritrova anche nell’ultimo racconto, nel quale, tuttavia, una difficile pacificazione viene finalmente portata nel paese dalla serena saggezza di alcune figure femminili.
Certamente la forma racconto, nella sua brevità, si presta bene alla pittura vivida ed essenziale di una realtà complessa e ricca di violenti contrasti come quella del Meridione d’Italia. Una scelta che ha consentito all’Autore di diffondersi in esperimenti linguistici e in storie sempre incentrate sul tema del male – il male concreto, ascrivibile alle diverse manifestazioni del potere e, in generale, alla bassezza umana.
agosto 2019
Laura Cantelmo
Vedi anche a:
http://libertariam.blogspot.com/2019/09/angelo-gaccione-lincendio-di-roccabruna.html
Per prima cosa mi complimento per l’analisi approfondita della bravissima Laura Cantelmo sul nuovo e interessantissimo romanzo di Angelo Gaccione ” L’Incendio di Roccabruna”. In questo racconto dove i fatti che si svolgono sono imperniati ad una ricerca di riscatto, un reciproco appiglio ad una saggezza popolare del possibile perdono su manchevolezze anche di poco conto; l’autore Angelo Gaccione si rende conto con amarezza che, nello studio del comportamento attraverso l’esame storico nei secoli passati, si è mantenuto vivo il sentimento negativo di reciproca vendetta che non trova una via di riscatto neppure ai nostri giorni. E l’autore si trova ad esaminare la differenza tra lui e l’ambiente nel quale nascono le sue radici con una certa amarezza ma con lucidità e senza scusanti. Tuttavia debbo riconoscere, al di là del romanzo che si concentra in una località con un nome di fantasia su fatti che avvengono, un grande fermento di giovani contro un modo antiquato di essere, con grande intelligenza di pensiero cercano un riscatto dalla vera piovra che soffoca questa bellissima regione la ‘andrangheta che ne fa uso ed abuso del potere.