Andrea Zanzotto – Tutte le poesie

Pubblicato il 13 ottobre 2011 su Saggi Poesia da Adam Vaccaro

Andrea Zanzotto, Tutte le poesie Mondadori, Milano, 2011 pp. 1158 € 18,00

«Quando uscì La Beltà (1968), Eugenio Montale ne trovò l’autore “indubbiamente aumentato” rispetto al “posto di rilievo” da Andrea Zanzotto già tenuto “in quella”, soggiungeva ironicamente Montale, “che vien definita generazione di mezzo (non so quando cominci e quando stia per finire)”. Ciò che tradotto in chiaro, e aggiunta tutta la grossezza inerente a siffatte graduatorie, significa: il più importante poeta italiano dopo Montale», così iniziava la storica prefazione di Gianfranco Contini a Il Galateo in bosco (1978), come ci riferisce il prefatore Stefano Dal Bianco nella esaustiva introduzione al volume.

Le prime opere di Zanzotto lo avevano segnalato come uno di poeti più significativi della «generazione di mezzo», quella che veniva dopo i maestri Montale, Ungaretti, Caldarelli che avevano esordito negli anni Trenta e Quaranta. Dietro il paesaggio (1951), Elegie ed altri versi (1954), Vocativo (1957) sono libri di un brillante interprete della poesia del post-ermetismo, con alcune chiaroveggenze e prestiti dalla tradizione, ma nulla di più. Già si intravedono le tematiche base che faranno da fondamento della produzione maggiore: la problematica della bellezza, quella della natura e del paesaggio e, centrale, la problematica della destrutturazione dell’«io» poetico che va di pari passo con la degradazione del paesaggio. Ma il tutto è ancora dentro la tradizione. La tradizione non è ancora implosa.

È con La Beltà che la poesia zanzottiana cessa di essere un discorso innocente per il cui godimento c’è un lettore in carne ed ossa ad attenderlo, c’è un cavalletto (che sono i fogli bianchi del poeta) posto dinanzi al paesaggio etc.; non c’è più un poeta «onesto» che officia la liturgia di una poesia «onesta», di una poesia salvifica alla Luzi per intenderci; insomma, la poesia si è improvvisamente emancipata, è questa la sconvolgente scoperta del poeta di Pieve di Soligo. Per Zanzotto la poesia non può non assumere su di sé la struttura dell’artificio che domina nel mondo delle merci: la poesia è diventata una merce linguistica che vuole sottrarsi con tutte le forze alla propria condizione di merce, di vassallaggio alla funzione dell’«utile» e del consumo. La grande novità che l’opera zanzottiana mette in evidenza è che la forma-poesia è diventata una funzione del segno e che quest’ultimo indica un significante legato da un patto, da una convenzione, con l’altra faccia del segno che si chiama il significato. Il segno ha cessato di essere innocente, è diventato ambiguo, rivela il proprio carattere di artificio, indica una connotazione e non più il denotatum. Il segno, al pari di un feticcio linguistico, ammicca ad una assenza, ad una presenza che non c’è. La poesia zanzottiana, che ha fatto ricetto della lezione lacaniana del significante, scopre il carattere di feticcio del segno linguistico, e lo carica di sottigliezze metafisiche e di arguzie teologiche, lo rende libero; parimenti, libera gli oggetti dalla loro schiavitù al significato (come avveniva nella poesia della tradizione) per ancorarli alla aerea leggerezza del significante: libera il segno linguistico dalla schiavitù dell’utile e dell’uso pratico per conferire loro il mandato di una libera leggerezza. È la forma-poesia che è diventata libera. E con la conquistata libertà la poesia zanzottiana scopre anche la propria vulnerabilità: cessa di essere intelligibile alla tradizione, rispetto alla quale essa assume una parvenza di inafferrabilità e di inintelligibilità. Ciò significa che la poesia zanzottiana deve rinunciare alle garanzie che venivano dal suo inserimento in una tradizione, grazie alla quale la poesia si poneva come ponte e saldatura fra presente e passato, vecchio e nuovo, ma fa della propria autonegazione la sua legge di sopravvivenza, in linea di continuità con i poeti romantici, verso i quali già Hegel aveva parlato delle loro esperienze come di un «autoannientantesi nulla». Non a caso i poeti di cui ricorrono continui rimandi testuali e riferimenti impliciti ed espliciti sono Hölderlin e Leopardi. La poesia zanzottiana erige così una inespugnabile fortificazione proclamando l’autodissoluzione e la propria invulnerabilità e impenetrabilità rispetto al regno della prassi dell’utile e del pratico. È questo il prezzo che la poesia zanzottiana deve pagare alla modernità: la poesia si sottrae alla tirannia dell’economico e all’ideologia del progresso, non ha altro fine all’infuori del significante, non può essere soggetta né alla curiosità della critica turistica né a quella di matrice utilitaristica. Da un altro versante, invece, la resistenza al progresso renderà la poesia zanzottiana sempre più penetrabile alle esigenze della modernizzazione linguistica richiesta dallo sperimentalismo. È questo il nodo attorno al quale si imbriglierà la poesia zanzottiana a venire, l’essere la modernizzazione linguistica della forma-poesia un riflesso e un aspetto della modernizzazione del Moderno.

Con La Beltà la poesia zanzottiana attinge un altissimo grado di astrazione e di de-letteralizzazione, si ipersemantizza, si carica di segni che manovra con una stupefacente versatilità ed abilità. Lo sperimentalismo giunge così, d’un colpo, al vertice delle sue possibilità espressive. Il 1968 è una data spartiacque, e non solo per la poesia italiana ma per la società tutta: il boom economico è ormai una realtà, e con esso anche la poesia italiana inizia quel complesso percorso che la porterà a ragionare in termini di modernizzazione del linguaggio poetico e di rapporto con il Moderno.

L’intangibile e l’inafferrabile per la poesia di Zanzotto è il segno linguistico, il significante.

Che cos’è che si sottrae al regno del significante? L’immobilità della natura costituisce l’hypokeimenon, il sostrato immutabile che giace al di sotto della mutevolezza dei significanti, ciò che resta intangibile e inalterabile se non sottoposto allo sfruttamento intensivo della macchina del Moderno.

Con Il Galateo in Bosco (1978) la lingua di Zanzotto si è stabilizzata, la rivoluzione linguistica è già alle spalle, non sarà più possibile andare avanti per la via tracciata da La Beltà. Scrive il prefatore: «dal punto di vista dell’autore l’Ipersonetto è anche una fase di felice ripiegamento nel borbottio rassicurante del canone. Esso nasce da quella stessa pulsione liberatoria che genera l’esplosione comunicativa di Filò (1976): un bisogno di riposo dopo gli eccessi di agonismo linguistico della trascorsa stagione poetica».

Le opere che seguiranno: Fosfeni (1983), Idioma (1986) e, ancor più, Meteo (1996), segnano le tappe di un progressivo smottamento del soggetto che è costretto ad accusare il colpo dello scacco dell’utopia di una ecologia della natura e di una ecologia della mente. Lo sperimentalismo zanzottiano perde carburante mentre perde il soggetto che doveva guidare il processo della scrittura poetica; ma è la scrittura poetica che subisce un processo di mutismo indotto dalla violenza dello sfruttamento intensivo della natura. Il paesaggio è diventato una utopia. La minaccia al paesaggio si è mutata nel frattempo in autentico eccidio della natura, in una «devastazione». Con le parole del poeta di Pieve di Soligo: «uso la parola devastazione perché si ha una proliferazione-metastasi di sopravvivenze distorte, di sincronie e acronie velenose, di rovesciamenti di senso pur rimanendo identico il segno, ed è stato, per altro, proprio sul finire degli anni Ottanta che si è palesata la corruzione». Le composizioni assumono la forma di diari di eventi atmosferici senza soggetto, vedute aeree, impressionismo e pointillisme dove il soggetto è visto come se fosse situato all’esterno del quadro, un estraneo rispetto agli eventi della storia della natura (che tende a sottrarsi al soggetto, a non essere più percepibile se non in una forma adulterata). Le figure umane tendono a scomparire, adesso ci sono i morti che abitano una parte del paesaggio naturale, anzi, sono una funzione del paesaggio come in Sovrimpressioni (2001); nel libro successivo Conglomerati (2009) la terza persona e la forma impersonale prendono del tutto il sopravvento sulle residue vestigia del soggetto il quale non è più in grado di raccontare granché, non ha più il punto di vista da cui osservare:

il significante ha guidato l’utente

l’ha pilotato in begli scioglilingua

sciogli niente.

È la presa d’atto di un lunghissimo percorso iniziato sessant’anni prima che si è rivelato un vicolo cieco. È forse questo il momento più doloroso della parabola di Andrea Zanzotto, l’aver toccato con mano che la rivoluzione linguistica operata sul linguaggio poetico si è risolta, ha avuto (e ha) un senso soltanto all’interno del linguaggio poetico, quel linguaggio poetico che le nuove generazioni di fine Novecento tenteranno di mettere tra parentesi per poter ricominciare a narrare in versi.

A questo punto, noi lettori posti negli anni Dieci, non possiamo non chiederci: la parabola poetica di Zanzotto che significato lascia alle nuove generazioni che sono nate nel bel mezzo della rivoluzione telematica e nella susseguente epoca della stagnazione economica e stilistica? Qual è il suo messaggio? Quale testimone ci lascia?

Domande inquietanti alle quali soltanto il futuro potrà rispondere.

Giorgio Linguaglossa

38 comments

  1. Laura Canciani ha detto:

    come al solito l’articolo di Linguaglossa coglie il centro del problema della poesia di Zanzotto, qualificata come il momento più alto dello sperimentalismo databile, più o meno, alla data di pubblicazione de “La Beltà” (1968), dopo di che lo sperimentalismo (come concezione del mondo, griglia concettuale, orizzonte culturale) entra irrimeidabilmetne in crisi.
    Ma qui il problema è più ampio: la decadenza dello sperimentalismo apre, di fatto, le porte all’estuario delle “poetiche epigoniche” dice Linguaglossa in altri saggi, cioè al minimalismo romano-milanese, all’esistenzialismo milanese, al neometricismo e alle poetiche neo-classiche e neo-orfiche.
    Sta di fatto che questo vistosissimo “vuoto”, questo baratro è talmente grande e vistoso da essere invisibile, tutti continuano a scrivere piccole poesie decorative come se nulla fosse, tutti (con qualche eccezione però che Linguaglossa indica sempre con molto coraggio, anche correndo il rischio di sbagliare).
    Ecco, volevo dire che la poesia attuale è dentro questo “vuoto”, quello che Linguaglossa definisce con bella metafora “Stili da stagnazione”…
    Ecco, vorrei chiedere al critico: ci sono delle strade (in questa epoca epigonica) che possono condurre a Roma? o siamo irrimediabilmente condannati ad arenarci nella radura?

    Laura Canciani

  2. erm ha detto:

    Ma anche la radura, lo stagno, è un posto di poetiche: avete letto Seamus Henaey, le sue poesie sul “bog” , (stagno, palude), nella raccolta North, premio Nobel 1995?
    Se sapoeste le cose che Heany ci trova in quella palude (benjaminamente): ci trova “The Tollund Man”-.—“The Grauballe Man”!

    Suolo fangoso, acquitrino, stagno, palude…. soltanto “bog” che vuol dire, letto di soffici vocali, senza vento….

  3. erm ha detto:

    heaney, mi si perdoni la inversione (manuale)

  4. erm ha detto:

    Insomma, il vuoto ha il suo costo e il suo peso, il vicolo cielo, per quanto ottuso e frustrante, alla lunga, in mano ai poeti, e dinanzi ai critici, pure produce qualcosa: produce ad esempio analisi, riflessione, e bisogno di denuncia come in Linguglossa: sicché la poesia fa parlare i morti, fa camminare i paralitici, opera miracoli. Abbiate fede. La crisi sta alla poesia come il paralitico al Cristo, in rapporto di necessità.

  5. erm ha detto:

    NB: Zanzotto non parla un linguaggio poetico che ha interesse per me. Non ci vedo abbastanza satira partecipativa sul mondo: non vedo nessuno sfondamento sul reale, per venire incontro al reale, come invece operava il più poeticamente assurdamente sperimentale sul linguaggio Gadda.

    A me non piace nemmeno Pound, anzi, in tutta sincerità, lo trovo detestabile.

    Quando un poeta, o una poetessa, parla e riflette troppo, o unicamente, dal presupposto della forma, egli, o ella, non nasconde il suo spirito reazionario, e il suo malcelato disprezzo sul mondo e sulla società.

    Di questi poeti, a ben vedere, il mondo non poetico, dei non poeti, della gente che non mangia pane e poesia, può fare, semplicemente, a meno.

    Zanzotto, del resto, non è tutto: non mi dispererei….più di tanto. Ricevo da almeno dieci anni ad Oxford il volume di Flavio Ermini dove si riflette infinitamente (secondo me, a vuoto) su tali questioni metalinguistiche e metapoetiche. Non vedo dove si possa andare…

    Sono sicura che i poeti che non “vendono solo aromi spirituali”, – per citare una osservazione auto-derisoria di Fortini, che sentiva di dovere giustificare ai compagni il suo (relativo) formalismo – i poeti che devono anche pensare “a mettere in pentola la carne per il bollito” (sempre Fortini) sanno fare di meglio, nel loro quotidiano scrivere delle esperienze concrete del duro vivere, che sarà sempre insieme fatica e speranza-ispirazione, entrambe condizioni che portano fuori dal vicolo cieco del linguaggio poetico, che si autoriflette fino a ‘ground zero’. (mi scuso per eventuali typos.)

  6. Lorenzo Pezzato ha detto:

    La poesia di Zanzotto, per quello che rappresenta anche a livello simbolico l’autore, è un elastico la cui forza ha trainato il Novecento fin oltre la prima decade del nuovo millennio.
    Come l’ombra di un enorme monumento, l’aura zanzottiana oscura il molto, il quasi tutto della poesia contemporanea, ma la luce che emana -come quella di una stella- ci arriva da lontano. Un lontano che è un altro tempo, una luce che non può raccontarci se quella stella sia implosa da qualche migliaio di anni.
    E non dovremo aspettare il futuro per rispondere alla domanda: “che significato lascia la poetica di Zanzotto alle nuove generazioni che sono nate nel bel mezzo della rivoluzione telematica e nella susseguente epoca della stagnazione economica e stilistica? Qual’è il suo messaggio? Quale testimone ci lascia?”.
    Il significato si condensa nelle 1312 pagine dell’edizione Mondadori, ricordando che ” il significante / ha guidato l’utente / l’ha pilotato in begli scioglilingua / sciogli niente”.
    Il messaggio è che la sperimentazione in senso ampio non può essere espulsa dalla poesia, e che quindi questa è condannata a rinnovarsi perennemente. Ad ogni Moderno, infatti, ne segue un altro più Moderno.
    Ci lascia il testimone nelle mani, avendo saltato gli staffettisti intermedi e tagliato il traguardo in solitaria. Di lì è iniziata una nuova avventura, che non vuol dire affatto una prosecuzione, al contrario. Significa una riscoperta dei linguaggi della contemporaneità, l’inclusione di una realtà aumentata dalle tecnologie di comunicazione e infarcita di comunicazione, la riflessione su un mondo e una socialità che sono radicalmente trasfigurati negli ultimi quindici anni.
    A fianco della devastazione del paesaggio, questa modernità ha portato molto altro dunque. Altro che è ancora tutto da indagare e la cui velocità evolutiva arriva a togliere spazio a qualsiasi concetto di avanguardia che si trova ad essere superata quando ancora non ha emesso il primo vagito. Allora non rimane (ai poeti) che farsi fluidi, dinamici come la materia che manipolano, che surfare sulla cresta dell’onda dell’accadere captando ogni minima variazione ambientale e sociale, che tornare alla strada (anche telematica) e calarsi nel flusso dell’umanità in perpetuo movimento, spostamento low-cost, in fibra ottica o wi-fi.
    Non credo che Zanzotto sia finito in un vicolo, direi che ci sono finiti quelli che l’hanno seguito in una strada non loro, critici compresi. E la storiella che il poeta trevigiano colma il vuoto osceno della produzione poetica contemporanea ormai non si può più raccontare a nessuno, quantomeno con l’intento di convincerlo.

    Lorenzo Pezzato

  7. erm ha detto:

    bella analisi. ma non a caso zanzotto non ha vinto il nobel per la letteratura, nemmeno per il 2008. il premio nobel notoriamente lo vince chi aggiunge qualcosa al corso dell’umanità.

  8. erm ha detto:

    non basta, infatti, semplicemente aggiungere quel qualcosa di nuovo o di grande al ‘genere’, alla ‘disciplina’ in cui si eccelle.

  9. Giorgio Linguaglossa ha detto:

    … vi racconto un fatto: nel lontano 1993 ho fondato il quadrimestrale di letteratura “Poiesis”, del quale spedivo regolarmente una copia ad Andrea Zanzotto con l’invito a partecipare al dibattito che la rivista animava a quel tempo.
    Un giorno, siamo attorno al marzo 1996, ricevo dal poeta di Pieve di Soligo una cartolina con su scritto (vado a memoria): «gent.le Linguaglossa La ringrazio per l’invito da Lei rivoltomi a partecipare al dibattito sollevato dalla rivista ma le devo comunicare che non posso partecipare perché la linea presa dalla rivista non mi interessa».
    La risposta di Zanzotto è significativa del fatto che lui subordinava ogni sua collaborazione ad un ritorno immediato in termini di utilità alla sua poesia. Ineccepibile.
    Il mio parere personale è che questo comportamento, se fatto proprio dalla massa dei soggetti poetanti, se diventa (come oggi)un costume generalizzato, porta alla clausura di ciascuno nelle conventicole con gli epigoni e gli epigoni degli epigoni dove ciascuno tira l’acqua al proprio epigonico mulino.
    Alla lunga, è avvenuto in Italia che ciascun poeta parla soltanto con se stesso e con coloro che egli ritiene simili a sé; nessuno è ormai più interessato ad interloquire con intellettuali di diverso orientamento e formazione e generazione; se qualcuno lo fa (intendo interloquire con le generazioni più giovani), subordina ciò alla immediata propria visibilità e riconoscibilità e ad instaurare una sorta di «paternità» sugli affiliati.
    È senza dubbio un malcostume oggi diffusissimo, anzi, eretto, dai più, a regola aurea del comportamento «politico»: si vende al miglior offerente la propria visibilità per instaurare un di più di ascendente…
    Quando chiedo ad un autore perché ha scelto quel tal prefatore, la risposta è sempre la stessa: perché è un poeta (o un critico) che gode di una certa visibilità!
    Certo, di questo passo si chiedereà la prefazione al Presidente della Repubblica!…
    In fin dei conti, mi si dirà: non c’è nulla di nuovo all’orizzonte, è sempre stato così… io ritengo invece che i comportamenti siano figli dei tempi, e che ogni tempo abbia i comportamenti che si merita.
    Dimenticavo: possiamo far risalire la stagnazione delle idee e dei comportamenti all’inizio degli anni Sessanta, con la dissoluzione della società letteraria e dei rappresentanti dell’ultima generazione che pensava in proprio e si confrontava con gli altri intellettuali: ahimé, dove sono i Fortini, i Pasolini, i Ripellino, i Raboni?

  10. Ennio Abate ha detto:

    “La risposta di Zanzotto è significativa del fatto che lui subordinava ogni sua collaborazione ad un ritorno immediato in termini di utilità alla sua poesia. Ineccepibile.
    Il mio parere personale è che questo comportamento, se fatto proprio dalla massa dei soggetti poetanti, se diventa (come oggi)un costume generalizzato, porta alla clausura di ciascuno nelle conventicole con gli epigoni e gli epigoni degli epigoni dove ciascuno tira l’acqua al proprio epigonico mulino.”(Linguaglossa)

    E’ andata proprio così. Conosco poeti affermati che si lamentano di non essere stati presi in giusta considerazione da poeti più affermati di loro. E, a catena, poeti “invisibili” che si lamentano di non essere stati presi in considerazione da poeti meno affermati tra gli affermati.
    Questa è la “palus putredinis” in cui siamo immersi, cara Erminia. Che un occhio olimpico (o da Nobel) alla Heaney potrà anche scrutare benjaminianamente oer trovarci magare qualche fluer du mal, ma che puzza orribilmente di mortuario e chi è costretto a sguazzarci dentro farebbe bene ad abbandonare appena possibile. Mille volte meglio un eremitaggio (ai margini della palude ad es.)come quello del pur visibilissimo (ai suoi tempi) mastro Fortini.
    Non se ne può più di queste chiusure a riccio, che dalle microcorporazione universitarie sono state trasferite nelle microcorporazione da Web. Sono complementari alla attuale “palus”. E puzzano
    spesso di gigli invece che di crisantemi ( o un misto dei due).
    Ve lo dice uno che ha cercato in tutti i modi e anche di recente di fare il “contrabbandiere” e di far sentire la campana del villaggio X a quelli che sentono soltanto la campana del villaggio Y e viceversa ed è stato sistematicamente respinto come portatore di “gramigna”.
    Era così anche una volta, da sempre?
    Bello schifo, allora, la storia letteraria e non solo!

  11. erm ha detto:

    😉
    Heaney ha ricevuto il Nobel solo per la Questione Irlandese, di cui parlava per “mettere pace” tra protestantie cattolici…E sapeva di farlo. E sapeva bene cosa gli sarebbe stato tributato, per provarsi a farlo.

    La poesia è stata, nel suo caso, schiava della politica. Vi si è seduta a mensa….(come diceva Fortini nella poesia “Il poeta servo!”)

    Si dice che Heaney sia stato over-prized….(sovrastimato), e lo si dice anche di Dario Fo, appunto perché il Nobel non premia la poesia, o l’arte, o la scienza,…. in sé, ma un qualche livello apprezzabile di contributo alla storia (o alla salute) delle masse mute, dei subordinati, o dei perdenti.

    Il premio, comunque, è conferito da vincenti, che rendono dunque tale anche il premiato.

    Ahi, sistema putrido, come ben dice Emmio, che pare abbia raggiunto il rifiuto del sistema letterario, che sempre sopraggiunge ad una raggiunta maturità delle ambizioni, sistema decadente, mai rinnovabile, solo roteatile, del roboante pianetucolo.

    …..Io, personalmente, non mi lamento di niente rispetto a queste questioni e politiche poetiche, – e anzi mi piace stare, come sto, con i piedi a terra, fino a quando mi è dato… di starci, sul pianeta Terra.

  12. Giorgio Linguaglossa ha detto:

    (…) sia chiaro che io non voglio dare a nessuno lezione sui comportamenti da tenere, o che ha tenuto in passato. Tantomeno a Zanzotto. Ho raccontato un episodio, tutto qua.
    Forse si dovrebbe tornare a fare «storia» a partire dai piccoli episodi…
    Ma anche i comportamenti sono significativi, no? e se gettiamo uno sguardo ai comportamenti di un’epoca possiamo vedere più in profondità nel livello qualitativo delle persone (…) mi si dirà: ma un poeta può anche essere di basso livello qualitativo a livello personale, come Villon, ed essere anche grande poeta! Sì, è vero, ma Villon è l’eccezione che conferma la regola, mentre la regola è che molto spesso il basso livello qualitativo-personale inficia anche la propria produzione poetica. E, dispiace dirlo, Zanzotto non fa eccezione a questa regola aurea…
    Anzi, oggi le cose sono davvero precipitate in basso, così in basso che di più non si può…
    Il fatto è che a comandare le fila dei poeti delle istituzioni poi ci sono personaggi privi di statura intellettuale-morale… con tutto ciò che ne consegue…

  13. erm ha detto:

    lo stesso dicasi del governo.

  14. erm ha detto:

    Per contrasto, desumo da quello che dice Giorgio: “La marginalità, rispetto ai centri del potere, così come li abbiamo descritti, è potenzialmente una condizione elettiva – ma non tutti la vogliono e solo pochi la capiscono.”

  15. erm ha detto:

    Giorgio, adesso che sono a Oxford, potresti mandarmi il tuo volume, in modo che io ne faccia quello che sai ne farò? 🙂 Hai il mio indirizzo?

  16. Lorenzo Pezzato ha detto:

    Tempo fa, proprio riflettendo su Zanzotto ho appuntato:

    *Poeti contemporanei*

    Otto Zanz
    Meridiani
    Arnolodo Mondadori
    poesie
    e prose
    scelte.

    L’inversione del nome a simbolo dell’inversione di tendenza…

  17. Antonio Spagnuolo ha detto:

    Il pantano nel quale è caduta la poesia dei nostri giorni è causato proprio dal rilucere (?) di quelle monadi, che, raggiunto un potere per lo più editoriale , credono di essere gli unici detentori della “verità”. Non hanno alcun desiderio di offrire spazi, proprio similmente a quei primari/docenti che mantengono il segreto sulle loro capacità di interventi. La risposta che Zanzotto diede all’amico Linguaglossa è caratteristica e “significativa del fatto che lui subordinava ogni sua collaborazione ad un ritorno immediato in termini di utilità alla sua poesia”. E’ per questo che io , che non sono un Zanzotto , né mi ritengo un vate, non ho mai inviato al “maestro” una mia poesia, ritenendo inutile un tale gesto, anche se convinto che io per lui in effetti “non esisto”!
    La più bella prefazione l’ho ricevuta dal caro ed indimenticabile Mario Pomilio per il mio volume “Candida” del 1985, e non perché Pomilio fosse a quel tempo tra gli “affermati”, bensì perché egli era un uomo estremamente buono, docile, corretto, interessato e contemporaneamente convinto della mia poesia. Oggi , io che non sono un Zanzotto e non mi ritengo un vate, superate le varie sperimentazioni linguistiche e metafisiche, a differenza di molte altre “meteore”, offro gli spazi disponibili ai giovani poeti che tentano di diventare “visibili”, con le mie modestissime “rubriche” e con il Blog ( http://poetrydream.splinder.com ) visitato quotidianamente da centinaia di utenti. Il premio Nobel non appartiene agli attuali “poeti” sino a quando la gelosia, l’invidia , la corrosione saranno pabulum della loro ingenua e povera immaginazione creativa. Antonio Spagnuolo

  18. erm ha detto:

    Non dovrebbe essere difficile supporre il quadro di condizionamenti, equivoci, promozioni che decide della fama o meno di un dato autore in campo editoriale e dunque presso il pubblico a livello nazionale, ed internazionale, con tutta la rete promozionale che l°edificio delle varie sigle editoriali e dei loro annessi ambiti pubblicitari impone.

    Ogni impegnato critico, che viva pienamente , dal suo interno, la questione, ha volontà e mezzi per descrivere i codici e i sistemi che accompagnano, sul piano storico, economico e culturale, la fortuna letteraria di un dato autore,o gruppo o movimento.Per inciso: la rivoluzione elettronica sta fortunatamente sabotando questo sistema.

    Ovvero, il critico, come Giorgio, conosce la influenza mediatrice che appartiene alla casa editrice e all’editore $$$$, e sa affrontare e diffondere con cognizione di causa, senza rosicamenti, una sua analisi delle condizioni concrete della letteratura colpa nei processi di produzione e di mercato.

  19. erm ha detto:

    -come qualsiasi altro server, online, gratuito, splinder offre spazi autonomi non mediati per chi voglia pubblicarsi poesia, e di blog collettivi di poesia ce ne sono fin troppi, se si pensano ai vari esistenti in rete, qui in italia, che non cito, le cui ragioni fondatrici non mi sono sempre troppo chiare…e che mi fanno pensare a micro centri di potere gestionale della micro poesia. A quel punto, meglio il proprio blog, inserito in un network di siti e blog poetici, che la illusione di acquisire visibilità grazie a un qualche micro santo.

  20. Adam Vaccaro ha detto:

    Ringrazio tutti coloro che sono intervenuti con commenti approfonditi e vivaci, che sempre le analisi di Linguaglossa suscitano. Mi auguro che da questi incontri virtuali e da queste occasioni di aperture che ho inteso e intendo favorire, possano scaturire passi concreti e momenti di uscita dai limiti del pantano culturale dello “sciogli niente”, che molti avvertono e denunciano.

  21. Ennio Abate ha detto:

    Sperando che i ringraziamenti di Adam non significhino chiusura dei commenti, ne aggiungo un altro.
    Non illudiamoci che, creando ciascuno il proprio blog o sito, i problemi siano risolti e si superi così l'”invisibilità”. Non è detto, infatti, che la poesia pubblicata nei blog sia davvero più significativa di quella che in diversi aspramente criticano.
    E anche queste secessioni nel Web rischiano di essere come quelle dell’Aventino: lasciano il potere a chi l’ha e la soddisfazione pseudomorale a chi non ce l’ha.
    O i vari blog e siti “alternativi” alla Mondadori e ai suoi almanacchi raggiungono il valore che ebbero le opere degli impressionisti esposte al Salon des refusés o finiremo pateticamente come quelli che ad un certo punto si vanno a rifugiare in campagna ( et in Arcadia ego…!) perché nelle città metropolitane non l’hanno spuntata; e là periferici e apparentemente contenti, tra amici o in osteria, si mettono a sputare veleno contro i vari Zanzotto, Cucchi & C.
    Bisogna che la esopiana volpe, se dopo vari salti, davvero si è convinta che l’uva sia acerba, trovi qualcosa di maturo e lo dimostri davanti al mondo intero. Questo per dire: meno lamentele, insomma, e più critica approfondita e seria se non vogliamo restare nella palude epigonica di cui parla a ragione Linguaglossa.

  22. erm ha detto:

    Diventa difficile seguire un thread discorsivo. C’è una argomento e lo si approfondisce. Il concetto a me pare semplice: non tutto quello che è avvallato dall’industria, ci piace, individualmente, un poco per la ragione che da critici si è diventati incredibilmente scettici e smaliziati, e un poco per l’altra, che, da poeti, si è diventati massimamente paralizzati e depressi.

    E tuttavia siamo autorizzati ad esprimere perplessità e critica anche su nomi come Zanzotto, appunto per potere passare, come si dice, oltre.

    Ma per passare oltre non basta la intenzione, ci vuole che un poeta degno di consenso unanime, o un gruppo di poeti, o una poetica, o un movimento, al di là dei circoli e della industria, acquisti/no credito ed effonda/no verbale formale concettuale ideologico etc etc carisma, vuoi per progetto vuoi in modo autentico: non so se avete mai ascoltato Anne Sexton su Youtube, o Sylvia Plath: erano poetesse-dive riconosciute come tali, il mercato le andava a cercare con il lanternino, ne aveva un bisogno estremo… ma al di là del mercato che le promuoveva, avevano una intenzionalità spaventosamente potente. Tutto questo oggi è se non impossibile, meno possibile. Ma stiamo elaborando sull’ovvio , sui modi in cui una comunità, di lettori, o di specialisti, o di esecutori materiali, riconosce e promuove una poesia, un poeta, un movimento….Non è che ci si possa sedere ed elaborare a tavolino una formula per pervenire a una nuova idea sulle nuove strade che portano la poesia di tale x o y alla fortuna letteraria. La comunità interpretativa (Fish) dei poeti è composta in massima parte (in Italia, certamente) da poeti: è qui mi fermo siccome siamo al solito punto come un gatto che si morde la coda.

    Il fatto è che la poesia dinanzi al cinema scompare, e il cinema è ormai pure esso in crisi. Come può la poesia, che scompare dinanzi al cinema, ad un cinema in crisi, proporre qualcosa che sfondi, al di là di questo? Il cinema propone una poesia globale. La video poesia cerca di stare ad esso dietro.

    Fish ci ha fatto capire che il testo in sé non esiste come entità astratta, entità di qualità in sé auto-compiute, auto-dermintate: il suo stesso valore non è comprovabile, fuori dalla comunità interpretativa.

    Ora, laddove la comunità degli editori, come qui si dice, è pronta ad attribuirsi il ruolo di tributare dati meriti, e di conferire date glorie pur di circostanziare una strategia commerciale ed editoriale, ne consegue che il suo giudizio, per la comunità degli esperti (il poeta-critico, il critico-accademico, il critico-lettore di poesia, etc) non ha un valore assoluto.

    Il relativismo e soggettivismo di Fish mostra come ogni comunità di interpreti giudica dal suo punto di vista con un livello di gratuità il testo, ed è dunque solo relativamente attendibile.

  23. erm ha detto:

    Insomma, quello che ho riassunto fu detto in modo mirabile da Giancarlo Ferretti, nel volume La fortuna letteraria (Transeuropa, 1988), che vi consiglio di leggere, in quanto tratta, e dunque anticipa magistralmemnte, esattamente i temi che tanto sembrano oggi arrovellare il presente.

  24. Laura Canciani ha detto:

    … non credo che la critica di Giorgio Linguaglossa possa essere etichettata come “alternativa” a quella prevalente negli Almanacchi, nelle Antologie e negli Annuari; quella del critico romano è critica e basta. Spesso, a fronte di un testo di critica c’è una marea di “simil-critica” (tanto per usare la terminologia di Linguaglossa)… cioè la critica compiacente delle schedine di recensione dei libri, così penose e genericizzanti da renderle spesso ridicole e sabbiose… e che siano piene di questo tipo di pseudo-scrittura critica sia gli Almanacchi mondadoriani che gli Annuari di editori periferici (quelli di Giorgio Manacorda, di Mauro Ferrari, le riviste che parlano della poesia come di un frutto angelicato…), non cambia le carte in tavola. Quello di cui c’è bisogno oggi in Italia (e non soltanto in poesia) è che ciascun critico si assuma le proprie responsabilità, e che gli autori abbiano il coraggio di uscire dalla anonimità (perché la sterminata massa di poetanti non ha il coraggio di far sentire la propria voce?)…
    Il fatto grave è quello che Linguaglossa mi ha confidato: che molti siti “oscurano” gli interventi di Giorgio Linguaglossa perché non ritenuti in linea… ma in linea di che cosa? È davvero incredibile che questi modesti letterati che “censurano” le tesi di un critico al di sopra delle parti e delle piccole confraternite come Linguaglossa adottino gli stessi mezzi dei regimi dittatoriali e/o mafiosi: A CENSURA PROFILATTICA ATTRAVERSO IL SILENZIO!!! – si badi: non attraverso un libero scambio e confronto di tesi ma attraverso il silenziatore del silenzio…
    Mi chiedo se a questo punto si doveva arrivare in questo disgraziato paese.
    E mi chiedo quale danno possa derivare alla «poesia» dal libero pensiero di un critico come Linguaglossa?
    E inoltre, sarebbe bene che gli autori dei commenti firmassero con il loro nome e cognome, soprattutto ai fini della riconoscibilità delle rispettive tesi. Grazie

  25. Adam Vaccaro ha detto:

    Per Ennio e tutti: i miei ringraziamenti non volevano affatto intendere una chiusura finale dell’interessante dibattito in corso, ma solo di apprezzamento dei contributi finora dati. Il dibattito è pertanto sempre aperto e, del resto, vedo che continua!
    Adam

  26. erm ha detto:

    la censura è una pratica italiana particolarmente resistente, anche grazie alla presenza della Chiesa Cattolica, che l’ha corroborata e sostanziata: non mi meraviglio che Linguaglossa sia etichettato e censurato e oscurato, nella Italia nostra, vecchia e “nova”, dove le generalità anagrafiche sono non solo richieste, ma imposte, e la privacy continuamente abusata, per inchiodate la gente al loro nome e, soprattutto, alle loro tesi.

  27. erm ha detto:

    la mia risposta è, dunque: “no, thanks.”

  28. erm ha detto:

    Se si accetta il mondo letterario, qual è, invece di esservi incoerentemente dentro, o ostinatamente fuori/contro, non ci si meraviglierà delle sue bassezze: alcuni poeti non vi si oppongono, e nemmeno vi entrano particolarmente in contatto, ma lo sfiorano e lo conoscono, come il Martin Pescatore conosce la superficie, e le profondità dell’acqua.

    Sicché essi non attribuiscono utopicamente una elettività al mondo delle lettere, il quale riflette tutte le piccolezze e le altezze dell’animo umano: il poeta che vi ci si scontra continuamente è un don chisciotte, ma allo stesso tempo un Amleto, un eroe tragico.

    Io non ho nulla in contrario né verso il primo né verso il secondo tipo di poeta, maschio e femmina che egli o ella sia.

  29. Ennio Abate ha detto:

    @ Erminia

    Per liberarsi delle “piccolezze” dell’ex-mondo delle lettere (le “patrie lettere” sono defunte da tempo) non mi pare giusto proporre che si diventi dei don Chisciotte o degli Amleto.
    Nessuno dei due mi pare un buon modello. E del resto, tra i tanti poetanti odierni (o “moltinpoesia”), figure donchisciottesche in lotta contro i mulini a vento o amletiche (dilaniate, però,non tragicamente ma spesso comicamente, tra gregarismo e narcisismo) già abbondano.
    La butto qua in fretta e senza argomentare: ci vorrebbero dei “poeti esodanti” (dalla Poesia o dalla post-poesia) che, solitari o in piccoli gruppi,tornino davvero a INTERROGARSI CRITICAMENTE
    su Tutto. E per iniziare, leggano davvero dei libri di CRITICA (quello di Linguaglossa ad esempio) e dicano che cosa ne pensano, senza limitarsi a un elogio di prammatica.

  30. erm ha detto:

    ciao ennio, io non intendevo proporre in nessun modo a modello i don chisciotte o gli amleto: avevo fatto un esempio di tipologia….personalmente, sono per la poesia “on the road”.

  31. erm ha detto:

    o per la poesia “on the water”….la poesia del Martin Pescatore….

  32. erm ha detto:

    tu (poeta)hai qual cosa (di poetico) da dire? si? allora, dilla, e poi passa appresso, passa al tuo lavoro, ai tuoi amici, alla tua vita, ai tuoi viaggi, passa e muta: tu (poeta) non tradurre tutto in istituzione letteraria.

  33. erm ha detto:

    Ennio, siccome tu dici : ” non mi sembra giusto proporre il modello del don chisciotte o dell’amleto”, faccio un paste & copy di quello che ho detto, per invitarti a rileggere e a capire che la mia intenzione non era affatto proporre quel modello, ma anzi esattamente il suo opposto, ed ecco quello che ho scritto al punto paragrafo 2.:

    1. “Se si accetta il mondo letterario, qual è, invece di esservi incoerentemente dentro, o ostinatamente fuori/contro, non ci si meraviglierà delle sue bassezze: alcuni poeti non vi si oppongono, e nemmeno vi entrano particolarmente in contatto, ma lo sfiorano e lo conoscono, come il Martin Pescatore conosce la superficie, e le profondità dell’acqua.

    2. Sicché essi non attribuiscono utopicamente una elettività al mondo delle lettere, il quale riflette tutte le piccolezze e le altezze dell’animo umano: il poeta che vi ci si scontra continuamente è un don chisciotte, ma allo stesso tempo un Amleto, un eroe tragico.

    3. Io non ho nulla in contrario né verso il primo né verso il secondo tipo di poeta, maschio e femmina che egli o ella sia.”

  34. Ennio Abate ha detto:

    @ Erminia
    Ho preso semplicemente spunto dal tuo intervento per allargare il discorso e portarlo (possibilmente) sui punti che m’interessano (=che ritengo fondamentali per chi ha voglia di pensare fuori da vecchi schemi)…

  35. erma ha detto:

    Grazie ennio. Oggi siamo ad un punto da considerare, per cause di forza maggiore, che l’autonomia della letteratura sia anche autonomia del poeta e del critico dai circoli del potere editoriale….bisogna, si dice, credere in questi canali collaterali, non ufficiali, “alternativi” (ma alternativi al potere delle grandi sigle editoriali soltanto).

    Vi sono in giuro nuove traduzioni deludenti, e lo dico con cognizione di causa sia come traduttrice sia come autrice, di grandi autori stranieri, pubblicate da Mondadori o da Einaudi, che avrebbe eseguito meglio, con più coscienza e cura, studenti universitari, traduzioni abbastanza mediocri, che non riflettono affatto né lo stile poetico, e nemmeno il contenuto di pensiero, di pregevoli autori dell’aria anglofona, libri che potrebbero esser mandati – secondo me – tranquillamente al macero dopo un paio di anni, e che vengono invece venduti e acquistati dai lettori in modo abbastanza incontrastato per anni ed anni, portando milioni di capitale alle aziende citate soprattutto a Natale, quando il pubblico si impigrisce e fa la spesa col carrello invece che con la mente.

    Impossibile sarebbe pubblicare con editori minori versioni diverse, magari migliori, di questi autori stranieri, traduzioni che sfidino quelle già in circolazione, in quanto i diritti acquistati dalle grandi case editrici su un dato autore non si limitano solo al libro, ma all’intera sua opera: dunque questi autori sono letteralmente sequestrati per poche centinaia di euro che, nella lotta dell’accaparramento di nomi e titoli, Mondadori o Einaudi riescono sempre ad assicurarsi, avendo la meglio su altri editori minori, case piccole che quasi mai riescono a vincere la gara di appalto, appunto in virtù di non sempre chiare ed eque politiche di potere editoriale.

    Nel decidere a chi concedere i diritti sull’opera di Heaney, Faber, intendo, privilegerà sempre Mondadori rispetto ad un editore minore, per questioni legale esclusivamente al capitale. E il traduttore/la traduttrice legato/a a Mondadori avrà sempre la meglio su altri traduttori meno ammanigliati, essendo appunto amico di questo e quello, connesso a questo o quel partito, e non per sue accertate qualità.

    Per tirare in ballo Fortini come traduttore e poeta, o Giudici, o Pavese, che con coscienza e talento erano mediatori di poetiche straniere a diritto e anche interni alle grandi case editrici: cosa è successo oggi?…. è successo che mondadori, einaudi, etc etc non impiegano più questo tipo di scomodo difficile esigente rigoroso intellettuale, ma si accontentano di molto meno e di prodotti eseguiti moto più in fretta e arruffatamente per potere battere i rivali sul mercato, essendo il solo obiettivo accaparrarsi i diritti esteri su un dato autore e sequestralo in traduzioni scorrette, deludenti.

    E se ne vedono le conseguenze culturali, oltre a quelle pratiche, di cui ho abbozzato male e in fretta qualche esempio.

    A Natale, circoli o meno questo genere di critica e di riflessione, per il lettore che acquista il prodotto, sarà sempre e soltanto un problema di carrello da riempire e di catena libraria a cui affidarsi.

    Ora, se per un poeta, o un poeta-traduttore, la poesia, quale campo di attività artistica, è, come riteneva Croce, una attività che attiene all’universo guardato “sub specie intuitionis”, spiritualità di questa strana prassi, ovvero intuizione- sentimento, può stare bell’e’fresco.

    Dopo questo breve atto comunicativo mattutino, che intendo positivo e costruttivo, chiudo e mi porto con il pensiero alle Hawaii per almeno una settimana. Forse tornerò, firmandomi Pili Lani[pee lee lah nee], o Na`auao
    [nah au (w)ao’].

  36. enomis ha detto:

    ho letto con piacere e dispiacere tutta questa discussione.
    il piacere è già nel fatto che la discussione vi sia; il dispiacere consiste nel riscontrare sempre il solito atteggiamento all’italiana: all’italiana ovviamente rispetto ad altre realtà.
    perché affermare che la situazione della poesia in Italia è disastrosa? perché semplicemente non tentare di far fuoriuscire tante realtà, come si tenta di fare in tanti altri paesi? e come effettivamente il nostro critico propone?
    Una cosa è parlare della stagnazione, come fa il nostro caro, il quale seppur con un linguaggio tendente al catastrofismo, certamente non è un linguaggio disperato, anzi, tutt’al più originale; e che in fondo non lascia trasparire che questa voglia di nuovo che mi sembra ci si porti appresso da troppo tempo. strano no? tutto corre e pure tutto sembra così immobile ….
    Per il resto mi sembra che la situazione sia quella di sempre; e cioè che un genio c’è una volta ogni morte di papa (e visto l’allungamento farmacologico della vita …) … e che intanto una miriade di letterati scrivono (ripeto: come sempre). E qui mi ripeto (ancora): perché lagnarsi di questa situazione? l’eredità ideologica del novecento non è in sostanza “di più sempre di più”?
    ecco, basta solo volere del bene a questa moltitudine e … saperla sfruttare (eh eh eh eh)

  37. enomis ha detto:

    P.S.
    A proposito di Zanzotto, ed in particolare dello Zanzotto di La beltà, mi sembra che il tratto più importante sul quale tornare è che in quel libro c’è di tutto tranne che beltà …

  38. leopoldo attolico ha detto:

    Ben venga l’epoca ( in atto ) della stagnazione , indagata come si deve da Linguaglossa .
    Assimilabile al borbottio di una pentola di spaghetti ormai stracotti , la dislessica melassa può però essere blandita dal ragù che non esorcizza / risarcisce / risolve ma oppone l’invenzione verbale sulla scrittura come superstite segnale dell’intelligenza al servizio della produzione di senso : ” Ero in drammatico ritardo / e per rimediare presi una scorciatoia / un breviario come dicono i preti “, chiosava un Autore scomparso nel 2009 e che molti ricorderanno .
    Si può fare il contropelo alla stagnazione e all’implosione delle sue dinamiche di epigonismo autoreferenzialità sterile e cultura del dolore ( e dintorni ) tenendo presente l’assunto di Nietzsche secondo cui ” E’ falsa ogni verità che non è accompagnata da una risata ” ; quindi partecipazione e distacco dalle cose , dal triste evento che è pure il ridere ( o il sorridere ) quando è suscitato dalla frizione tra contrari , dai tic , dai lapsus , dagli inciampi ( anche lessicali ) che spezzano gli equilibri consolidati e azzerano felicemente le regole del gioco , qualunque esse siano e in qualunque contesto si verifichino ; uno sguardo che specula sull’inverosimile perché genera situazioni di incredulità a cui la parola della poesia contrappone prontamente le certezze infantili della sua saggezza , la reiterata discrasia tra due mondi differenti o comunque lo scontro irreversibilmente comico tra diverse concezioni della vita : ricetta ( non palliativo ) per tutte le stagioni , con buona pace di quanti , anche in perfetta buona fede , perseverano nella declinazione del “llanto ” e della sua pittoresca luttuosità ( che a quanto pare paga e paga bene ) .

    – Con un doveroso apprezzamento per Zanzotto , poeta di alti e bassi ; con gli alti ( cospicui ) probabilmente in minoranza .

    leopoldo attolico

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