Alfredo Panetta, Ponti sdarrupatu – Il crollo del ponte
Passigli Poesia, Firenze, 2021
***
La poesia e l’imperativo categorico
Adam Vaccaro
I libri di poesia sono fonti di mille domande esplose da una tensione che da un particolare punto di partenza muove verso un viaggio periglioso nella irraggiungibile complessità e totalità del mondo interiore ed esteriore del Soggetto Scrivente. Ma i migliori libri di poesia – Dante docet – non possono rinunciare a dare risposte e a esprimere giudizi, ovviamente entro le forme che la caratterizzano.
Di tale poesia Alfredo Panetta ci offre da anni con i suoi libri questa tensione che non si accontenta di articolare sapienti ritmi e suoni di una musica che pretenda di bastare a se stessa, ma fa di essa veste che richiama immagini del mondo. Più che metafore di questo, suoi simboli. Il che è possibile se il particolare scelto come punto di partenza, è occhio del ciclone autopoietico che coinvolge i vari livelli della propria identità. In tale vortice nulla può essere secondario, ma tutto è centrale e necessario al poièin, in quel fare del progetto ignoto della caldera vulcanica da cui scaturisce la forma poetica. Caldera che in cicli biologici riposa ed esplode nelle dinamiche tra le fondanti parti costitutive del Sé: l’Es, o rimosso fascinato più da ritmi e musica, L’Io, artefice e ordinatore della lingua algoritmica, il Superìo, signore di radice etica, implicante sensi di comunità, di telos, di futuro e progettualità storico-collettiva, senza i quali il soggetto perde la sua radice e si riduce a atomo dell’universo liquido, dominato da mozioni mercantili dei poteri in atto. Senza questo livello l’azione – non solo quella che crea forme di poesia – rimane nell’occhio e nel vortice chiusi nel particolare, del singolo e del presente.
La poesia più alta è dunque per me quella che crea forme di adiacenza e compresenza tra i vari livelli della soggettività, facendone fonti diverse del proprio caleidoscopio, che si irraggia e ci restituisce virtude e canoscenza dell’immensità fatta di ignominie e rose generose, di orrori e di amore. Su tale complesso tessuto di lingue, l’imperativo etico è tuttavia il timone senza il quale la poesia, e ogni altro gesto, diventano vascelli abbandonati alle onde del contesto, incapaci di ogni resistenza e autonomia di azione.
L’espressione poetica di Alfredo Panetta si muove sul crinale di tale ricerca, di cui questo suo ultimo libro ne è esemplare risultato, lungo un percorso sempre più maturo che parte da memorie e sguardi, innervati nella propria terra e lingua d’origine, quel calabrese di cui l’Autore ha saputo fare colonna sonora del viaggio nello spazio e nel tempo tra le speranze e i frantumi d’Italia. La maturità del libro sta, in tutta evidenza, nell’utilizzo della lingua d’origine, non per restituire suoni, umori e grumi irrisolti solo dell’alveo in cui è nata, ma con l’implicito senso che ogni lingua particolare è lingua del mondo, se chi la utilizza sa farne medium capace di “mettere in comune” (richiamando A. Porta) esperienze e mondi anche lontanissimi da quella radice di suoni e strutture lessicali.
È la potenza della vera poesia, che spiega il mistero della condivisione e traduzione di opere poetiche classiche e moderne. Testi tradotti in tutte le lingue e i mondi del Mondo, dove hanno trovato cuori e menti che li hanno accolti quali alimenti e immagini di sé, perché voci di caratteri umani comuni, a partire dalla ricchezza delle diversità che ci costituiscono.
Era una scommessa non facile, quella di Alfredo, far travalicare i confini della Calabria dalla sua lingua, apparentemente lontana dalla tragedia quale quella del ponte Morandi crollato a Genova. Tradurre e far sentire in tutt’altre fonologie il carico di disperazione, rabbia, dolore e solitudine sofferto dalle vittime. La scommessa poteva essere vinta solo da una, più che condivisione, immersione profonda nella loro vicenda, riuscendo a esserci (Seamus Heaney), con tutti e tre quei livelli soggettivi sopra ricordati, intessendo con la propria lingua le lingue altre ad essi ricondotti – ricostruendo un ponte di musicalità, disegno ed evocazioni di immagini, insieme a un giudizio etico, senza il quale si scade in forme di pietismo retorico e lamentoso, insopportabile come i crimini responsabili di quel dolore e i discorsi commemorativi d’occasione.
Senza un imperativo categorico totalizzante la scommessa sarebbe stata persa, ed è questo il pregio fondante della operazione creativa di Panetta, che a prima vista potrebbe essere presa per strumentale occasione. Ma basta leggere solo alcuni testi per essere travolti dall’onda sonora, emotiva e dall’indignazione etica, che non è riducibile a una declinazione civile – delimitante se la poesia è intesa come mondo a parte – ma come necessaria assunzione di responsabilità, appunto, di esserci, estranea a troppi testi di poesia contemporanea.
Bastano i primi versi a significarlo: “Credo nelle parole/ non come fuoco sacro/ ma come piante spoglie/ che, inerpicate a rupi/ da quel terreno povero/ Traggono nutrimento”. Ritmi settenari che battono da un cuore ché lì e ci porta lì; “Accadde a Ferragosto/ a Genova in un lampo/ che il fiato cerchi aiuto/ la carne attizzi il fuoco/ il fuoco invochi il tempo/ che come un buco nero ingoia ossa e menti” (p.15, e citerò solo le traduzioni letterali in italiano, che non riduce la forza degli acri suoni calabresi, invitando a succhiarli direttamente)
Sentite, come da subito viene coinvolta la totalità, ossa e menti, corpo e anima, superando con l’aire ogni doppio di platonismus perennis. E anche noi, così immersi in un mare di parole che costruiscono solo distrazioni e perdita di senso, siamo chiamati a una presenza militante. Non possiamo essere altrove, se le parole si radicano in terreno povero, degradato, inventando e strappando un nutrimento che pare impossibile e non contemplabile nello stato delle cose. La ricerca è di una parola materiale e lirica (Leopardi) che trasmetta volo di rinascita di una fenice non arresa: “non ha eguali in freschezza/ne desiderio di volo.// E liberare, per primo principio/…/ le radici della terra marcia/ dare nomi precisi alle cose/ linfa nobile ai luoghi/./ A partire da Messina 1908/ al Polesine al Vajont al Belice/ fino a l’Aquila, Amatrice/ passando per l’Irpinia e il Friuli/ / Evitare il crollo, la caduta/ in un cielo primitivo, senza/ azzurro. Sono troppi i sassi/ necessari a riempire la voragine.” (p.79)
“Servono/ occhi affilati per nuovi sentieri”, se “Se ne va una quercia”, “una persona amata”, e “marciscono le rose”, “però non smette di parlarci/ in una lingua tutta sua./ potremmo trovare la sua voce/ nello scroscio del fiume/ nella calma di una foglia/ o in un amore andato a male.” (p.131) per trovare questi nuovi sentieri, occorre non perdere quel “primo principio, senza il quale siamo e rimaniamo solo belati passivi.”
Il testo inanella nomi e squarci che ne fanno – come sottolinea la bella prefazione di Giovanni Tesio, “un laicissimo oratorio”, che cita nomi noti e meno noti, “In questo spazio tondo/ in cui niente s’eleva/ né sprofonda” (p.155) disperazione e speranza si intrecciano e muovono come abbracciati, in una risultante che è di sguardo impietoso e lucido, che scorre come su un surf su onde fenomenologiche e mai quindi concluse. È questa la fonte di speranza, nulla è perduto se tutto continua: “Niente si ferma per sempre/…/ lo spiegano i Socrati/ o Dio in persona/ loro sanno le parole precise/ il sentiero nei boschi/ il nido nel cespuglio/ l’ago e la bussola.” Ma qui la splendida chiusa, che sa di sapienza ed esperienza contadina, paradigma tutt’altro che superato di fronte alle yubris e alle intelligenze cretine comandate dalle Alexa e altre dattilotecnologie; “Io mi consolo/ col profumo eterno del letame.” (pp.171-173)
L’attesa e la ricerca di un sentiero, di un volo di rinascita, restano ardui, se “Dal Sud magno-greco al ponente/ ligure, ci siamo ammassati/ come sardine in scatola/…/ “E adesso siamo costretti ad alzarci/ claudicanti dai calcinacci/ del ponte, tra tondini arrugginiti/ e un rivolo d’acqua desolato/…un Futuro/ lasciato in disparte/ come un lontano parente/ mezzo handicappato.” (pp.179-181). Ma è un testo, l’ultimo, che si offre come un tronco di quercia di quelle edere rampicanti di gridi di un imperativo che non si arrende: il titolo è infatti “SVEGLIA!”, e inizia con parole che sono un colpo al nostro e a ogni cuore, se batte ancora vivo: “Qui, se non spalanchiamo gli occhi/ crolliamo come i medici nazisti/ nell’orribile pantano della legalità”.
4-6 gennaio 2022
Adam Vaccaro
Alfredo Panetta mi ha sempre colpita per la rappresentazione dura se non spietata del presente. Il suo dialetto ha una forza prorompente, è la lingua del popolo e svela i sentimenti e la rabbia del popolo, se ne fa portavoce. Spero di leggere presto il libro
per gustare la musica di quella vita pulsante, vicino alla terra, cuore della terra.
Grazie ad Adam per aver ben illustrato, da par suo, l’energia dei versi di Alfredo.