Trivelle bugie e futuro

Pubblicato il 30 marzo 2016 su Saggi Società da Adam Vaccaro

Trivelle. Gianfranco Ganau, Pd, presidente del consiglio regionale sardo fra i promotori della consultazione: «Va definita una politica energetica nazionale che sposti risorse sulle rinnovabili. Grave errore dire ai cittadini che non bisogna andare a votare»

Da Pagine online del 30 marzo 2016

«Il 17 aprile un sì per rispettare gli accordi di Parigi»

intervista di Costantino Cossu sul Manifesto  di mercoledi 30 marzo 2016

In Sardegna la campagna per il sì al voto del 17 aprile vede in prima linea il consiglio regionale, che il 23 settembre scorso ha approvato due mozioni e gli ordini del giorno con i quali è stata attivata la procedura per rendere possibile il referendum. «Chiediamo – dice il presidente del consiglio Gianfranco Ganau – di ripristinare le date di scadenza delle concessioni, ma vogliamo che sia chiaro che c’è un significato politico più ampio». Ganau, Pd, è tra i primi promotori della raccolta di firme per la consultazione popolare, e anche da sindaco di Sassari ha sempre tenuto una posizione di tutela delle coste dell’isola messe a rischio dai progetti di perforazione dei fondali marini alla ricerca di gas e petrolio. Qual è il segno politico del referendum? L’ambiente è un nodo strategico primario. Lo è in Sardegna, dove è una risorsa fondamentale per la definizione di un modello economico alternativo a quello della grande industria chimica, che nella nostra regione è giunto ormai al capolinea. Dopo aver detto per decenni sempre ‘sì’ al petrolchimico, con risultati spesso discutibili, ora non possiamo condizionare le scelte di un settore per noi vitale, come il turismo, agli interessi dei petrolieri che vogliono avere mano libera sui nostri fondali. Ma oltre l’orizzonte regionale, che pure è decisivo per noi, c’è anche un orizzonte più vasto, che è quello della politica energetica nazionale e della coerenza di questa politica rispetto agli impegni presi dal nostro paese in sede internazionale. Non si possono sottoscrivere accordi come quelli definiti recentemente a Parigi alla Conferenza mondiale sul clima e poi consentire alle grandi compagnie di ottenere concessioni di sfruttamento dei giacimenti italiani senza scadenza. Non si può far decidere ai petrolieri quando e quanto prelevare. C’è chi in questi giorni agita lo spettro della perdita di posti di lavoro. E’ un problema che viene sollevato in maniera strumentale. Si crea un allarmismo del tutto ingiustificato. Se il sì vince, infatti, le piattaforme attualmente esistenti non saranno per forza smantellate. Saranno solamente ripristinate le date di scadenza delle concessioni, che non sono di breve periodo: si va dai dieci ai quindici anni. Durante i quali è sperabile che venga definita una politica energetica nazionale che sposti risorse – investimenti e occupazione – verso i settori delle energie rinnovabili, coerentemente agli impegni presi a Parigi. Questo è il futuro, in questa direzione bisogna andare. E sull’invito all’astensione che viene dalla segreteria nazionale del suo partito? Non mi stupisco che dentro un grande partito come il Pd anche sulla questione delle trivelle ci sia dibattito e si esprimano posizioni differenziate. Rientra nella normalità. Capisco che in Sardegna, ad esempio, ci possano essere dirigenti che si sentono più vicini alle posizioni della segreteria e altri che hanno una sensibilità, diciamo così, pro industria. Ma non è questo il punto. Il punto è che non si può schierare tutto il Pd per l’astensione. Chi è per il no lo dica, altrettanto chi è per il sì. Argomentando, possibilmente, le due diverse scelte. Ma dire ai cittadini che non bisogna andare a votare mi sembra un errore grave. La partecipazione a scelte decisive per l’intera collettività nazionale, attraverso uno strumento di larga consultazione popolare come il referendum, non può essere vista come un rischio o, ancora peggio, come una minaccia. Il Pd, ma tutte le forze politiche in Italia, hanno un problema serio di rapporto con i cittadini. Dare indicazione di astenersi al referendum del 17 aprile non mi sembra che aiuti nessuno a risolverlo, questo problema. L’informazione ha fatto tutto ciò che doveva fare sul referendum? Lo ripeto: il referendum ha un significato politico generale. Si deve decidere se sulle politiche energetiche nazionali dobbiamo andare avanti o tornare indietro. I media devono capire la portata della posta in gioco. Per questo mi associo all’appello di quanti in queste ore stanno sollecitando una maggiore informazione sul quesito abrogativo del 17 aprile. Il voto è una buona occasione per chiedere che le politiche energetiche nazionali siano sostenibili. Referendum trivelle. Lo stato dell’arte è il seguente: ad oggi nessuna società petrolifera può chiedere nuovi permessi e nuove concessioni. Ma quel che la legge non consente non significa che venga impedito. Ad alcune condizioni

Il referendum decide anche sui nuovi pozzi di Enzo Di Salvatore sul Manifesto di martedi 29 marzo 2016

Il prossimo 17 aprile i cittadini italiani si recheranno alle urne per decidere se cancellare la norma che attualmente consente alle società petrolifere di cercare ed estrarre gas e petrolio entro le 12 miglia marine dalle coste italiane senza limiti di tempo. Lo stato dell’arte è il seguente: ad oggi nessuna società petrolifera può chiedere nuovi permessi e nuove concessioni. Ma quel che la legge non consente non significa che venga impedito. Ad alcune condizioni.

I procedimenti amministrativi che erano in corso al momento dell’entrata in vigore della legge di stabilità 2016, finalizzati al rilascio di nuovi permessi e di nuove concessioni, sono stati chiusi; le attività di ricerca e di estrazione di gas e petrolio attualmente in essere sono state tuttavia procrastinate dalla legge di stabilità 2016 senza limiti di tempo, ossia per tutta la “durata di vita utile del giacimento”. Ciò significa che quelle attività cesseranno solo in due casi: qualora le società petrolifere concluderanno che sia ormai antieconomico estrarre oppure qualora il giacimento sarà esaurito. Dal punto di vista normativo, aver procrastinato senza limiti di tempo quelle attività non può dirsi del tutto coerente con la ratio che informa la decisione legislativa, in quanto il divieto di effettuare nuove ricerche e nuove estrazioni si giustificherebbe sulla base di “gravi ragioni di carattere ambientale”; così almeno si leggeva nella relazione illustrativa al decreto sviluppo adottato dal Governo Monti, con il quale si introduceva il limite delle 12 miglia marine. Eppure, tertium non datur: o quelle ragioni sussistono sempre o quelle ragioni non sussistono mai. Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi – che ha definito il referendum “inutile” – è però di altro avviso: egli sostiene che l’attuale quadro normativo sia perfettamente coerente, in quanto, nonostante le attività di estrazione già autorizzate e ricadenti entro le 12 miglia marine potranno continuare ad essere esercitate, non sarà più possibile installare nuove piattaforme e perforare nuovi pozzi. In altre parole, non sarà più possibile “trivellare”. Questa affermazione è, però, inesatta: attualmente, la legge non consente che entro le 12 miglia marine siano rilasciate nuove concessioni, ma non impedisce, invece, che a partire dalle concessioni già rilasciate siano installate nuove piattaforme e perforati nuovi pozzi. La costruzione di nuove piattaforme e la perforazione di nuovi pozzi è, infatti, sempre possibile se il programma di sviluppo del giacimento (o la variazione successiva di tale programma) lo abbia previsto. Questa conclusione è avvalorata anche da un parere del Consiglio di Stato del 2011, reso al Governo Berlusconi, che chiedeva lumi sulla portata del divieto di ricerca ed estrazione di petrolio entro le 5 miglia marine introdotto l’anno prima nel Codice dell’ambiente. La risposta del Consiglio di Stato è stata la seguente: il divieto non riguarda i permessi e le concessioni già rilasciati e non ricomprende le seguenti attività: l’esecuzione del programma di sviluppo del campo di coltivazione come allegato alla domanda di concessione originaria; l’esecuzione del programma dei lavori di ricerca come allegato alla domanda di concessione originaria; la costruzione degli impianti e delle opere necessarie, degli interventi di modifica, delle opere connesse e delle infrastrutture indispensabili all’esercizio; i programmi di lavoro già approvati con la concessione originaria; la realizzazione di attività di straordinaria manutenzione degli impianti e dei pozzi che non comportino modifiche impiantistiche. Ora, è sufficiente andare a verificare quali siano le concessioni tutt’ora vigenti (e ricadenti entro le 12 miglia marine) e leggere l’originario programma di sviluppo del giacimento per capire che nuove trivellazioni ci saranno eccome. Basti pensare alla concessione C.C 6.EO nel Canale di Sicilia, che interessa le 12 miglia marine per circa 184 kmq: rilasciata nel 1984, essa ha ottenuto una proroga il 13 novembre scorso, con scadenza al 28 dicembre 2022. Ebbene, in base a tale proroga, la società Edison potrà costruire una nuova piattaforma – denominata Vega B – e perforare 12 nuovi pozzi. Se vincerà il “no” (o se il referendum non raggiungerà il quorum) la piattaforma potrà essere realizzata, i pozzi perforati e l’estrazione potrà darsi senza limiti di tempo, fino a quando la società petrolifera lo vorrà; se, al contrario, vincerà il “sì”, potrebbero profilarsi due differenti epiloghi: o si riterrà – come sarei propenso a ritenere – che la piattaforma Vega B non potrà essere realizzata, i pozzi non potranno essere perforati e l’estrazione non potrà essere avviata (e questo in quanto il quesito originariamente proposto dalle regioni aveva ad oggetto anche l’abrogazione della norma sui “procedimenti autorizzatori e concessori conseguenti e connessi” e sulla “esecuzione” delle attività relative); oppure dovrà ritenersi che la Edison potrà comunque completare la sua attività, ma fino alla scadenza della proroga, e cioè fino al 2022; il che, per ragioni di mero calcolo economico, potrebbe anche comportare una rinuncia preventiva da parte della società petrolifera alla realizzazione degli impianti e all’estrazione del greggio. Ma quale che sia l’epilogo, una cosa sembra certa: che il referendum del 17 aprile proprio inutile non sarà.

Posti non a rischio anzi saranno di più intervista di Tommaso Ciriaco a Edoardo Zanchini vicepresidente di Legambiente su Repubblica di martedi 29 marzo 2016

«Non è solo un referendum sulle trivelle, anche se la vittoria del sì bloccherà alcune nuove trivellazioni in Sicilia. Questa è una consultazione sulle politiche energetiche del Paese», giura il vicepresidente di Legambiente Edoardo Zanchini.

Andiamo con ordine.

«I referendum nascono per fermare politiche che mirano a estrarre più petrolio dai mari italiani. Una linea indicata dallo Sblocca Italia. È vero, quella legge è stata modificata, ma il governo ha detto: “Ok, però prolungo a vita le concessioni esistenti”».

Ma l’Italia non dipende dalle fonti di energia tradizionale?

«Se continuiamo con le trivellazioni, abbandoniamo la prospettiva di sfruttare il biogas e il biometano, che sono invece fonti rinnovabili. Potenzialmente, con queste ultime riusciremmo a coprire il 13% del fabbisogno di gas, molto più di quello estratto con le trivelle. E invece lo sa perché non si procede in questa direzione?».

No, perché?

«Le lobby. Non vogliono che si faccia concorrenza al metano. Siamo di fronte a uno scontro tra trivelle e rinnovabili, tutto qui».

Se vincono gli ambientalisti, non si danneggia l’occupazione?

«Parliamo di tremila lavoratori, che non verrebbero licenziati: andrebbero avanti fino alla scadenza attualmente prevista dalle concessioni. E comunque, puntando sul biogas e il biometano riusciremmo a occupare – lo dicono gli studi – ben 12 mila persone. Quattro volte di più di oggi».

Per l’Onu «l’incertezza politica ha offuscato molti mercati, compreso quello italiano» Dal 2014 al 2015 calo del 21%: i tagli retroattivi del governo Renzi agli incentivi hanno inciso in modo determinante

Rinnovabili, l’Unep boccia l’Italia: un miliardo di dollari in investimenti, diminuiti di 30 volte su Greenreport.it del 26 marzo 2016

Nell’ultimo anno gli investimenti in energie rinnovabili nel mondo hanno tagliato un traguardo mai raggiunto prima, raggiungendo il record di 285,9 miliardi di dollari: finora, la vetta massima era stata raggiunta nel 2011, con 278.5 miliardi di dollari. Nella decima edizione del rapporto Unep (il Programma dell’Onu per l’ambiente) Global trends in renewable energy investment prodotto in collaborazione con la Frankfurt School e Bloomberg new energy finance ci sono molti dati che fanno ben sperare per un presente e futuro rinnovabile, ma si prende atto che il progresso non è stato certo omogeneo. C’è anzi chi ha indietreggiato parecchio, e tra i paesi che secondo l’Unep camminano a passo di gambero spicca l’Italia. Come osservano da tempo anche le associazioni ambientaliste, mentre nel mondo gli investimenti diretti allo sviluppo delle energie rinnovabili non fanno che salire, entro i nostri confini sono ormai in picchiata. Adesso arriva anche l’ufficialità da parte delle Nazioni unite: nel 2015 «l’Italia ha visto gli investimenti in energie rinnovabili scendere sotto 1 miliardo di dollari, in calo del 21% rispetto al 2014 e molto al di sotto del picco di 31,7 miliardi di dollari raggiunto durante il boom fotovoltaico del 2011». E la colpa di tale declino non va ricercata solo nella crisi economica, peraltro presente anche nel 2011. I tagli retroattivi del governo Renzi agli incentivi, osserva l’Unep, «hanno contribuito a smorzare l’interesse degli investitori in Italia lo scorso anno». Il Programma Onu per l’ambiente si riferisce qui evidentemente al cosiddetto “Spalma incentivi”, divenuto legge nel 2014 all’interno del decreto Competitività. Si tratta di uno dei primi provvedimenti voluti dall’attuale esecutivo a guida del premier Renzi, nonostante la pressoché unanime contrarietà da parte del mondo industriale e ambientalista, fino ad osservatori internazionali come il Wall street journal. Ma i problemi per le rinnovabili italiane non sono circoscritti ad un singolo provvedimento, quanto legati alla «incertezza politica» che «ha offuscato molti mercati, compreso quello italiano». Non consola sapere che l’Unep ci lega ad una folta compagnia, dalla Spagna alla Polonia alla Germania. Dal 2004 a oggi, l’Unep stima che gli investimenti in energie rinnovabili abbiano toccato quota 12 trilioni di dollari. Fino a tempi recenti, i leader indiscussi in questa scalata erano nel mondo occidentale, con l’Europa in testa e l’Italia e la Germania in particolare (si guardi ad esempio alla crescita del fotovoltaico) come punte di diamante. Tali investimenti – finanziati tramite incentivi pubblici, dunque con risorse della collettività – hanno contribuito grandemente a far crollare il costo delle tecnologie rinnovabili, in un’azione meritoria di cui però oggi si avvantaggiano altri paesi. In Europa dal 2011 a oggi gli stanziamenti sono crollati del 60%, mentre nel 2015 per la prima volta nella storia la quota maggiore degli investimenti in rinnovabili è arrivata dai paesi in via di sviluppo, Cina e India in testa. Anche altri paesi occidentali, come gli Usa con +19% negli investimenti nel 2015, continuano la loro corsa pur essendo partiti in sordina, mentre l’Europa e l’Italia in particolare rimangono ingessate. Il rischio non è solo quello di non contribuire a sufficienza nella lotta ai cambiamenti climatici – senza le rinnovabili l’anno scorso sarebbero state emesse nel mondo 1.5 gigatonnellate di CO2 in più –, ma di scendere da un treno economico ormai avviato (proprio grazie ai nostri sforzi). Le energie rinnovabili rappresentano ancora oggi una minoranza della capacità totale installata nel mondo (circa il 16,2%) e una frazione dell’energia elettrica prodotta (10,3%), ma entrambi gli indicatori non cessano di crescere, e lo fanno sempre più velocemente. L’anno scorso il 54% di tutti i gigawatt installati nel mondo facevano capo alle rinnovabili, più di carbone e gas. Nonostante ciò, la crescita delle energie pulite rimane minacciata su più fronti. Le centrali a carbone e gli altri impianti tradizionali, ad esempio – spiega il presidente della Frankfurt school of finance & management, Udo Steffens – hanno «una vita molto lunga. Senza ulteriori interventi di policy, le emissioni climalteranti continueranno ad aumentare per almeno dieci anni». Simili effetti sono dovuti al recente crollo dei prezzi di carbone, petrolio e gas, un fenomeno che interessa tutte le commodity e che impatta pesantemente anche sul riciclo e l’economia circolare. Anche qui la risposta deve essere politica, mettendo in campo strumenti come una riforma fiscale ecologica (intervenendo su emissioni e risorse), che potrebbe tra l’altro portare 30 miliardi di euro di gettito all’Italia. «Nonostante gli ambiziosi segnali arrivati dalla Cop21 di Parigi e la crescente, nuova capacità installata da fonti rinnovabili – conclude Steffens – rimane ancora molta strada da fare». L’Italia del governo Renzi continua però a marciare nella direzione sbagliata.

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