L’unità necessaria
Alberto Burgio sul Manifesto di martedi 3 settembre 2013
Lo si potrebbe definire come il paradosso della confusione. In questa fase, seguita alla caduta del governo Berlusconi nel novembre 2011, la confusione è massima. Le «larghe intese» ne sono un paradigma. Eppure il quadro dei conflitti è netto e si chiarisce ogni giorno di più. La faccenda dell’Imu e quel che le va dietro è un ottimo esempio. Sul piano politico è una vittoria limpida del Pdl e del suo capo, la dimostrazione della sua capacità di rappresentare e proteggere gli interessi della propria base elettorale contro ogni principio di equità e ragione economica.
Ed è per questo una massiccia dose di tritolo scaricata sul governo, con buona pace del presidente del Consiglio (il quale non per caso si è affrettato a prendere distanza dal suo stesso ruolo). Quel che le larghe intese mascherano, l’Imu (e l’Iva) svela. Concordi nel considerare inevitabile l’austerità – cioè la riduzione della spesa pubblica sociale – i due pilastri del governo si fanno la guerra in vista delle prossime elezioni, che la condanna di Berlusconi sembra avvicinare. La destra incalza. Di fronte al rischio personale del Cavaliere è pronta anche all’autodafé. Di contro, il Pd in stato confusionale indietreggia. Strabico, guarda con un occhio al Quirinale, temendone le ire, con l’altro al proprio interno, dove divampano lotte intestine. Di fronte allo scontro tra interessi non c’è grande coalizione che tenga. E qui, con buona pace della retorica, di interessi si tratta.
Difatti un conflitto sempre più duro scuote sottotraccia anche la società, umiliata da questa ennesima «riforma» che regala due miliardi e mezzo ai più ricchi e sparge sale sulle ferite di chi stenta a campare. Un conflitto sociale al calor bianco, a malapena dissimulato dalle perorazioni patriottiche dei governanti.
Mai, da cinquant’anni a questa parte, la forbice della ricchezza è stata così aperta. Mai è apparso tanto chiaro e mortificante il divario tra garantiti e precari, tra privilegiati e umiliati. Non è una guerra di posizione, ma di movimento. Che, sotto l’ombrello mediatico della crisi, radicalizza le ineguaglianze decretando una mutazione genetica del modello sociale. La società italiana (come quella europea) si americanizza, assume i tratti di una oligarchia, traduce in termini castali le appartenenze di classe. Non è un fatto inedito. La presenza di una borghesia gaglioffa e predatoria («rurale» diceva Gramsci) è un dato cronico nell’Italia moderna. Solo che oggi non c’è nessuno a ostacolarla nella sua corsa ad arraffare per tesaurizzare. L’Imu, si diceva, è un ottimo esempio, materiale e simbolico. Ma si pensi anche alla vicenda, che sarebbe sconcertante se non fosse invece coerente con il tutto, del gigantesco regalo fiscale agli impresari del gioco d’azzardo. 98 miliardi di euro evasi dalle slot machine, ridotti a una micro-contravvenzione di 650 milioni. Come se si trattasse di benefattori e non di mafie. Come se non si contassero a centinaia di migliaia le famiglie italiane distrutte dalle ludopatie e dai cravattari. Come se non vivessimo nella culla dell’evasione fiscale, dove lo Stato con una mano squarta chi non ha vie di fuga e con l’altra alliscia il pelo a chi gli nega il dovuto. Vale la pena di parlarne ancora?
Dunque il quadro è chiaro. Le ragioni della politica e quelle della morale (della giustizia sociale, della democrazia costituzionale) divergono. L’una costruisce consenso a spese dell’altra. La ripresa autunnale sarà durissima, anche se alle parole dei vertici sindacali – finalmente, da ultimo, concordi nell’attacco alle scelte del governo – non dovessero malauguratamente seguire fatti. Sarà durissima anche sul piano internazionale, coi venti di guerra che tornano a sconvolgere il Medio Oriente scatenando lo spettro di un conflitto globale.
Di fronte a questo quadro qual è il nostro problema? Nostro, del mondo del lavoro subordinato (salariato o eterodiretto), precarizzato in massa e rapinato sistematicamente (10 punti di Pil, 160 miliardi, nei soli ultimi dieci anni). Nostro, dei senza lavoro (tre milioni e mezzo di cittadini degradati a paria, soprattutto giovani, soprattutto nel Sud). Nostro, dell’Italia democratica che non si rassegna allo scempio della Costituzione repubblicana e alla degenerazione civile e morale di questo paese. Nostro, di chi assiste sgomento da un quarto di secolo alla devastazione delle istituzioni e del territorio e della stessa civiltà nelle relazioni personali. Berlusconi non nasce dal nulla né per caso: è l’interprete e il simbolo di un’Italietta volgare e prepotente, prima che il figlio del suicidio pianificato della parte politica che sino agli anni ’80 aveva, bene o male, tenuto fede all’eredità della Resistenza antifascista.
Il nostro è evidentemente né più né meno che un problema, drammatico, di non-rappresentanza. O, se si preferisce, di non-voce. Siamo tanti a non riuscire a parlare più, da anni, sulla scena politica, e a vedere negate le nostre ragioni sul terreno sociale. Almeno il 15% del Paese. Potenzialmente il doppio (quanti voti grillini vengono dai settori sociali massacrati dal neoliberismo postdemocratico?). Forse la maggioranza assoluta degli italiani. Ma siamo ciò nonostante – forse proprio per questo – dispersi e senza interpreti. Ridotti a un pulviscolo impotente, il che retroagisce sul sistema politico, azzerandone credito e legittimità.
Abbiamo riflettuto più volte su questa condizione e chiamato in causa gli errori e le responsabilità dei nostri gruppi dirigenti. Errori gravi, responsabilità storiche, poiché nulla imponeva che le cose seguissero questo corso, nulla impediva che la fine della «prima repubblica» vedesse sorgere una sinistra forte e unita (forte perché unita) capace di tenere le posizioni conquistate e di trasmettere all’Europa una domanda pressante di giustizia e di partecipazione democratica. Sta di fatto che siamo più che mai, qui e ora, mentre la crisi politica si avvita su se stessa, prigionieri di una micidiale impotenza.
Se questo è vero, com’è vero, è il momento di alzare la testa, se non vogliamo che una condizione di estrema difficoltà si trasformi nella morte della speranza. L’8 settembre – data fatidica – si avvicina, e con esso l’appuntamento dell’assemblea generale della sinistra convocata da Maurizio Landini e Stefano Rodotà. Il loro appello, rivolto a quanti intendono riempire un desolante vuoto politico e sociale, dev’essere ascoltato e raccolto senza indugi, senza tentennamenti. Raccolto e rilanciato con la ferma determinazione a lavorare finalmente per l’unità della sinistra italiana, del mondo del lavoro, del popolo della Costituzione, della partecipazione e della pace.
Sappiamo da dove viene il pericolo. Conosciamo le riserve di chi aspira a proteggere la propria piccola riserva, traducendo la partita politica a misura dei propri destini personali o di consorteria. Ma confidiamo in un sussulto di intelligenza politica e morale. Non è chi non veda quanto alta sia la posta in gioco in questi mesi, in queste settimane. Non si tratta di suonare la campana apocalittica per suscitare qualche emozione. Se anche la prossima legislatura vedesse la sinistra relegata al rango di comprimario ininfluente, è molto probabile che anche in Italia il discorso si chiuda per sempre come nelle «grandi democrazie» occidentali, in cui l’opposizione sociale non è rappresentata e scade a semplice virtualità.
Questa volta ci giochiamo molto, forse tutto. Ritroveremo una speranza se sapremo vedere il molto che ci unisce, al di là di appartenenze ormai obsolete. Se invece prevarranno ancora spinte corporative avremo mancato un’occasione preziosa. E ci saremo anche noi aggregati – consapevoli o no – al seguito dei fautori delle larghe intese.