Un altro grande scrittore e amico ci ha lasciato e voglio ricordarlo con la presentazione che ne feci il 7 novembre 2005 al Teatro dell’Arte di Milano – un evento reading di Jack Hirschman, organizzato da Teatro CRT, Manifesto, Milanocosa e Casa della Poesia di Baronissi. In quella occasione gli dedicai l’intervista che segue, e che fu poi pubblicata anche dalla Rivista Il Segnale.
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Altre ragioni – su Hirschman e oltre
Adam Vaccaro
Siamo in una situazione culturale affollata, deprimente e ininfluente rispetto al potere in atto, che usa armi sempre più potenti, oltre che di distruzione, di distrazione di massa, per una produzione di consenso sempre più beotizzante. È una situazione in cui, tra i Nomi più noti, ben pochi hanno speso la propria visibilità su guerre, scandalosi andamenti delle vicende politiche, occasioni di recupero di memoria o di uscita da punti di vista chiusi nel pantano italiano – vedi i casi del trentennale della morte di Pasolini o del recente tour italiano di Jack Hirschman.
L’occasione del reading milanese di Hirschman del 7 novembre 2005, organizzato da Teatro CRT, Manifesto, Milanocosa e Casa della Poesia di Baronissi, è stata preziosa perché ha sollecitato il pubblico che ha affollato la Sala dei Poeti del Teatro alla riflessione critica e alla necessità di interazioni tra linguaggi e culture diverse. Ho coinvolto Milanocosa perché credo che, oggi più che mai, questo genere di incontri possa aiutare a stimolare, per quel che riguarda la poesia contemporanea, scambi vitali tra un’estetica sempre più chiusa in una “stanza” (quale quella italiana), e un’altra più aperta alla “strada”. Entrambe possono trarre beneficio nella ricerca di una espressione che coniughi complessità e transitività comunicativa, impegno civile senza illusioni di parola facile, profondità senza derive intimiste, nichiliste o parnassiane. Per questo non mi ha meravigliato l’assenza, tra le centinaia di presenze, di tanti che si auto eleggono a vati della poesia contemporanea.
L’evento di questo reading di Hirschman è stato posto perciò da me nella linea di ricerca di una parola che sia (ricordando Whitman) voce di un numero immenso, parola che non nasce dal nulla e non ambisce il nulla, che cerca di collocare quel “sogno in presenza della ragione” quale è la poesia, nella storia e nella globalità del mondo. In questa occasione ho posto le domande che seguono a Jack Hirschman, con le risposte, tradotte in Italiano da Claudia Azzola.
5 novembre 2005
Intervista a Jack Hirschman
Sono cambiate nel corso dei decenni le tue valutazioni su come si colloca secondo la tua esperienza il fatto di scrivere versi: come fatto tra fatti pubblici, come esperienza intima e poco condivisibile col resto della comunità, o come incrocio necessario che tende a ricostruire identità singola e collettiva? A me sembra di cogliere la spina dorsale della tua poesia nella tensione a questo incrocio; è così?
R. È certo che i cambiamenti politici e sociali degli ultimi venticinque anni hanno influenzato non solamente la mia poesia quanto la poesia degli autori in genere. A partire dal 1980, data della mia adesione al partito Comunista dei Lavoratori e del mio impegno come operatore culturale durato una dozzina di anni fino allo scioglimento volontario del partito stesso, la mia voce personale e anche la mia voce pubblica si sono identificate con le lotte della classe lavoratrice. L’elezione del populista e fascista Ronald Reagan ha avuto come effetto il consolidamento delle forze culturali della Sinistra. Si è cominciato a intravedere una nuova classe di poveri – gli homeless e addirittura i veterani divenuti homeless gettati per le strade delle metropoli. Il mio fare poesia e il mio lavoro di traduzione sono stati sempre grandemente influenzati da condizioni di ingiustizia ed oppressione. Nel corso degli anni ottanta fino ad oggi ho voluto portare una luce di speranza ai cuori, proprio denunciando ogni forma di sfruttamento capitalistico.
Ma esiste oggi, secondo te, una comunità umana degna di tale nome o esiste una massa tendenzialmente disgregata, fatta di individualismi rissosi (nei paesi sviluppati), o di masse emarginate e disperate dentro e fuori le aree di maggiore sviluppo capitalistico?
R. In fasi più remote della mia vita di poeta tendevo a vedere la comunità come un gruppo di creativi d’avanguardia, poeti, scrittori, artisti, musicisti, e dagli anni ’80 sicuramente ho spostato il mio punto di vista. Oggi siamo consci che non c’è un’avanguardia artistica che sappia esprimere un qualche valore autentico se non si mette al servizio dell’autentica avanguardia, che oggi altro non è che quella dei più bisognosi in ogni società. Non viviamo nel passato. Il tempo dei manifesti DADA è morto e sepolto. In un Occidente “pornopolizzato” ormai, è inutile épater le bourgeois. Il compito che ci aspetta è soffocare il capitalismo in nome di tutti quelli che muoiono di fame e di abbandono, cui la guerra ha devastato e mangiato l’anima. Questo è ciò di cui la poesia autentica dovrebbe occuparsi nel nostro tempo. Nient’altro.
Come è cambiata questa realtà negli ultimi decenni e quale funzione specifica può avere il fare poesia entro il suo orizzonte? Di irrimediabile marginalità e ininfluenza o di resistenza incisiva di aggregazione e valori umani?
Con l’applicazione capillare del microchip dal 1970, con il collasso ideologico del comunismo sovietico e l’impatto del capitalismo globale che ne consegue, come insegnano questi ultimi quindici anni, il consumismo più diffuso e la paradossale polverizzazione della sensibilità hanno cambiato tutte le forme d’arte. Il poeta è in grado di fare luce su questi cambiamenti. Anzi, deve. La poesia oggi è minacciata nella sua essenza, anche se – paradossalmente – ci sono adesso più poeti di ogni altro periodo storico. E la minaccia viene dalla continua spinta alla banalizzazione di ogni forma poetica.
Pensi che esista oggi in America una comunità letteraria e una poesia adeguate ai gravissimi problemi posti da una civiltà che mostra tutta l’intenzione di far coincidere la propria inevitabile fine con la distruzione di ogni equilibrio e possibilità di vita umana sulla Terra?
R. La prima resistenza di una certa importanza, poeticamente parlando, alla rivoluzione tecnologica messa in atto dal capitalismo nei primi anni Settanta fu il movimento hip-hop. Quella forma di poesia orale ha percorso il mondo. Ma, come molte forme di arte collettiva, questo movimento è scaduto nel business, nel mercato. Oggigiorno in America il sogno di un poeta nell’ambiente accademico è di diventare parte del grande business letterario, il che significa celebrità, ricchezza e sicurezza. Molti tra i poeti non considerano il loro stesso lavoro un’arma di lotta della comunità, o la coscienza di classe o finalizzato al sociale e al politico. Certi, e sono i più patetici, scrivono sì testi impegnati socialmente, ma considerano tuttavia le loro opere come espressione “individuale” e niente più. D’altro canto, è chiaro che i 35.000 testi poetici inviati per e-mail nella grande emozione suscitata dalla guerra in Iraq vanno letti come una risposta enorme. Il fatto è che oggi le vere “comunità” di espressione, di attivismo e cose del genere sono presenti nel mondo virtuale, nel computer.
Rispetto a tale quadro storicosociale sono ancora vitali e utili le migliori interpretazioni marxiane e del materialismo dialettico, che per me hanno sempre incarnato una tensione laica e moderna di ripresa unitaria e di relazione gioiosa e non alienata con la vita?
R. Certo è il marxismo la chiave. Ma in America – dove l’alienazione, e l’alienazione entro l’alienazione non sono dati per scontati ma in effetti sono le (a)normali condizioni di vita capaci di funzionare quando si ha una schiera di esseri schiavizzati sostanzialmente (nel senso di sostanza, cioè droga) nella schizofrenia paranoide, esseri cui è stato insegnato di accettare una coscienza opaca come norma di vita – il marxismo non ha mai esercitato una presa forte se non forse in una fase inconscia. Veicolarne alla coscienza le aspirazioni di non alienazione e di felicità umana compiuta è forse il compito principale del poeta nel nostro tempo.
Pensi che parole come “anima”, “sacro”, “cuore”, “spirito” debbano essere lasciate a culture e ambiti sentimentali, astratti, spiritualistici e romantici o – richiamando anche Leopardi – una poesia innervata in una cultura materialistica può e deve riappropriarsene, rinnovandone il senso all’interno di una ricerca inarresa entro la nostra globalità corpomentale e biologica?
R.Amo queste parole astratte o forse non proprio astratte. Le uso, a volte. Qui fa fede il contesto. Meglio di tutto sarebbe, certo, evocarle all’interno di un testo poetico senza davvero “pronunciarle”. Ma dato il fatto che un poeta non può creare pura evocazione, non vi è nulla di fondamentalmente errato in queste parole tra gli elementi contestuali più specifici di un testo. Non mi piacciono le regole nella poesia. Nessun tipo di regole. E dacchè la democraticità del fare poetico non esclude niente, non è questione di classe. La lingua non appartiene a una classe in particolare. Appartiene a ogni classe. E così è con le singole parole specifiche. Sta tutto in ciò che il singolo poeta fa con le parole.
La poesia ha la capacità alchemica di dare corpo all’incanto e all’utopia di generare amore e energia vitale anche dal mucchio di orrori apocalittici in cui siamo immersi. È questo il valore umano e sociale, oggi in particolare, della poesia: ricostruire vita anche dove tutto tende a essere sempre più distrutto?
R. Questi sono certamente i valori particolari della poesia odierna. Quale arte dell’Inizio, la poesia prende su di sé la memoria ma si situa al centro del caos distruttivo ed essendo il suo battito quello del cuore, ed essendo che le parole sgorgano dalle viscere e tra i più sofferenti ed offesi della società, dalle loro lacrime e dai loro sogni di felicità, la poesia, dici tu giustamente, è uno strumento grandioso della ricostruzione dell’essere umano nel momento contemporaneo di negazione e di isolamento e di disincanto.
Milano, 5 novembre 2005
Adam Vaccaro
L’intervista è di un’attualità sconvolgente. Ricordo quei giorni, la presenza di Hirschman, alla cui poetica molti di noi si sentivano vicini. Ben poco è cambiato, anzi, se non quell’urlo lanciato dai Beat, che sembra un po’spento. Ma forse tempi nuovi ci aspettano, ora che il re è sempre più nudo ( v. Afghanistan). Speriamo!
Email ricevuta e autorizzata da Mariella Bettarini
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Adam carissimo,
che dolore grande anche questa perdita! Leggerò senz’altro la tua intervista a Jack Hirschman, e ti ringrazio per questo tuo intenso invio.
Molti auguri sempre e un caro abbraccio da
Mariella
Email ricevuta e autorizzata da Adriana Gloria Marigo
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Grazie, Adam.
È una intervista importante, mette in luce lo spessore umano e intellettuale di Jack Hirschman che tutti coloro che lo hanno conosciuto per breve o lungo tempo (amato, stimato anche in Veneto) accolgono tra i poeti di esemplare autenticità.
Caramente.
A. Gloria Marigo
Email ricevuta e autorizzata da Patrizia Gioia
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caro Adam, ti ringrazio di questo invio che concorda con il sentire delle persone che non ci stanno ad aderire a questa massificazione, ad un green pass che rende il corpo un prodotto su cui trarre profitto. Il neoliberismo è un sistema criminale, succhia, depreda, uccide. Uomini, lavoro, speranze, presente. Perchè solo un buon presente potrà offrire nuove visioni di vita umana.
Farò girare questa tua, con un caro abbraccio, Patrizia Gioia