Il velo la veste e le risposte di Gabriella Galzio
In Breviario delle stagioni, Agorà &Co Ed, 2019
Adam Vaccaro
Viene detto abitualmente, nel circuito ristretto degli addetti e appassionati di poesia, che ad essa non compete dare risposte ma solo, o soprattutto, fare domande. Col suo ultimo libro Gabriella Galzio conferma invece anche su questo la sua specificità anomala, perché offre con testi poetici e notazioni collaterali, sia domande aperte, che personali stimolanti risposte.
È un atteggiamento generale di responsabilità della scrittura, che va oltre la propria soggettività, e ricerca forme che riescano a mettere in comune (caro non solo ad Antonio Porta) riflessioni e percezioni, disagi e gioie del nostro vivere qui e ora. È ricerca di una poesia che non sia gesto appartato e appagato di sé, ma lingua condivisa “che finalmente possa parlare a un comune lettore…insperato dono della poesia, che pure mantiene i suoi segreti di tèchne” (p.117). È dunque un esercizio tutt’altro che naif, ma di elevata coscienza della complessità costitutiva del poièin e del suo farsi:
“Oggi ho mangiato pane e neve/ viola e violino…/ nella bianca fontana…nella madia di Vesta, nel quieto velo” (p.12); sogno una poesia/…candore di pane” (p.13); sono i primi versi del libro, in forme di lampi e musica lenta, frammenti e briciole, di un Pollicino che vuole ritrovarsi e farsi ritrovare in un velo che qui è forma e sostanza di poesia. È un candore-tensione di apertura e ricerca di calore e nutrimento, con immagini di neve congiunte a pane (ricordiamo la sentenza contadina, sotto la neve pane), primo alimento che sa beffarsi della morte mentre muore in bocca, perché sa che solo morendo può (ri)farsi corpo vivo.
È dunque l’innesco di un piano di complessità metamorfica, interminabile, di clessidra che continua a rovesciarsi. Di un tempo fuori da ogni delirio di tempo lineare. E il biancore donato da neve-pane non è qui immagine retorica, tantomeno maschera, ma velo adiacente, distinto ma non distante, dalla carne e dall’anima di chi scrive.
Sono sequenze strettamente connesse tra corpo operante (relazioni, emozioni, gesti della prassi vitale) e gesto scrivente, che pur sapendo di elaborare altro dal corpo, fa cantare e vincere la gioia di farne corpo ulteriore del proprio corpo. La poetica adiacente di Gabriella è lucidamente esposta e concentrata in luminose sintesi: “stai nella forma, stai nel grande velo”, “nel cuore il velo”, quindi è poesia in cui carne e carta tendono a essere con-fuse, perché sa che solo così ricrea gioia e conoscenza, meglio, gioia della conoscenza: “sii al velo grato, sii beato” (p.16).
Sono versi che ci donano quella cosa chiamata poesia, come almeno da me intesa. Una poesia che fa sentire i nervi e il corpo tra aloni/aromi che si elevano dalla pagina. Una poesia che nasce dal profondo e si fa forma di anima che avvolge col suo velo la totalità di chi, penna o tastiera in mano, estrae e articola i clinamen (i corpi infimi di Epicuro) muti e invisibili che coltiva, per farne destrieri di parola. Parole come bocche aperte e non termini, falso sinonimo che chiude (vedi Massimo Angelini, Ecologia della parola, Pentàgora, 2017). Briciole accese di un libro, che vede la luce dopo otto anni dall’ultimo (La discesa delle Madri, Arcipelago, 2011). Un arco di tempo che (ci) dice la gestazione lenta di cui il Soggetto (Storicoreale e Scrivente, SSR e SS), ha avuto bisogno. E la ricerca di lentezza è sia componente costitutiva del testo, sia risposta critica che il corpo e la sua parola danno a un contesto che fa della velocità uno dei suoi paradigmi di valore. Un contesto connotato da esaltazione di competizione e rincorse perdifiato, che tendono a deliranti cancellazioni di giorno e notte, come di intervalli settimanali o rotazioni stagionali, insomma di ogni ciclicità naturale, al fine di arrivare prima di altri nella rincorsa a quel dettame conformante un universo globalizzato di commercio e scambi, finalizzato a profitto e concentrazione di ricchezza,
Non è qui la sede per soffermarsi sulla struttura sociale prodotta da accumuli concentrati in pochissime mani e non per il benessere generale, di ogni Paese e del mondo intero, di un processo sempre più diabolico e ossessivo, rafforzato dalle meravigliose e anch’esse velocissime innovazioni tecnologiche. Ma è il focus della catastrofe antropologica in atto, cui questa poesia reagisce per dare risposte, non solo per-sé:
“Oggi il mondo appare franto/ e io, franta con lui”; “il futuro che mi chiama/ è il restauro della terra” (p.32); “Fuori è tempesta”, e “il fatto è/ che la città/ non mi conquista più” col suo ammasso caotico e violento di cose case e persone di una “civiltà che frana, per cui “non mi resta che la fede animale/…indomata” (p.33)
Sono dunque accenni necessari, perché senza un riferimento alle suddette connotazioni del contesto, il testo di Gabriella rimarrebbe acefalo o motivato da imperscrutabili e falsamente autonomi moti intimistici. Al contrario, qui il testo è frutto di reattività vitale, rispetto ai vuoti o troppopieni dell’esistente, in primo luogo per una autodifesa dell’equilibrio del proprio Sé e della propria ecologia mentale. Una mente da me intesa non solo come funzione cerebrale, ma di quello che la Montalcini chiama cervello bagnato: molteplicità e totalità corpomentale di sensi e rispettive lingue. Perché, al di là degli effetti sociali sulla distribuzione della ricchezza, il modello competitivo comporta stati interiori ansiogeni, cui il sistema risponde offrendo prodotti farmaceutici e droghe di ogni tipo. È uno stato sempre più squilibrato che sfocia facilmente, oltre che in violenze piccole e grandi, in una riduzione di capacità di intelligenza della vita.
La prima necessaria risposta sta nelle scelte relative al proprio collocarsi, definendo orizzonti e spazi esterni e interiori. Uscire dalla città e fruire di contesti meno follemente affollati o alienati, in cui riuscire a praticare l’esercizio di ascolto eterodiretto del flusso invisibile, sospeso tra i frammenti delle cose visibili, per una ripresa della capacità di farne materia del proprio sentirepensare. Uno stato opposto all’azione finalizzata e strumentale dell’Io, per cui l’articolazione verbale accende lampi tra silenzi e pause lunghe. Il pasoliniano padrone del discorso dominante (cui l’Io più facilmente cede) viene così ridotto e spinto e ad agire nel testo, ma in subordine, sottostando a uno stato modificato di coscienza che dilata le lingue dei sensi (vista, udito, tatto, olfatto e gusto), e in primo luogo del sesto senso, o inconscio. Ne consegue una tessitura testuale in cui la lingua algoritmica del signore Io non è dominante ma dominata. E si apre un immenso spazio del sentire in cui può nascere forse la poesia, come materia e forma di ripresa della capacità di autopoiesi, di un esercizio mentale, che è rinascita vitale e gestione ecologica della propria esistenza.
Saper attivare un tale processo fenomenologico soggettivo, è un fare che va immediatamente oltre il soggetto, perché l’innesco epifanico è dato dal bisogno di ri-creazione energetica, che si realizza solo e nella misura in cui riesce a connettersi ad altri – dinamiche vitali identiche per corpi infimi e corpi complessi. È questo che distingue l’esercizio letterario, chiuso in un intimismo chiuso, rispetto all’atteggiamento che genera la poesia di Gabriella Galzio.
L’innesco di tale stato di coscienza dà riprova di sé con l’uscita in uno spazio (mentale) che è quello del sacro, che dà corpo alla necessità liberatoria del nontempo (precario e temporaneo, tutt’altro che tempo eterno, proiezione estrema del tempo lineare), di attimi d’infinito che ci dona l’amore nel senso più ampio, avvolto in quel velo eterodiretto chiamato poesia. È l’uscita del tempo fuori dal tempo lineare, fuori dall’io teso a un fine. È il tempo della petit mort, del ciclo necessario alla rinascita. È uscita dal fiume imposto dai dettami e ritmi della società dello scambio utile, per entrare in un mare sconosciuto di visione unitaria e di unione col Resto, che la struttura dominante fa percepire come dolorosamente separato.
Non è esperienza della fenomenologia dello spirito, ma di fenomenologia della totalità molteplice. Del corpo dei corpi, dell’essere fenomenologico fatto di mille cicli e universi in cui ogni corpo ritrova senso, gioia e rinnovata energia. È esperienza di apertura e conoscenza poetica cui non bastano i limiti di un disegno statico ontologico. È esperienza del limite e dell’illimitato, del soggetto e del suo auto-amnio, che ritrova la tensione alla relazione con l’oltre sé, o senso del sacro.
Non sorprende quindi se l’Autrice dichiari, in una nota di lettura – IL VELO E LA VESTE –, in fondo ai testi poetici, che il suo è “quasi un libro di preghiera”, dettato, in e da, una “condizione contemplativa …della natura nel suo divenire ciclico”; da cui scaturisce “Il velo, la forma, il mistero, la visione”, ché “al poeta è ingiunto di stare nel grande velo delle forme sensibili, perché solo così potrà avere, forse, visione dello squarcio di quel velo e del mistero che si cela oltre la forma” (p.118) È condizione imposta dal bisogno di recupero della coscienza (di sé e dell’Altro): “sapienza è nell’atto contemplante” (p.20). E che fa constatare, “Oltre che breve, il linguaggio nato dalla contemplazione mi appare semplice” (p.117).
Non è consueto per un poeta annettere a una propria raccolta una lettura puntuale dei testi, dai loro sensi agli snodi tecnici a questi connessi. Gabriella lo fa con un coraggio disarmato che solo una lettura chiusa nelle consuetudini letterarie potrebbe vederlo come hybris autoriale. La sapienza umile costitutiva dei versi mostra invece con questa nota in fondo al libro il bisogno di accudire il suo velo fragile, frutto della forte insorgenza della voce che sale dal profondo dell’Es e delle sue modalità di linguaggio. Mod-Es che si esplicano nei lampi frammentati, cui non interessa l’articolazione prosodica delle Mod-Io. Seppure il bisogno di tale nota è incarnato nella parte alta del soggetto, Io e Superìo indossano la veste del rituale sacerdotale (come analizza con lucidità l’Autrice), al fine di dare ancora più forza comunicativa al “linguaggio… semplice” “nato dalla contemplazione…che finalmente possa parlare a un comune lettore” (p. 117).
Dunque in questo libro tale nota opera una sorta di riequilibrio delle diverse esigenze di espressione e di transitività comunicante del Soggetto (SSR e SS divisi-congiunti davanti al loro abbacinante roveto ardente). Ne risulta una tessitura poetica di una totalità cooperante che per me assume il nome di Adiacenza.
“Se il velo è ciò che cela il mistero, la veste è l’investitura sacerdotale che chiama…ora a compiere un’opera di restauro, invisibile alla ‘grande moltitudine’ che avanza cieca” (p.118-119). Il mettere in comune implica quindi responsabilità collettiva, quale è magistralmente focalizzata da Roberto Sanesi nella sua Antologia Poeti Americani: “il poeta moderno, l’artista in genere, per poter dare risultati di interesse ‘collettivo’ (e intendiamo per ‘interesse collettivo’ il possesso di quelle doti per le quali, secondo T.S. Eliot, un poeta può essere definito un classico), necessita dietro di sé di uno sforzo critico collettore, senza il quale, parole di Matthew Arnold, ‘vi sarà sempre e soltanto un’opera povera, arida, misera’”. E precisa ancora Sanesi che a tale impostazione non interessa una “raffinata purezza” letteraria avulsa da “necessità formatrici” che si fanno carico di funzioni di “Bildung, o Paideia, strumento di comunicazione, messaggio che esprime…il ‘progetto’ di soluzione di quella crisi che tormenta l’uomo moderno”.
Abbiamo visto come le risposte “formatrici” di Gabriella Galzio ruotino intorno al tema del tempo, resistendo a “la perdita di ancoraggio al tempo ciclico”, alla sua collaterale “devastante precarietà” di “drammatica attualità”, in cui la pervasività tecnologica fa fiorire forme di “Demenza digitale” (M. Spitzer). Questo Breviario si fa carico e risponde a tali vuoti, attraverso varie stazioni tematiche e simboliche; “un asse erotico-mistico tutto femminile”, “La poetica del giardino”, quella “della casa”, tra immagini di “bianco” (che aprono e chiudono il libro), “figure mitopoietiche” come “i rituali dell’acqua”, quali quelli che “in febbraio, da februare, purificare…sbiancare i panni nella cenere”. Figure del Brevario di poesia di un’Autrice, che ci dona un “eterno volo senza età” (p.18) del “meglio di me” che si “arrampica forte/ a un vento ascendente d’amore” (p.121), con cui “ho veleggiato” per congiungere “il vero e la bellezza” (p.113).
Ottobre 2019
Adam Vaccaro
Ho sempre apprezzato la poesia ‘verace’ di Gabriella Galzio; oggi più che mai. le mie felicitazioni per le sue rese a volte ruvide ma sempre sorprendenti e incisive. Complimenti da Marica Larocchi
Il libro di Gabriella è davvero di grande valore: è stato un arricchimento, per me, leggerlo.
ringrazio Adam, non solo per le felici intuizioni interpretative e per la densa tessitura del sostrato critico che le sorreggono, ma perchè finalmente è detto che qualcuno si accorga che poeta è essere corale, che “patisce” insieme agli altri le cose del mondo, che ha cuore con la sua comunità…da qui la chiamata al restauro della terra…la spinta ad aggregare, riunire, “religere”, quasi pregare…perché oggi è necessario un atto di fede (immanente, laica e animale) in quei valori umani comuni disertati dai più…sì, cercare risposte “formative”, non smettere di cercare orizzonti utopici…rimanere fedeli alla sostanza contadina del pane…forse l’essenziale del libro è in quella semplicità e in quel candore che si dà in natura e che vorremmo preservati anche nelle cose del mondo, tanto nei processi creativi, quanto nei rapporti umani…