Biblioteca Sormani
Sala del Grechetto – Via Francesco Sforza 7
L’Associazione Culturale Milanocosa
Presenta
13 Maggio 2019 – ore 17,30
Attraverso Milano
Staffette letterarie e artistiche
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Terzo Incontro
Jack Kerouac e i poeti della beat generation italiana
A cura di Luigi Cannillo
Relatori
Luigi Cannillo e Alessandro Manca
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Alessandro Manca
Estratto dal documento prodotto per l’evento dedicato alla presenza milanese di Jack Kerouac
1966
Kerouac a Milano
“Non c’è artista che tolleri il reale”
Nietzsche
Il compito dello scrittore è vedere ciò che gli altri non vedono, altrimenti che scriverebbe a fare? Con questa domanda si apre questa riflessione che ci riporta a fatti accaduti più di cinquant’anni fa.
Il 21 settembre del 1966 Fernanda Pivano ricevette una telefonata da Luciano Budigna, capo della Rai, che gli annunciava che stava per arrivare Jack Kerouac. Il 26 settembre fu lo stesso Kerouac a telefonare, da Hyannis (Massachusetts) raccontandole la storia del suo invito in Italia.
La breve visita (76 ore in totale) che lo scrittore americano fece nel nostro paese ebbe tappa a Milano, Roma e Napoli, invitato dalla casa editrice Arnoldo Mondadori (che aveva tanto ostacolato la pubblicazione di Sulla Strada) in occasione dell’edizione italiana di Big Sur, scelto come 500° volume della collana Medusa. Il compenso per Kerouac fu di mille dollari.
Il primo ‘imprevisto’ accadde già prima del suo arrivo, ricorda – ancora – Pivano: «Kerouac accettò di venire, ma quando telegrafò per chiedere un rinvio perché sua madre aveva avuto una trombosi ed era rimasta paralizzata, gli risposero che ormai i biglietti di invito erano stati spediti, o veniva ora o non veniva più».
Con quei mille dollari avrebbe pagato un semestre d’affitto e una parte dell’compenso per l’ospedale della madre. E Kerouac, alla fine, decise di imbarcarsi. In aereo però bevve del whisky e un funzionario editoriale gli disse che stava cominciando a fare una figuraccia, e che presentandosi ubriaco non si sarebbe certo guadagnato onestamente il denaro dell’editore italiano. Fernanda Pivano sostiene come fu questo funzionario a fargli perdere la testa.
Il 28 settembre la chiamata telefonica parte da Milano, precisamente dall’Hotel Cavour, alle tre di pomeriggio: è Kerouac «ubriaco e intontito dai farmaci che gli aveva somministrato un ginecologo di fiducia dell’editore». Ferruccio Parazzoli, da una posizione interna al mondo dell’editoria, dove ha diretto per dieci anni gli Oscar Mondadori, rievocando l’episodio dice: «Aveva bisogno di soldi […]. Lo vado a prendere a Linate ma da Londra mi telegrafano che lo hanno spinto a forza sull’aereo, era completamente ubriaco. Nell’auto si addormenta e in hotel chiamo un dottore che vuole fargli un’iniezione: lui si sveglia e comincia a gridare: “me mata, me mata!”. Allora chiamo Fernanda Pivano che arriva di corsa: altro che siringa, dice, qui bisogna farlo bere! Ordino champagne e lui comincia a tracannare direttamente nel bicchiere del bagno». Fernanda Pivano all’Hotel Cavour lo vide «in piena paranoia, mi disse che gli avevano rinfacciato i mille dollari e poi gli avevano fatto un’iniezione, si sentiva la lingua impastata di morfina, voleva tornare a casa, voleva (…) sciogliere l’impegno, comunque esigeva sapere che iniezione gli avevano fatto. (…) volle venire a casa nostra dove, diceva, nessuno gli avrebbe fatto altre iniezioni. Lo stendemmo su un divano, (…) qualunque cosa fosse, e quello era il momento di lasciarlo dormire, tra persone abituate alle sue parole e ai suoi pensieri, disposte quanto meno ad ascoltarlo». Pivano scrisse anche che «di tutti quelli che erano venuti all’antica casa di via Cappuccio 19 lui era rimasto il più “sbagliato”, il più fuori posto».
Successivamente Kerouac si era lasciato trasportare alla conferenza stampa alla Libreria Cavour, dove lo aspettava Mario Spinella che lo “presentava”. L’americanista e traduttrice Marisa Bulgheroni, anch’essa coinvolta, ricorda come lei fu «invitata a presentare al pubblico milanese una sera del novembre 1966. Eccolo, spaesato e indomito, nella grande sala sotterranea della libreria Cavour gremita di ragazze e ragazzi in frenetica attesa».
In Chiamatemi Ismaele. Racconto della mia America ricorda come in quella conferenza stampa a Kerouac venne chiesto anche quanto avesse contribuito il suo talento pubblicitario a creare il suo personaggio. La risposta fu una breve frase: «La pubblicità non è il mio mestiere. Il mio mestiere è scrivere, nuotare nel mare della lingua. Sono venuto qui perché il mio editore mi ha offerto ottocento dollari, e lo ringrazio per questo. Ma non sono abituato a tanta attenzione».
Fernanda Pivano ricorda che, due ore dopo, lo avevano svegliato perché lo doveva intervistare, questa volta alla televisione, e che «gli avevo messo la testa sotto il rubinetto dell’acqua fredda e davanti alla cinepresa aveva subito incominciato a recitare il “suo” personaggio pubblico, insolente e arrogante, immensamente diverso da quello privato, incerto e disperato».
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Cercherò ora di trovare un’interpretazione ripercorrendo criticamente l’accaduto. Mi trovo quindi a rileggere una frase, che guiderà il mio sguardo sui fatti e sui simboli che da questi si diramano: «Mai studiare i discorsi di verità senza descrivere allo stesso tempo la loro incidenza sul governo di sé e degli altri».
È necessario e prezioso dunque non liquidare questa occasione di popolarità di Kerouac in terra nostrana senza tentare di approfondirne oggi, a distanza, le ragioni sottese, a meno di compiere un significativo tradimento volontario. Proverò ad inserire l’accaduto in un quadro più teorico e generale dove sarà possibile proporre un’analisi. A ciò si aggiunga la necessità di riaprire la discussione legata alla portata del significato della scrittura e dei gesti di Kerouac, uno studio che ponga domande sui modi d’essere e cosa implichino per il soggetto stesso. Ci ri-chiederemo che uomo e scrittore abbiamo di fronte e che esperimento singolare ci troviamo davanti ai nostri occhi e quanto sia carico di significati per il soggetto che ne fa uso e per chi ne vive consapevolmente la presenza.
Kerouac appare come un po’ ostile e nello stesso tempo un po’ indifeso e ambiguamente esagerato. «(…) Naturalmente Kerouac non aveva voglia di rispondere neanche alle domande più semplici e banali, come: “Quali scrittori ti hanno influenzato?” oppure “Parlaci del tuo misticismo”». Anche se a Milano non rispose a queste domande, in Kerouac scrittore si avverte costantemente un «desiderio di dare alla storia della sua generazione la fatalità delle grandi vicende spirituali».
Jack Kerouac potrebbe apparire – ad un primo sguardo – anche come colui che si sta prendendo gioco di Fernanda Pivano, mosso – forse – da una quota di ingenuità. Credo però che il focus di uno sguardo critico andrebbe posto semmai sul suo prendersi in giro e sul suo apparente non considerare il contesto e le relative regole non scritte che lo ammantano. «(…) A Milano, è costretto a rispondere a domande che non lo toccano più, e le liquida con brevi battute, o divaga e canticchia sull’orlo del crollo». Kerouac si sentiva braccato, e appare quasi ‘disattivato’, portatore di un messaggio cifrato, si nega, si cela, si difende. Andrebbero rilette dunque le parole di Pivano, quando, anni dopo, riflettendo sull’accaduto ricorda: «Mi vergognavo come una ladra (…) sapevo che anche questa volta la società si sarebbe vendicata del suo potere spirituale. Lo guardavo, disfatto e irraggiungibile, come un leone ferito legato in una trappola, con i clown del circo e i saltimbanchi delle fiere a saltellargli intorno per punzecchiarlo e beffarsi di lui, finalmente tranquilli ora che potevano avvicinarlo senza bisogno di armarsi di picche e senza paura che potesse difendersi; e non riuscivo a superare lo scarto tra la sua realtà di dieci anni prima e la sua realtà di adesso». E ancora: «Ero lì, seduta vicino a Jack Kerouac, narcotizzato dalle esigenze della società; intorno a lui i tenutari della rispettabilità culturale – con ferie pagate e tredici mensilità, ansiosi di tradire la moglie con la segretaria e di ubriacarsi in segreto il sabato sera, ma puntuali in ufficio il lunedì mattina – si divertivano: e guardavano l’antico ribelle imprigionato per settantasei ore nella trappola di un affitto da pagare, dissero che era una vergogna, almeno alla televisione avrebbe dovuto presentarsi non ubriaco, e sorrisero con condiscendenza, accendendo sigarette di contrabbando con accendisigari senza bollo, la maggiore delle rivolte, il massimo dei rischi che potessero immaginare. Kerouac capiva tutto, naturalmente, e più capiva più insisteva nelle sue battute a base di bum bum bum e più ripeteva nel microfono: “Sono ubriaco”, non per sfida o per ingenuità, ma per un ultimo tentativo di buttare la maschera, come se dicendo: “Sono ubriaco”, gli altri avessero potuto dire: “Mi ubriaco anch’io, ma non ho il coraggio di dirlo”. Kerouac capiva tutto e stava lì come un angelo caduto a guardare il suo nemico di sempre (lui che aveva scritto: “Non voglio parlare contro le cose, voglio parlare per le cose.”) (…) finché mi chiese sottovoce: “Ma cosa sto a fare qui dentro?”».
Procederemo ora tentando di ri-indagare il contesto (sia personale dell’autore che riferito a tempi e spazi legati alla presenza milanese e più generali) e tutte le tracce che questo ci può fornire, anche se è molto difficile valutare l’esatto significato umano, sociale e culturale di questi gesti e parole. Marisa Bulgheroni ci viene in aiuto quando, nel suo saggio dedicato al romanzo americano, riporta un’osservazione di Allen Ginsberg: «In questo paese non si può neppure scegliere tra i due atteggiamenti tipici dell’uomo verso la sventure: la fuga, o il rifiuto, o la simpatia profonda per chi ne è colpito. Questa scelta non è possibile in America, perché la tendenza della moralità americana è di calpestare coloro che sono caduti in basso, coloro che soffrono. L’ideale americano del successo è anti-umano e per questo non può durare più a lungo, perché è contrario alla parola di Dio». Kerouac era abituato a confrontarsi con una dinamica di comunicazione simile alla confessione. Quanto un giornalista può far sentire compromesso questo delicato ponte di comunicazione e complicità magica?
Potrebbe darsi che ci troviamo di fronte ad una dinamica per la quale l’istituzione si palesi come luogo nel quale molti comportamenti possibili dovrebbero essere soppiantati da altrettanti comportamenti ‘necessari’. E ciò dovrebbe accadere attraverso una tacita consuetudine. La consuetudine secondo il quale ci si dà come borghesi, squares.
L’istituzione, nei suoi spazi, tempi, momenti, regole implicite ed invalse orienta, modella, canalizza, predispone. Essa fomenta, produce e gestisce formazioni e rapporti tra il soggetto singolo e gli altri: si produce un palinsesto che si regge quindi su una serie di rinunce, di perdite a cui i singoli devono assoggettarsi per la realizzazione di quello che è stato chiamato ‘desiderio’, per assicurare la continuità dell’insieme, di cui hanno bisogno per mantenere sotto silenzio ciò che non può essere rappresentato.
In poche parole si soffre per il “fatto istituzionale” in sé stesso. Kerouac soffre, qui, per il fatto ‘istituzionale’.
Ancora una volta in soccorso arriva Marisa Bulgheroni quando ricorda che ogni gesto di Kerouac si porta con sé una forte componente di spontaneità, «qualcosa di selvaggio, una ventata d’aria salmastra» ispirata dal rifiuto dell’orrore per la falsità, l’insofferenza o l’odio per la proprietà e per il successo.
A suo modo Kerouac è il rappresentante eccellente della gloriosa tradizione americana: quella sovversiva. Egli «è partito in guerra con sé stesso, e ora, sul campo, scalpita, beve, si prepara allo scontro con il pubblico. Quei giovani, forse appassionati, ma inconsapevoli, si illudono di incontrare l’inventore della beat generation di cui si sentono parte oggi, nel 1966, senza sospettare che lui ne negherà l’esistenza: “Nessuna generazione è nuova… tutto è vanità…”».
Non si tralasci anche il fatto che una frattura cronologica ha spezzato la sua carriera: Sulla strada, scritto nel 1951, pubblicato nel 1957, è il libro al quale la critica l’ha inchiodato in un’equivoca eternità.
A proposito Allen Ginsberg ricorda come Kerouac «nel 1956, cominciò a scrivere un resoconto dello scenario di quegli anni e lo chiamò Angeli di desolazione. […] proprio all’apice della Beat Generation, scrisse un romanzo che descriveva dall’interno l’allucinazione di massa della pubblicità e di come tutto questo avesse colpito lui, la famiglia e gli amici».
Anche Lawrence Ferlinghetti (intervistato nel 1998) ebbe modo di affermare come Kerouac odiasse il fatto di esser diventato famoso e che più sentiva di esser conosciuto più sentiva la necessità di ubriacarsi e odiava sentirsi perduto. Come una statua, che può solo chiedersi: sono vivo? Sono ancora capace di muovermi? Si dice, a proposito, che Kerouac una notte si sia addormentato ubriaco e la mattina dopo si sia svegliato famoso. Sappiamo fin troppo bene cosa comporti la ‘fama’.
Il grande sogno che ha caratterizzato la Beat Generation probabilmente fu quello di poter e saper comunicare. Negli abissi delle profondità umane. I libri di Kerouac lo testimoniamo essendo drammatiche confessioni poetiche. Un altro sogno fu quello di liberarsi di tutto. Arrivare all’essenzialità. Per Kerouac la scrittura era l’azione per eccellenza per aprirsi. Capacità di rifiutare ciò che non gli apparteneva e che non lo rispecchiava. A ciò avviciniamo anche la fascinazione che ha accompagnato soprattutto i primi anni di questo ‘movimento’ e cioè il concetto espresso con queste parole: ‘Questo è beat, amare la vita fino a consumarla’.
I beat erano individualisti, avevano una importante matrice individualista, erano sognatori solitari, spesso visti dai borghesi come feccia sudicia e degradata.
Per rimanere in un contesto nazionale basti sfogliare la stampa italiana di destra dell’epoca, piena di luoghi comuni contro gli “zazzeruti” nostrani, i “capelloni”, e anche peggio. La stampa mente e travisa, non è minimamente interessata a cogliere quel sogno culturale che cullarono quei ragazzi che animarono la beat generation, non vuole arrivare al cuore di quell’esperienza e di quel messaggio: «[Kerouac] disse che a influenzarlo era stato Melville, Thomas Wolfe e san Francesco gli piaceva molto perché aiutava gli animali che avevano fame (un cronista scrisse poi su un quotidiano che Kerouac aveva detto: “San Francesco…ho fame”; e questo equivoco può esemplificare la reazione della stampa italiana alla farsa in cui degenerò, a sole spese di Kerouac, un’iniziativa pubblicitaria editoriale)».
«La bohème degli anni Cinquanta» dice Norman Podhoretz era «ostile alla civiltà; venera il primitivismo, l’istinto, l’energia, il “sangue”. Ma già allora, nei primi giorni del 1958, mentre lo stavano leonizzando a New York, Kerouac cercava di sfuggire allo stereotipo che lo avrebbe ucciso.
Podhoretz, però, per criticare il nostro a proposito delle fascinazioni mitizzanti legate al suo ‘primitivismo’ «disse che “i neri non sono felici, come osi dire che sono felici”. Ma Kerouac non intendeva felici, come economicamente felici. Intendeva dire che c’era dell’integrità legata alla loro sofferenza, un’integrità consapevole, diversa da quella del mondo bianco che era più falso e plasticato». A suo modo Kerouac cercava l’integrità dell’essenza umana. Sempre.
Michel Onfray per fare un ritratto di Henry David Thoreau ha scritto che «il bambino fornisce la trama all’adulto e Thoreau passa la propria vita a cercare di non tagliare i ponti con la propria infanzia. Il suo ideale è la libertà del bambino: costruire capanne, pescare negli stagni, risalire i fiumi in barca, camminare nei boschi, guardare il mondo tra le proprie gambe, arrampicarsi sugli alberi, fare il bagno nelle acque del lago Walden in qualsiasi stagione… Niente dà più gioia all’adulto che è diventato…». Questo ritratto si potrebbe adattare molto bene alla vita dello scrittore di Lowell e alla sua fiducia istintiva in sé stesso e nel lettore, fiducia che punta anche a trasformare l’ethos del proprio interlocutore, mentre tenta di dire-il-vero.
La biografa di Kerouac, Ann Chartres, nel documentario What Happened to Kerouac, ribadisce il fatto che Kerouac «conosceva l’individuo e l’individualismo, anche per questo ha amato Neal Cassady» e il miracolo dell’istinto essendo simile ad un suonatore di jazz fedele alle sue emozioni.
Ripercorrendo allora gli eventi legati alla sua presenza a Milano abbiamo l’occasione di ‘toccare il cuore delle cose’, o almeno avvicinarci, entrare nelle profondità di un fare letterario e un ‘essere’ umano: «Kerouac era davvero un genio solitario, innovativo e proiettato verso territori del componimento ancora sconosciuti e non cartografati, in completa solitudine. Non solo non era sostenuto dalla “società”, ma nemmeno dagli amici, dalla moglie, dalla madre, da nessuno. […] era semplicemente imprevedibile e [come agente, dice Ginsberg] mi preoccupavo di venderlo da qualche parte. Quella fu una lezione traumatica sulle condizioni delle vera arte».
Jack Kerouac – in quella situazione – potrebbe aver rappresentato per noi il «santo pagliaccio» – come si è definito lui stesso – che ha recitato la parte di un uomo che arriva al limite per lasciarci il senso di un’esperienza, e un tentativo di ‘educazione poetica’ dell’uomo in un contesto complesso, saturato già dalla mentalità culturale consumista americana, da Hollywood, dalla radio, dalla televisione, dalle nuove riviste a cui si abbeveravano gli intellettuali che erano così superficiali nelle proprie ambizioni spirituali che qualsiasi affermazione elementare, anche se camuffata in termini bohémien, era per loro una rivelazione.
Anche per questo «non fu mai preso sul serio da vivo, perché [costoro] non guardavano ciò che contava davvero, il lavoro, ma l’immagine del personaggio».
Kerouac ha recitato allora, come un adepto in cammino verso lo zen, una parte da ‘non resistente’ ma contemporaneamente anche una parte da uomo ‘resistente’, dedito alla rinuncia, rifiutando di essere sottomesso, e con la vocazione all’anarchia e all’assoluto essendo costantemente immerso in ‘campi di battaglia’.
Il nostro allora decide di posizionarsi dall’altra parte rispetto a chi organizza imboscate, assalti, scontri e offensive. E quindi – in qualche modo – sempre contro sé stesso divenendo perciò attore che si costituisce anche come soggetto etico. Arbasino, riferendosi alla presentazione romana, fu di tutt’altro parere ed ebbe una ‘lettura’ alquanto differente, scrivendo su L’Espresso: «Tutto sommato (…) è una furia inoffensiva. Ogni volta che gli si butta lì un nome, alla fine vengono fuori delle mitezze» .
Nei tempi della modernità democratica e capitalista Kerouac sa fin troppo bene che «il grand’uomo è colui che segue solo la propria strada» ricercando – testardamente – sé, essendo costantemente esposto alla vita risolvendo la sua ricerca in una nuova avventura.
A tutto ciò fa da trait d’union la pratica della scrittura spontanea e della grande fascinazione per una vita on the road. Bisogna chiedersi ora quanto il narratore americano sia stato consapevole del fatto che il nomadismo è la delusione dei forti che rifiuta il gioco fittizio delle illusioni evocate come sfondo protettivo, che il nomadismo è la capacità di disertare le prospettive escatologiche per abitare il mondo nella casualità della sua innocenza, non pregiudicata da alcuna anticipazione di senso, dove è l’accadimento stesso, l’accadimento non inscritto nelle prospettive del senso finale, della meta o del progetto, a porgere il suo senso provvisorio e perituro.
E se dunque Kerouac quella sera milanese non puntasse le proprie energie verso l’abisso della perdizione delle droghe e del nichilismo, ma mirasse verso l’alto, verso una forma di conoscenza, in qualche modo affine ad un personale rifiuto della modernità consumistica?
Forse il suo radar è puntato verso una sorta di intuizione del dolore, della transitorietà e del vuoto che predomina anche in Sulla strada e negli scritti successivi, che in seguito diventano la vanità di Kerouac, come si vede in Vanità di Duluoz.
La sua visita in Italia è stata anche e soprattutto il riconoscimento del «vuoto delle proprie ambizioni, la vacuità dei suoi sforzi di diventare un importante e solido scrittore con il camino e lo scrittoio nella biblioteca, una casa in campagna e una finestra panoramica su un giardino del Connecticut. Il vuoto di quella fantasia con quel tipo di karma, per sé e i suoi amici».
Allen Ginsberg scrisse come «Kerouac rinunciò del tutto (…) intorno al 1950 circa. Aveva già scritto un monumentale romanzo di formazione borghese, ben accolto, La città e la metropoli. Era già un acclamato giovane romanziere promettente e gli editor di New York erano tutti innamorati di lui. Era affascinante e giovane, quindi avrebbe potuto costruirsi una bella carriera da romanziere, invece decise di scrivere quello che gli passava per il cervello piuttosto che compilare un modulo, come ci si aspettava che facesse, per essere recensito sul New York Times».
Come credo ora sia più chiaro, a Jack Kerouac non importò nulla di quella ‘realtà’, bensì la sua unica e vera preoccupazione «era di raggiungere le fondamenta della mente stessa».
Fra tanti maestri di vita che gli indicavano strade opposte Kerouac si è ucciso cercando di difendere la strada che si era scelta da sé, quella dell’energia vitale, dell’energia creativa, dell’energia espressiva. Dello scantonare da una prospettiva di vita assuefatta e chinata verso modi ‘comuni’ di vivere e decisi da altri. «Resterà questo probabilmente il più commosso ricordo di uno scrittore-poeta stritolato dalla sua società».
Alessandro Manca
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La beat generation italiana: ribellione, visione, scritture
di Luigi Cannillo
La Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma ha ospitato recentemente la mostra fotografica e documentaria “Beat Generation. Ginsberg, Corso, Ferlinghetti – Viaggio in Italia” a cura di Enzo Eric Toccaceli che ha scattato le fotografie in bianco e nero esposte e corredate da un ricca documentazione di vinili, manifesti, inviti, locandine, ritagli stampa relativi a incontri e performance dalla fine degli anni Settanta fino agli anni più recenti. L’idea della mostra risale al 2017, nel ricordo di Allen Ginsberg, a venti anni dalla sua morte, e del centenario della nascita di Fernanda Pivano.
Non viene qui esplicitamente citato Iack Kerouac, considerato universalmente uno dei padri della beat generation, uno dei primi a effettuare un viaggio in Italia nel 1966, 3 anni prima della morte. Ma i giovani autori dell’underground italiano, recentemente raccolti nell’antologia I figli dello stupore, riconobbero in lui e negli altri autori della beat generation nuovi maestri contemporanei.
I figli dello stupore – La beat generation italiana – a cura di Alessandro Manca, contenente un DVD dell’omonimo film a cura di Francesco Tabarelli, Ed. Sirio, 2018, coglie negli anni 1966 e 1967 il culmine dello sviluppo della scrittura creativa del movimento underground italiano, sia in poesia che in prosa che in forme di contaminazione e ibridazione tra i due generi letterari. Il DVD contiene immagini e filmati di repertorio a partire dal periodo del dopoguerra e del boom economico fino alla svolta: le nuove inquietudini, le letture, i primi viaggi all’estero, lo sviluppo di pensiero critico, la pubblicazione nel 1964 della fondamentale Antologia dei poeti americani curata da Fernanda Pivano. Si sviluppò insieme agli eventi economici e-culturali la ricerca di un nuovo stile di vita rispetto alle convenzioni e alle apparenze piccolo borghesi. In particolare i capelli lunghi nei ragazzi divennero simbolo di trasgressione, anticonformismo e nuova identità, e molto spesso di antimilitarismo e antiautoritarismo, tutti elementi condivisi con i padri della beat generation americana. Nascono così nuovi luoghi d’incontro, il consumo di droghe leggere e le esperienze psichedeliche, la nuova stampa underground e l’impegno politico sociale che porta inevitabilmente a scontri accesi con le istituzioni e con l’opinione pubblica benpensante. Nel video sono essenziali il commento e la presentazione di alcuni tra i protagonisti di quegli anni, antologizzati nel volume: da Gianni Milano a Gianni De Martino da Carlo Silvestro a Ivano Urban. Anche attraverso le loro testimonianze si ricostruisce lo scenario nel quale il corpo diventa strumento di comunicazione e rivendicazione individuale e collettiva e la scrittura una attività diffusa che rispecchia bisogni emotivi e culturali oltre che strettamente estetici. Da una definizione di Gianni Milano riferita a quella generazione nasce il titolo del volume: “Figli dello stupore che volevano vivere nella natura e non volevano fare i soldi”.
Vale la pena di ricordare alcuni eventi significativi di quei due anni che possono farne comprendere il clima generale nel quale si sviluppa il movimento underground. Nel 1966, in gennaio, viene liberata Franca Viola, la prima donna italiana a rifiutare il matrimonio riparatore con il proprio rapitore e violentatore. A febbraio il giornalino studentesco La zanzara, del Liceo Parini di Milano, pubblica un’inchiesta sulla posizione della donna nella società creando uno scandalo di dimensioni nazionali. Nel marzo viene decretata l’abolizione dell’Indice dei libri proibiti mentre in giugno gli Stati Uniti iniziano i bombardamenti sul Vietnam del Nord. In novembre Firenze viene sommersa dalle conseguenze di una terribile alluvione; migliaia di giovani fanno parte degli “angeli del fango” che contribuiscono a salvare i tesori artistici della città.
Nel 1967 durante il Festival di San Remo muore suicida il cantautore Luigi Tenco, viene pubblicata l’enciclica papale Populorum progressio sul rapporto tra sviluppo e crescita economica. In giugno esce Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles con le sue atmosfere psichedeliche. Che Guevara viene ferito e catturato e fucilato in Bolivia. In Olanda si scioglie dopo due anni il movimento dei provo, ecologisti antimilitaristi e non violenti.
Nello stesso anno, immediatamente collegata alla nostra tematica, risale la nascita del campeggio beat in via Ripamonti a Milano, ribattezzato anche in modo denigratorio “Barbonia City” o “New Barbonia” nel quale si cercano di creare nuove forme di convivenza organizzata. I giovani capelloni si danno appuntamento su un terreno accanto al torrente Vettabbia, regolarmente preso in affitto. Facile da raggiungere, sembra ideale per “costruirci” un campeggio beat. Il 30 aprile 1967 Melchiorre Gerbino e Umberto Tiboni, tra i leader della rivista «Mondo Beat» invitano redazione e sostenitori a prendere possesso del terreno. Oggetto di una campagna stampa accanita, accusati di immoralità, scarsa igiene, consumo di droga, omosessualità, i campeggiatori vengono sgomberati dalla polizia all’alba del 12 giugno 1967.
Per quanto riguarda il mondo della poesia di quegli anni il decennio si apre in modo innovativo con l’antologia I novissimi (1961) e, subito dopo, La ragazza Carla 1962 di Pagliarani. Nello stesso anno escono le Egloghe di Zanzotto, Giudici pubblica La vita in versi (1965) e Autobiologia (1969). Nella prima metà del decennio Pasolini ha pubblicato Poesia in forma di rosa (1964), Amelia Rosselli le sue Variazioni belliche (1964), Eugenio Montale Xenia (1966). Nel 68 Ungaretti raggiunge una vasta popolarità leggendo in televisione l’Odissea.
I figli dello stupore non nasce da un atteggiamento nostalgico verso quegli anni ma dall’impegno di ricerca e documentazione rispetto un periodo e ad autori ingiustamente “sommersi”e sottovalutati, con una proposta ricca di spunti critici e di riflessione. L’antologia, con la prefazione di Tabarelli e l’introduzione di Manca, è opportunamente divisa in tre parti: una prima sezione che comprende testi di prosa autobiografica, prosa poetica, narrativa o cronaca con tematiche molto varie, dal reportage politico al romanzo, dal saggio al giornalismo militante. La sezione B dell’antologia comprende materiale più strettamente letterario in tutta la gamma espressa dalla scrittura underground: strutture poematiche, prosa ritmica, riduzione della punteggiatura, uso del flusso di coscienza, della prosa spontanea così caratteristica di Kerouac, della ripetizione, delle anafore, l’utilizzo creativo della grafica del testo, l’accentuato tono “parlato” e discorsivo e, di converso, quello fortemente lirico e retorico; il ricorso al simbolo, alla metafora, all’allegoria anche allo scopo di aggirare la censura. Dei tanti autori antologizzati ricordiamo in particolare “pasticca” Eros Alesi che, fra questi, si è affermato in ambito poetico nonostante la morte precoce, avvenuta a soli vent’anni, nel 1971. Oltre a Gianni Milano, Gianni De Martino e Carlo Silvestro hanno continuato una attività di scrittura autori come Aldo Piromalli, Silla Ferradini, Andrea D’Anna e Bruno Lugano, comunque spesso senza un adeguato riconoscimento editoriale. Le tematiche dei testi riguardano le periferie, l’uso degli allucinogeni, o i viaggi sfondo mistico-religioso, puntano su una definizione identitaria personale e collettiva. In alcuni autori la poesia assume il tono dell’invettiva, della ribellione, dell’antagonismo sociale, spaziando da toni più intimistici e rarefatti a quelli più rivendicativi. Frequente è negli autori l’uso di pseudonimi, semplici nomi o appellativi anziché nomi e cognomi. La componente femminile è percentualmente minima ma qualificata nei versi di Tella, Giovanna o Gora Devi.
Molto interessante è la terza parte del volume con un Epilogo che considera in prospettiva la conclusione dell’esperienza della beat generation italiana, sostanzialmente collocabile dopo il Sessantotto. La componente libertaria non violenta viene sopraffatta dal dogmatismo, molti autori preferiscono cercare il proprio equilibrio esistenziale nei viaggi, in particolare in Oriente, in India. Oppure finiscono per smarrirlo nel successivo diffondersi dell’uso delle droghe pesanti. Altri proseguono il proprio percorso personale/politico nella galassia della Controcultura. Resta valida la domanda di Alessandro Manca alla fine della sua introduzione: “Quella solidarietà dov’è finita? E la vita?” Mentre l’impegno politico si avvierà verso gli anni di piombo, il terrorismo di stato, e successivamente il mondo patinato degli anni 80, Tangentopoli e la seconda e terza Repubblica, dal punto di vista letterario l’ampio e impetuoso ma breve fiume della poesia della beat generation italiana si disperderà in esperienze più isolate o perfino, per molti, una volta mutato il contesto che aveva originato la scrittura, nell’abbandono della poesia come attività letteraria.
Per quanto riguarda nello specifico i luoghi della beat generation, e in particolare Milano, là dove immaginiamo si compia la nostra ideale staffetta tra Jack Kerouac e i poeti del beat italiano, bisogna osservare che la città è, con Torino Roma, la Toscana, uno dei luoghi significativi del movimento anche come sede di edizione e di redazione di alcune riviste rappresentative come Mondo Beat e Pianeta Fresco, che in quegli anni fungono da centro di aggregazione e laboratorio di pensiero.
A Milano la mappa del beat riguarda come si è detto, il campeggio beat in via Ripamonti del quale si è parlato in precedenza. Una cronaca effervescente e appassionata a riguardo viene scritta Gianni Ohm (Gianni De Martino), attualmente attivo come giornalista, consulente editoriale e saggista. Qui di seguito un breve estratto da “Mondo beat”, a titolo esemplificativo:
OPERAZIONE STERMINIO
IL COLPO DI MANO DEL SID (servizio immondizie domestiche STA PER SCATTARE
ORA X:
Cento poliziotti armati ginocchioni nell’erba e nei secoli fedeli attendono trattenendo il respiro accerchiamo gli ordini vengono dati con radio da campo IRROMPONO buttano giù le tende maltrattano inquisiscono trasportano insultano cellulari pantere sirene carabinieri squadra omicidi simpatici agenti meridionali isteria.
NOI serafini assonnati annoiati li seguiamo. Qualcuno si butta per terra non sente non vede lo trascinano fino al cellulare
VIA FATEBENEFRATELLI
gridano i milanesi accorsi a stormi per incitare applaudire benedire consigliare
AMORE DI PATRIA
APPLAUDONO
[…]
Nell’antologia, tra i testi dello stresso autore, una piazza Castello teatro di un comizio post-sgombero (firmato con lo pseudonimo di Argo)
Tra gli autori di area milanese ricordiamo poi Maurizio Orioli :“SENZA PAROLA LA GOCCIA SEME DEL MONDO CADE/ TRABOCCANDO VERSO LE PORTE DEL PIANTO/ IL LACCIO STRINGE LE TUE TEMPIA E LA CATAPULTA/ DEI SEMI SCIVOLA SU TAVOLOZZE VORAGINE DI TE STESSO/ GRIDA/ GRIDA/ GRIDA”, e Gora Devi, pseudonimo di Valeria Bonazzola: “Avevamo deciso con i Palumbo di costituirci come gruppo provocatorio e di rottura, organizzando degli spettacoli di strada. Dal movimento giovanile in America arrivava un nuovo invito interessante: cercare di cambiare la società dall’interno, offrendo un esempio di vita alternativa, testimoniando e mostrando la propria diversità”.
Di Silla Ferradini, scomparso recentemente, autore de I fiori chiari. Il romanzo della beat generation milanese dal ‘66 al ‘69, viene riportato anche un l’estratto da “Il pilota” da I fratelli Ferradini. “300 metri 200 100, scendeva dai 270 ai 160 all’ora, staccava frenava cambiava, impostava la traiettoria in un punto preciso, entrava in curva pattinando con le ruote che raschiavano l’asfalto, usciva al limite dei giri, cambiava di nuovo, poi la lunga strada diritta. […]. Renzo Freschi appare invece con il suo sinuoso e visionario Volo segreto: “Un volo segreto/ tra le fontane azzurre/ filtrare nel muro/ delle nubi piatte/ come blu riflessi/ dalle luci/ dietro l’orizzonte/ della coscienza/ Succhiare la stanza/ nell’occhio dei pensieri/ le voci/ del mio tappeto ubriaco/ con la musica da eco/ nelle parole piene di riflessi/ di antiche giostre danzanti/ nelle urla di domenica sera./ […]
Per rispondere infine alla domanda del curatore Alessandro Manca (“Quella solidarietà dov’è finita? E la vita?”) si può osservare che, se la solidarietà generazionale è finita forse I figli dello stupore ha il pregio di rianimare quel “desiderio dissidente” che nelle generazioni successive si è trasformato, sviluppato, apparentemente arrestato, sotterraneo come un fiume carsico. E l’antologia con i suoi tanti contributi ha il pregio di riportarne alla luce i tanti rivoli e attualizzarne e ravvivarne le problematiche.
Luigi Cannillo