IL FLUSSO VITALE, IL CANTO E L’UTOPIA
nella ricerca poetica di Arrigo Colombo: Sull’estrema soglia (Lietocolle 2011)
Adam Vaccaro
Se un testo poetico “non si muove”, per Alfredo De Palchi non è poesia. Condivido e credo che ciò valga per ogni tipo di scrittura. Nella poesia di Arrigo Colombo, la verifica è facile, basta un qualunque brano di questa sua ultima raccolta di poemetti, Sull’estrema soglia, per essere investiti da subito da un flusso di moto e di canto.
Vediamo i primi versi del poemetto iniziale, Il viaggio, lemma di per sé antitesi di stasi:
“L’autunno era giunto, la sua luce estrema
alberi e foglie in luce trasfusi
trasumanati disciolti
in pura luce
vibrava l’aria
splendore
in cui l’uomo si sperde ormai”
L’abbrivio dell’alessandrino designa già con i due settenari i poli di senso del poemetto: due coppe o semicerchi di un unico moto in equilibrio tra “autunno” e “luce”. Il tema enunciato non declina perciò in tempi lenti e malinconia, ma sfocia in accelerazioni ulteriori con analessi di “luce”, termine ribattuto come un chiodo ben tre volte!
Il flusso preme e non consente virgole o altre cesure intermedie, fino a raggiungere il suo acme con versi franti che rendono plasticamente gli ansimi via via più acuti, dall’endecasillabo al settenario, a quinari e al ternario. Forma e contenuto inscindibili per condurre senso di vita che non si arrende.
In versi successivi, infatti: “E indugia l’uomo mentre passano gli anni/ già gli anni sono lontani/ in questo lembo di giovinezza estremo/ […] Lui il fallito eroe/ del grande sogno l’eroe del labirinto/ […] l’impotenza è l’estrema risorsa”. Le varianti qui ribattono e oscillano tra segni e sintagmi quali “fallito eroe” ed “estrema risorsa”, estratta quest’ultima da uno stato di fallimento e di impotenza!
Il moto è in un flusso incessante di una forma di canto (che diventa il suo stile), tra passi e variazioni di un percorso barocco e labirintico, che non si può fermare ma solo continuare all’infinito. Continuum che diventa negli ultimi versi un fuoco di fila esaltante, portato da analessi, epanadiplosi e epanalessi, forme della ripetizione consone a tutto il contenuto condotto.
L’infinito non è fuori ma dentro chi scrive e lo trasferisce nel testo, che con questo si rinnova e ritrova, toccando il limite estremo: termine che è crisma della raccolta, nel titolo così come nel primo verso e nell’ultimo del poemetto. Da tale limite pone e inventa forma e senso della sua scrittura. Collocato non in un altrove, ma innervato nei moti profondi del circuito vitale. Ed è qui che ritrova nel canto, dopo ogni fallimento un nuovo inizio, dopo la morte la potenza inarrestabile della vita.
Il limite estremo non è avulso dal quotidiano, è la misura del ciclo, del cielo, per cui in esso si fonda il pensiero dell’utopia, non come declamazione astratta, ma come necessità concreta del vivere.
In tale fenomenologia, si pone la domanda: quale canto? Per ulteriori risposte, citiamo qualche verso dai poemetti In morte della madre e dal successivo Di Adamo il ricordo. Frammento.
Dal primo: “Silenziosa stavi adagiata composta” mentre “in rosso di garofani/ la stanza ardeva”: più avanti: “Qui la notte traspare di luce profonda, il cielo/ in luce profonda splende, in silenzio/ arde il cielo”; e nel finale: “Di vita mi s’inebria l’anima/ di stupore trasale su la soglia/ dall’orlo dell’abisso strappata/ […] dall’immenso portata, effusa/ nell’immenso” (pagg. 21-24).
Dal secondo: “Questo è il canto di un’età remota”; “ed era la neve sui rami/ un fulgido scialle una sciarpa di freddo/ candido splendore”; “E uscì Adamo e sul margine una gloria lo avvolse/ di accecante luce travolto…/ di luce immenso”; “l’erompere di un’immobile fiamma/ di un vortice di tempesta calmo immenso”; “di luce ardono tizzoni in cui balugina/ palpita di un’anima di fuoco l’impronta” (pagg. 27-29).
È un canto fatto di grani di fuoco che crepitano intorno a una incessante araba fenice di calda rinascita, carica di luce che si contrappone costantemente a tutto il freddo, l’ombra e il buio, quali metafore del male che, come il bene, opera anch’esso dentro di noi – meno, o solo a tratti, richiamata l’entità creatrice esterna, pur indiscutibile per l’Autore, da cui proveniamo.
Ecco, anche nella fede indubbia che sostiene la visione di idee di Arrigo Colombo, mi sembra di poter dire che la presenza del Creatore invisibile è immaginata nel gesto dell’Inizio – vedi appunto il poemetto su Adamo – come “gloria gelosa, potenza solitaria, artefice sdegnoso”. Un frammento tutto svolto e acceso da una grande capacità visionaria dell’Inizio. Dopo di che tutto è nelle nostre mani, o nel flusso vitale in cui siamo; per questo non troverei contraddittorio il richiamo a una concezione laica e fenomenologica, quale la mia.
A una partenza parmenidea e ontologica, si innesta dunque – a livello sia estetico che di ricerca, di relazione con la totalità della vita – una concezione eraclitea e fenomenologica?
Risponderei positivamente. Anche perché tutto il processo – vita-morte-rinascita – non è descritto come dall’alto, cerebrale, ma viene trasmesso con colori, calore e canto, sentiti e vissuti dal Soggetto Scrivente con tutto il corpo.
L’utopia rincorsa è perciò innervata, in primo luogo, in una capacità molto particolare di nostos, di ritorno visionario all’inizio – che può essere la madre o Dio – quale fonte di ripresa di energie per rinascere e proseguire. Dal bordo del nulla, balugina e insiste – come rileva anche Guido Oldani nella sua prefazione – il canto e la voce di resistenza del poeta-profeta. Novembre 2011