Stefano Vitale – L’oltre e l’altrove della Poesia

Pubblicato il 29 gennaio 2022 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Stefano Vitale, Si resta sempre altrove, puntoacapo, 2022

Domande aperte oltre l’eclissi del senso
Adam Vaccaro

Questo libro di Stefano Vitale è profondamente innervato nel terreno della crisi del senso in cui si dibatte il soggetto occidentale nella fase storica, sociale, economica e culturale, definita spesso con un termine sommario quale postmoderno. Da parte mia preferisco riferirmi altrimenti a questa fase di cambiamenti epocali o capitali – e uso questo termine non a caso –, in quanto tali mutamenti hanno radici nella nuova struttura che ha assunto il capitalismo a livello globale nel corso degli ultimi cinquant’anni.
Sono mutamenti che hanno accentuato il processo di finanziarizzazione e globalizzazione, corredato da innovazioni tecnologiche digitali e da una trionfale ideologia di pensiero unico, che pretende di azzerare ogni precedente ideologia. È un contesto che accentua crescita esponenziale di disparità tra una èlite ridottissima e masse planetarie sempre più povere, e controlli digitali che giustificano definizioni quali capitalismo della sorveglianza. Ma l’ideologia della fine di tutte le ideologie, che ne è il portato sovrastrutturale, è la geniale elaborazione che rende invisibile come l’aria il dominio in essere, che riduce la possibilità di vedere un oltre l’orizzonte percepito, e tende a cancellare diversità e profili, fonti necessarie di costruzione di quel crinale costituito da senso del sacro e del senso.
Testi e forme di questo libro si misurano con la crisi antropologica generata da tale processo complesso, che coinvolge, prima che strutture socio-economiche, capacità di elaborazioni critiche e di visioni altre di idee.
“Si nascondono le cose in piena luce/ misteriosa eclissi nell’evidenza di sé/ scolpita nel fulgore dei contorni// eppure tesa è la volontà del dire/ ribelle presenza che si oppone/ al grumo malefico della natura// volgendo lo sguardo verso la sera/ è sangue che lava il segno del fuoco/ e scalda la terra con la mia cenere”.
Il respiro dei versi qui si distende in ritmi alessandrini, più o meno lunghi, ma sempre in ritmi connessi a un andamento ieratico, di solennità e sacralità, che declina uno smarrimento entro un orizzonte che pur “in piena luce” non fa vedere le cose: una “misteriosa eclisse” domina e abbaglia col suo fulgore, accecando e insieme togliendo la capacità di parole che danno nome a tali cose – il che fa sottolineare ad Alfredo Rienzi in Postfazione che “luce” e “parola” sono tra i vocaboli più usati del libro.
Sono versi di cui il contesto è co-autore di sensi complessi, che cantano il dolore del “sangue” nel fuoco in cui brucia un Soggetto Scrivente non arreso al silenzio di morte, resistente con la sua “volontà del dire”, anche se il fuoco in cui si dibatte la nega e fa di essa alla fine “cenere”. Il testo, di p. 63, Giochi di luce, è in due parti, in cui la II tende a chiudere il cerchio; “Nel crepuscolo la luce ora disegna/ sul muro l’ombra delle foglie.// Sarà questa la giusta prospettiva,/ il giusto compenso del mio viaggio?”
Anche se il titolo pare alleggerire, resta un canto funebre (di cui il Piccolo Requiem finale, dedicato al padre e richiamato anche nella prefazione da Alessandro Fo, ha valore simbolico dei sensi di tutto il libro) su mancanza e impossibilità di vedere, dire e articolare possibilità non contemplate dall’ordine totalizzante che disegna la fine della storia e rende folle ogni ipotesi di Altro e Oltre.
Sono corollari di tali postulati, sia una hybris che abbatte limiti tra mondano e sacro, sia un universo liquido cui non interessano identità specifiche. L’evidenza del sé del singolo resiste, ma senza un cambiamento radicale del contesto, il suo destino è di ridursi a un’ombra come quella di una foglia sul muro nella luce breve di un crepuscolo, con una domanda aperta che è una sorta di urlo attutito, della necessità di non smarrire ogni barlume di senso, per quanto difficile, oggi possibile.
Una domanda che fa riemergere in noi la chiosa shakespeariana, sulla condizione umana fatta della “stessa sostanza dei sogni”. Ma nel Bardo di Avon era l’amore ad accecare e a trasfigurare il mondo in sogno, qui è la banalità di un contesto mascherato che ci rende ombre di noi stessi. Tuttavia il libro non è un canto arreso e nichilistico. Come nel testo richiamato, (im)pone domande aperte e un eppure alla nostra responsabilità antropologica: “prima d’imboccare un’uscita,/ la via giusta o sbagliata che sia/ nessuno lo sa né mai lo saprà.” (p. 82); “Eppure son certo/ che nel riflesso improvviso del sole/ sul lucido dorso del mare/ ci ricorderemo d’essere stati/ un istante felici” (p.83). Felicità rubata, anche grazie all’esercizio ”pensante” della poesia, “in una dialettica “tra qui e altrove” (nella postfazione dell’Autore), che le arroganze e pretese della imperante totalizzazione non riescono ad azzerare.

Adam Vaccaro
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One comment

  1. Laura Cantelmo ha detto:

    Interessanti questi testi citati, pulsanti e dolenti. Vi domina il disinganno di coloro (cioè noi) che vivono in questa stagione che attenta ogni giorno alla umana capacità di resistere.
    Grazie anche ad Adam che ne ha illustrato sapientemente la bellezza e il senso profondo

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