Se ben ricordo – M;ariella Parravicini

Pubblicato il 30 gennaio 2025 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Mariella Parravicini, Se ben ricordo, puntoacapo ed., Pasturana (AL) 2024

Nota di lettura di Laura Cantelmo

Nell’abbandonarsi a Mnemosine – alla memoria – come si addice a una grecista, Mariella Parravicini ci dona questo poetico testo nel quale vibrano i toni sommessi e le sfumature di una voce narrante. Una vera phoné, piena di delicati sussulti, con le modulazioni di un racconto serale, prima di abbandonarsi al riposo, popolato da inconsapevoli sogni infantili e da comprensibili incubi, per gli adulti. Un tempo, durante il quale ci si scambiava pensieri e ricordi attorno ai camini o alle stufe, nelle terribili notti di quegli inverni di guerra, noti come i più freddi del secolo scorso. C’è la nostalgia di un’intimità ormai rara, che non vuole distruggere il presente, ma trova la forza di vederne i semi in quel passato, che certamente non fu rose e fiori. Di conseguenza la narrazione oscilla tra un passato felice e un presente malinconico, tra sogno e realtà.
Se ben ricordo è il memoir di una ragazza perbene (mi si consenta la citazione da Simone de Beauvoir). Un’esistenza normale, non propriamente banale, se consideriamo che i primi anni di vita attraversano la Seconda Guerra Mondiale, vissuti da lei, milanese, in campagna come sfollata, in fuga dalle bombe che radevano al suolo le città. Benché neppure lì fosse garantita la pace, la campagna diveniva uno spazio mitico per bambini, lasciati alla felicità di scorrazzare a perdifiato per aie e campi, alla ricerca di luoghi che la fantasia arricchiva e rendeva fiabeschi, mentre la corte – l’aia- era, per Mariella, “scenario delle mie emozioni e passioni”, il suo palcoscenico.
Un paese di pianura, nella Lomellina, al confine tra Lombardia e Piemonte, dove Mariella assaporava una felicità pura, lontana dagli orrori, possibile solo nella mente infantile, che si prolungò nel dopoguerra, per il periodo estivo. Lo sguardo di allora trova delle affinità con l’oggi, rivivendo intensamente il mito dell’infanzia, con arcane venature di sacro. Figure di nonne, di zie e zii che consentivano libertà impensabili in famiglia, a Milano: la Zia Rita “gemella eterozigota” della madre, dolcissima e ricca di una sua tranquilla filosofia, a differenza della sorella, più rigida e formale, “el Ziu Gasparin”, figura tipica delle campagne, ma non per questo scialba, emigrato in Sud America e al ritorno, silenzioso, nel suo mantello nero, frequentatore dell’osteria fino a ora tarda. Dominante, inavvicinabile e pieno di mistero, l’Autrice, turbata da quei silenzi, lo definisce “spirito divino della casa”.
E poi le campane, che oggi inducono alla malinconia perché segnale di lutti e perdite, invitavano al Vespro, celebrato con la grandiosità del canto gregoriano. La presenza dei Tedeschi, visti inizialmente come numi tutelari – le donne che li frequentavano alla fine del conflitto scontarono quella consuetudine con le teste rasate a zero, punizione riservata ai collaborazionisti., La proiezione in miniatura dei grandi drammi del nostro paese, dentro un paesino di campagna. Infine, la piazza, che di sera, nel dopoguerra, si popolava di crocchi di donne, a chiacchera, sotto nuvole di falene che danzavano intorno ai lampioni.
Persino la morte, inesistente per una mente infantile, era vista senza drammi. Nel dopoguerra, finanche i funerali di Gasparin offrirono una ammaliante spettacolarità, con le bandiere rosse sventolanti nel corteo funebre – perché lui era comunista- definizione a quel tempo incomprensibile per i bambini. Immagini ed impressioni che Mariella si porterà dentro, fino a quando, da adulta, individuerà nel teatro la passione della sua vita. Infine, il divertimento delle balere, dove si apprendevano i “codici intriganti delle danze”, avendo presente il monito della Zia Rita, secondo il quale “i omen” erano soggetti con cui giocare alla provocazione, ma inaffidabili e tutti uguali. Una scuola di vita per imparare a difendersi dalle trappole della seduzione, in una sorta di malizioso brio mozartiano o rossiniano, tra il serio e il faceto – “Vorrei e non vorrei”, oppure “Ma se mi toccano dov’è il mio debole…”.
Forse fu quell’alata riserva di spirito mitico che, al rientro in città, diede a Mariella, elegantemente vestita dagli abiti di sartoria della Zia Rita, la capacità di scovare la poesia un po’ dappertutto, trasferendo sulla pagina versi leggeri e spontanei, ora in italiano, ora in dialetto milanese, frutto di brevi, impressionistiche emozioni che ritroviamo qua e là, nel racconto.
Quei momenti di felicità dell’infanzia ricompariranno talvolta anche a Milano, in uno degli angoli più suggestivi, dove si trova la sua casa attuale, di fronte alla facciata della storica Basilica di S.Eustorgio, con le sue severe linee romaniche, che svettano tra gli alberi e i voli dei piccioni, dietro a cui, anche lì, nelle notti serene, occhieggia la luna.
Milano, via Stendhal, residenza dei suoi genitori. Un palazzo con scale di marmo bianche, mai viste, dove “il Parravicini”, suo padre, fine cesellatore, viveva con la madre, divenne il luogo del dovere scolastico, dei freni imposti dalla madre, che si alternavano alla gioiosa libertà delle estati in campagna, dove la luna splendeva più bella che mai. Milano, ancora dolente, devastata dalla guerra, al tempo in cui un’adolescente come Mariella, sognando la felicità, andava da casa a scuola e ritorno, intrecciando amicizie e sognando l’amore. Scale di marmo, che un giorno lei scese, vestita da sposa.
La vita ha sedimentato in Mariella – ormai non più la bimba campagnola dalle guance rubizze – un quoziente di felicità e di sguardo sull’Altro, che l’ha sempre soccorsa nel superare il dolore, la perdita e l’assenza, aprendola a quel po’ di bellezza riservato dalla vita, come riflesso di quel vissuto lontano.
Anche il teatro, attraverso il quale Mariella avvicinava al mito greco gli studenti del Liceo classico dove insegnava, la faceva sentire adiacente alla felicità nel suo appassionato lavoro di regista, di fronte al sorprendente livello dei risultati raggiunti dai ragazzi.
E sta proprio in quel far parlare Mnemosine – i ricordi- il filtro magico grazie al quale la felicità trascorsa riesce ad attenuare la malinconia del tempo che fugge. Se letto silenziosamente, quel vissuto può apparire “normale”, ma grazie alla potente intensità della memoria, la voce che giace muta sulla pagina diventa racconto confidenziale tra intimi, phoné, colonna sonora di una intera vita, a cui riuscirà persino a dare maggior senso.

Laura Cantelmo
Milano, 5 Dicembre 2024

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