Per conoscere Dante Strona

Pubblicato il 25 aprile 2024 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Per conoscere DANTE STRONA,

Poesie sulla Resistenza, Istituto per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia, Varallo 2023

Nota di lettura di Laura Cantelmo

Raccogliere testimonianze dirette sulla Guerra di Liberazione come materiale vivo, intriso di sangue, di morte, ma anche di tensione al cambiamento e di palpiti felici, può servire a ravvivare i cuori e a indicare alle nuove generazioni un cammino difficile, ma fondamentale a costruire la società futura, quello dell’Utopia, della passione che dà senso alla vita. Un cammino come quello di coloro, che, spesso giovanissimi, in quel momento storico dominato dalla tragedia, scelsero di opporsi alla dittatura, ai disvalori, a una propaganda malsana, ben consapevoli del rischio mortale che correvano. Abbiamo letto, in molti della nostra generazione, quando ancora la narrazione di quel passato era incompleta, le lettere dei condannati a morte, i racconti della deportazione, i romanzi ispirati alla Lotta di Liberazione -testi che ci lasciavano ammirati ed allibiti per la forza d’animo e la determinazione di chi, conoscendo da vicino la tortura e la morte, sfidava la paura e il dolore con l’orgoglio di chi sa trovare una luce, pur nel buio profondo della tragedia.

Molte sono state le narrazioni in prosa, ma vi furono anche poeti, alcuni dei quali entrati nella Storia della Letteratura del Novecento, che seppero rispondere alla necessità di combattere, derivante da una guerra terribile contro il male assoluto e al contempo di elaborare il dolore e l’angoscia attraverso la poesia. Uno di questi, Dante Strona (1923-1982) poeta nativo di Biella, zona di furibonde battaglie partigiane, fu attivo nella cosiddetta “guerra per bande”, tra coloro che percorsero sentieri di montagna e valli nel Piemonte settentrionale e nell’Ossola, offrendo con dedizione la vita: “Ma bisognava morire”. Pur restando immeritatamente sconosciuto, se non entro una cerchia ristretta, Strona viene riproposto oggi a una platea molto diversa da quella che lo conobbe e lo apprezzò in vita, ma ancora esigua, data la notevole levatura del suo talento poetico, animato da una passione epico/lirica ispirata dalla visione di una Città futura che illuminò la sua vita. Passione certamente condivisa, che Strona (1923-1988), seppe tradurre in versi che eludono qualsiasi velleità sperimentale e che restano tra i più intensi, raffinati nel linguaggio ed emotivamente struggenti, dove i ricordi assumono un’aura fiabesca:

” Vi fu un tempo, una stagione, /senza gnomi nei boschi/e alcove di luna fra gemme/di mirtilli/nacquero silenzi/impossibili e crebbe l’ombra/come velari di lutto/appesi agli angoli del cielo/…/Furono lunghi giorni di fuoco/per roghi di libellule azzurre /…/la Libertà costellava di pietre /scritte i sentieri; ferivano/ le parole un sogno di pane.” (“Come una leggenda”).

Poeta della “causa”, a cui egli stesso si offrì senza mezzi termini, come solo alcuni giovani sanno fare, Strona fu anche poeta della natura. Quel territorio boschivo, che invade le strette valli torrentizie del Biellese, vive nei suoi versi come paesaggio dell’anima, suolo materno da espugnare al nemico, vissuto con un forte sentimento di bellezza, capace di esaltare il più sottile filo d’erba come le pietre dei camminamenti percorsi da altri ribelli. Come in quelli dei “nidi di ragno” di Calvino e delle valli nel basso Piemonte di Fenoglio, troviamo qui quel paesaggio commovente, simile a quello che Pavese ci ha insegnato ad amare come estensione dell’anima, che rivive come sfondo, in una condivisione totale con la natura. Non è un caso che egli nomini l’eresiarca duecentesco Fra Dolcino, tendendo un filo rosso tra lui e i nuovi ribelli. A Dolcino e alla sua compagna Margherita, che con lui predicava l’uguaglianza e l’abolizione delle decime nella zona montuosa del Biellese, nota come Monte Rubello (ovvero, Monte Ribelle), sarebbe toccata una condanna al rogo da parte dell’Inquisizione. Nella descrizione del martirio del diciottenne Aldo Salvetti (“Il crocifisso”), vittima di una truce sentenza sommaria, quasi un Autodafè, si avverte la stessa emozione nel paesaggio drammaticamente spoglio, da cui l’ispirazione religiosa traspare nell’accurata descrizione della crocifissione del ragazzo, evocatrice, nella forte drammaticità del chiaroscuro, di un dipinto del Caravaggio:

Erano due grossi chiodi, coperti di ruggine,

chiodi da carradore

dimenticati in una nicchia del muro.

Qualcuno li trovò, trovò un mazzuolo,

e gridò agli altri: “Mettiamolo in croce”

[………………………………………………….]

scelsero la porta massiccia della stalla

alzando la vittima come offerta votiva.

Il legno era vecchio, poroso; non lavorò

a lungo il martello sui chiodi:

il ragazzo non parlò, stava morendo.

Sotto le ascelle gli posero due astoni

di faggio, ed arretrarono mirando

l’opera compiuta. Come alla recita

del maggio, quando l’applauso è di scena.

Poi venne la Sera, per un velo d’ombra

su quelle mani trafitte; venne lei sola:

nemmeno una stella osò affacciarsi in cielo.

Nonostante l’amara consapevolezza che “quell’estate fu troppo breve”, perché forse “ci è mancato l’amore degli altri” e “la vela/ che un giorno intrecciai / di speranza/…/ora non regge il vento ed è già sera” (“Tempi di candelora”) ogni testo di Strona risulta impreziosito da una raffinata, affettuosa scelta dei vocaboli, che con precisione naturalistica e profonda amore -alberi, cespugli e fiori di montagna sono chiamati per nome -denotano una natura tragica e ridente, al tempo stesso. Esemplare, per ricchezza emotiva ed efficacia linguistica, un testo che andrebbe oggi inserito nelle antologie scolastiche – “Oltre la siepe” – tale è la dovizia di spunti storici intrisi di amari presentimenti, che diventano monito per le future generazioni. Un testo che svela l’intelligenza e la lucidità. dello sguardo di Strona e che incontra corrispondenza nelle parole. In esso la consapevolezza del momento storico in cui venne scritto si esprime nel doloroso contrasto tra la passione che spinse molti alla lotta di Liberazione – “noi che viviamo ancora leggende /incise nella pelle” -e gli “stinti medaglieri/costellati di stelline dorate” che oggi sfilano ritualmente nei cortei, quasi del tutto immemori del loro stesso significato simbolico. “Quando fummo nel sole, e la giovinezza/ moriva come il seme nella zolla, / sfidammo confini d’infinito” – un passaggio che affida il racconto della storia personale di ciascun combattente alla ricchezza semantica delle parole, divenute -secondo l’etimologia- esse stesse, parabole.

Il timore di “essere stati inutili e spenti”, vista l’involuzione della storia nel dopoguerra, poteva essere sedato solo dalla memoria di quelle montagne dove ogni promessa era nata e poi era crollata. Dalle “carte ingiallite” gli storici, i revisionisti, gli avversari politici cercarono (e ancora non si danno per vinti) di stabilire, con penoso (e talvolta peloso) zelo, attraverso lenti d’ingrandimento e bilancine, se quella dei “ragazzi “caduti fu “vera gloria”, al punto che i sopravvissuti si sentirono gravati dalla colpa di essere ancora vivi. Solo il culto della memoria, come “una favola antica”, ha potuto e può aiutare a sostenere la delusione seguita ai giorni di fuoco e al fallimento dell’Utopia (“Parole d’un tempo”).” Così, nel rimpianto, la poesia segue l’evolversi della vicenda personale del Poeta e dei “Banditi”, suoi compagni nella lotta. Alla morte del leggendario Comandante “Cino” Moscatelli viene dedicata un’elegia dai toni che si riservano agli eroi: “l’umanità infinita del tuo essere uomo” fa sì che “di te diremo/ ai figli, e i figli diranno/ sarà presenza, non epigrafe/sul muro. / Solo così non si può morire”. Parole che palpitano di affetto e di passione civile, già consapevoli che la stagione del riscatto poteva volgere, o forse già stava volgendo, al tramonto. E di fronte alle quali ci sentiamo arrossire, visto il degrado a cui è giunta la nostra “civiltà”.

Seguendo il monito di ascoltare la voce dei sommersi, chiaro riferimento a Primo Levi, dopo una poesia sulla Shoa, la rievocazione della Prima Intifada palestinese dipinge un lucido quadro della condizione palestinese rispetto alla posizione assunta da Israele, tanto che il desiderio di pace risalta in modo netto: “non voglio altri lager” – affinché “nessuno sia nemico/ nella terra della Speranza, dove/ l’imbrunire, ha il respiro di Dio.” (“Confini senz’odio”). Strona non amava la guerra come “soluzione delle controversie”, in perfetta sintonia con i Padri e le Madri costituenti. Fu uomo di pace, coltivava la speranza “Che un giorno, oltre di noi, alto/in biancori di luce, cresca l’ulivo”. A dispetto di quel sacrificio e di quel sogno che animò molti uomini e donne “con il sole negli occhi”, sappiamo, purtroppo, quale amaro corso ha preso la Storia. A noi, figli delle spinoziane passioni tristi, frenati dall’impotenza, dall’indifferenza e dal colpevole oblio di quel passato lontano, ma non remoto, non tocca altro che cercare in esso spunti, idealità e forza per una rinnovata tensione al cambiamento. Per una gramsciana “Città futura”.

Laura Cantelmo

4 comments

  1. Antonella Prota-Giurleo ha detto:

    Grazie, non conoscevo questo poeta. Apprezzo tantissimo la capacità di mantenere uno sguardo estetico poetico in periodi difficili durante i quali sarebbe comprensibile, e lecito, abbandonarsi al dubbio dell’agire sensatamente, alla disperazione, Conservare i sensi estetico e poetico mi pare espressione di un’etica profonda.

  2. DONATO DI POCE ha detto:

    Grazie e complimenti Laura sempre attenta, sensibile e profonda attenzione critico-estetica.

  3. Laura Cantelmo ha detto:

    Grazie a voi, cari amici. Ci sono parole, storie e stati d’animo che oggi possono stimolare il desiderio e l’azione verso un rinnovamento.

  4. Adam Vaccaro ha detto:

    Sono felice di aver ospitato questa memoria poetica e storica che, grazie a Laura ho potuto offrire ai lettori, consentendo di avvicinarsi a un poeta di spessore che io stesso non conoscevo.

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