Le lezioni di Lina Angioletti
La rosa e la mano
Adam Vaccaro
Seduta, con una mano protesa. Verso l’indefinito, la memoria, il futuro, la vita. È la foto di Lina Angioletti che scelsi per la sua pagina web del Sito di Milanocosa e per la quarta di copertina de La casa in fondo al mare. Nel 2006 mi aveva dato due dattiloscritti, uno di racconti e uno di poesie. Queste, col titolo Parole per un uomo e dalla stesura più definita, furono poi edite da Via Herákleia, collana curata da Flavio Ermini e Ida Travi. Quanto ai racconti, nel gennaio 2007 mi chiese di stamparli con Milanocosa, “a condizione – aggiunse col suo tono perentorio e affettuoso – che ci sia una tua prefazione”. Mi sollecitò inoltre a fare una rilettura accurata e una scelta “senza remore”.
Accettai dissimulando la gioia regalata da quella lezione di umiltà, in quanto, fino a quel momento, ero stato più io a sottoporle prime stesure di testi. Selezionai circa la metà dei racconti, scegliendo come titolo complessivo quello di uno di essi: La casa in fondo al mare. Quando tornai, mi aspettavo qualche rilievo. Invece, condivise ogni cosa e volle che le leggessi subito il testo della prefazione: “non farmi fare fatica, preferisco ascoltarlo dalla tua voce”. Mi accompagna l’immagine dei suoi occhi, stanchi eppure sempre pieni di luce mentre leggevo, l’onda incessante di attenzione e relazione che sapeva attivare. È una sorta di cammeo resistente della sua sapienza in re di relazioni gioiose, per dirla con Spinoza, di continuo saluto alla vita trasmesso dentro e fuori le pagine del suo ricco e articolato percorso, che mi accompagna anche dopo il 24 novembre 2007, quando Lina Angioletti ci ha lasciati.
Sono quattro gli ambiti del suo percorso di scrittura: prosa, poesia, critica e, non ultima, traduzione. Tutti con risultati di rilievo. Non è possibile, nei limiti di questo scritto, soffermarci adeguatamente su ognuno di essi. Possiamo indicarne modalità specifiche e linee portanti comuni da riconnettere a quel nucleo di atteggiamento generale evidenziato. Dal quale discendeva la radicata concezione della funzione di servizio sociale, assegnata in particolare sia alla critica che alla traduzione.
Ne derivava, per l’esercizio critico, il rifiuto di ogni compiacimento di linguaggio specialistico. Amava la complessità della poesia più densa, ma mirava, per quanto possibile, all’ampliamento dell’area dei fruitori. Cercava perciò di conciliare sempre profondità di analisi dei significanti con il desiderio di trasmissione, anche ai non addetti, dei significati e dei sensi di un testo. Per minimi riscontri si veda, tra le ultime opere in questo ambito: Transito con catene, supplemento della rivista “Testuale”. Di ricordare anche le molte opere a sua cura, come gli interventi in convegni; tra questi: Saggi critici per dodici poeti, di Salvatore Quasimodo; e I problemi di definibilità della realtà al Convegno “Scritture/Realtà” di Milanocosa, nel 2000.
Per quanto riguarda la traduzione, lo spirito di servizio sfociava nell’incrocio umile e rigoroso di uno svolgimento, il più possibile, letterale. Su tale punto avevamo opinioni diverse, ma i risultati del suo lungo esercizio nella traduzione di importanti autori di lingua anglosassone – quali gli americani Marianne Moore e John Dos Passos, degli inglesi Edith Sithwell e Dylan Thomas, o di poeti africani, anglofoni e francofoni, quali il magrebino Tahar Ben Jelloun – mi dicevano che, oltre il metodo, conta la qualità di chi traduce.
Per quel che concerne la scrittura poetica, può fornire un esempio del suo stile una breve poesia della sua ultima raccolta sopra citata, È una rosa: “È una rosa rossa/ aperta colma/ petali avvinti/ tenaci alla caduta/ petali aperti al profumo del sole/ al silenzio della notte;/ / domani forse/ sfioriranno nella tua mano/ chiudila/ e portali con te lungo la riva/ a cadere nel solco/ dell’onda al biancheggiare della spuma.”
Testimonia una capacità non comune, nelle forme contemporanee, di saper fondere trasparenza, densità e molteplicità di sensi, musica e libertà di ritmi, eros e sacrale senso del limite. Fa sentire la continua tensione nel (proprio) soggetto scrivente di farsi strumento umano della totalità, interna ed esterna, in metafore e metonimie condensate tra l’estremità del nostro fare, quale è la mano, e un archetipo rischioso quale è l’immagine di una rosa. Fare, poièin di una bellezza non appagata di sé, ma alla continua ricerca dell’altro. Lo dice il titolo della raccolta e l’utilizzo, come in questa poesia, di un tu (metafora di sé e dell’altro), piede di una limpidezza semplice che sa farsi canto e comunicazione complessa.
Chiudiamo questo sintetico viaggio nella scrittura di Lina Angioletti con la narrativa. In essa, pur nell’atteggiamento generale evidenziato, fa proprie molte ricerche del ‘900, vedi ad esempio Maria e gli altri (come per gli altri testi citati, segue nota biografica). Un libro dalla mobilità di passaggi, momenti, scene e punti di vista, da tecnica cinematografica all’interno di una matassa. Che focalizza un filo, poi un altro, e man mano costruisce senso dell’insieme, con la voce narrante che agisce tra interni a esterni entro una trama senza inizio e fine, ma con un climax finale che pone al lettore, con la sparizione del personaggio principale, la domanda: chi è Maria?
La forma del testo è uno strano incrocio di nervoso e pacato, di una gioventù intesa come libertà dell’anima. Una testimonianza di gioia e amore per la vita, immersa nelle esperienze, nei di sentimenti e nei pensieri, elaborati in un mondo e un arco di tempo piuttosto precisi: fili e matassa costituiti da intellettuali, artisti e letterati collocati a Milano degli anni ’50 e ’60. Scrittura di riordino della memoria, personale e collettiva, di uno sguardo impietoso che può aiutare a ripensare quei decenni e gli attuali sbocchi: i limiti, i vuoti, il distacco dal reale e i narcisismi, l’incapacità di un pensiero critico rispetto ai sempre più insensati andamenti storicosociali, gli individualismi facilmente asserviti a poteri piccoli e grandi di nuclei editoriali o altri circuiti di mercato. L’illusione di essere un mondo a parte, depurato dal fango orribile circostante, in cui tra supponenze ridicole, cordate e prostituzioni sessuali o spirituali, primeggia la preoccupazione e l’idolatria di sé. Insomma, Maria come immagine di una gioventù dell’intelligenza e dell’eros, che resiste e cresce perché non s’innamora di sé. Una grande lezione.
Una casa in fondo al mare, è interessante non solo perché è il punto estremo di un così lungo percorso, di scrittura e di vita. Si snodano in questa piccola sequenza di racconti, frammenti e squarci, distillazioni e concrezioni di memoria e d’amore, quali alimenti ed elementi indispensabili per tentare di ridare senso a ogni perlina, ricostruita o trasfigurata in questo o quel personaggio.
L’Autrice fa sentire la tensione costante a ricomporre scaffali della propria biblioteca vivente, per riprenderli, arricchirli e ricollocarli, entro una visione di idee che ricongiunge e rinnova di continuo livello emozionale ed etico. Il corpo della scrittura diventa così medium di ripresa dell’insieme corpomentale, momento necessario per tendere a una totalità più ampia, sia pure irraggiungibile. La sequenza dei frammenti è qui siepe orizzontale per uno sguardo e un percorso verticali, verso l’alto dell’universo e verso il basso, dei propri abissi. E il titolo complessivo è immagine di superficie e profondità che coniuga matericità fluttuante, intensità e levità, accumulate dagli anni e dal corpo. Stili, temi e forme oscillano tra realistico e visionario ma, che si aprano squarci nella storia comune o nelle esperienze personali, sono corpi di un teatro dell’incontro. Origine di ogni forma di narrazione, dalla poesia epica o teatrale vera e propria, a quella filosofica (vedi il Simposio di Platone); perché è nel processo narrativo che ogni parola e pensiero sono spinti a farsi corpo dell’altro.
È la prima forza unificante dei vari racconti, mentre un nucleo di pensiero conduce alla seconda e a temi di non poco peso. La tensione d’amore e di ripresa di memoria unifica ma non ne fa frammenti sentimentali o nostalgici, grazie proprio a un pensiero critico, tuttavia mai ideologico, didascalico o pedagogico. La scrittura è poetica, liberata da fini e tesi. Eppure non è un pensiero poetante, col quale è difficilmente evitabile l’immagine di un Io pe(n)sante che si serve e asserve il gesto scrivente e il suo soggetto. Qui l’azione primaria non nasce dall’Io, dall’Es o dal Superìo, ma dal Sé, che del testo vuole fare corpo dalla propria totalità, momento adiacente tra le sue parti.
Il pensiero trasmesso è, come dire, pulsante e scarnificato, capace di toccarci perché fa passare il suo senso dai sensi. Lina Angioletti fa sentire che la complessità e consistenza dei corpi, del singolo o della società, possono essere materia che aiuta a sostenere l’altrimenti insostenibile leggerezza dell’anima.
È un altro filo che unisce ricostruzioni storicosociali (vedi La contrada) e lampi di invenzioni e visioni che aprono all’invisibile. Così le consuete miserie e i limiti umani – i piccoli calcoli personali, il dolore, la morte – non annullano la tensione a farsi custode di uno sguardo più elevato, di nobiltà di uno “spirito” che riesce anche di fronte alla morte a recuperare forme di gioia e “serenità”. Non c’è dunque glassa sentimentale o buonista, né patetico e idealistico ottimismo della volontà, ma la convinzione forte che qui e ora abbiamo il compito umano di ricostruire le nostre energie vitali. Compito che non è un fantasma ineffabile e imprendibile, è dentro di noi e sollecita la nostra capacità di cogliere al volo ogni momento di incontro vero: verità fenomenologica, concreta e provvisoria ma viva, che possiamo incarnare (il vero, come inteso da Luciano Anceschi) e non Verità assoluta e immutabile, che rischia sempre di schiacciarci e ucciderci.
Gli incontri, di corpi e di anime diventano stazioni e luci della nostra fortuna, che ci consentono di resistere e riprendere il cammino. La lezione implicita è di coraggio d’amore, di arduo compito della gioia di cui siamo unici testimoni e responsabili. Ne emerge un’etica che fonda il culmine del valore umano tra umiltà della coscienza della nostra insufficienza e possibilità di passioni gioiose. Vertice riflesso a specchio negli abissi magici di una casa in fondo al mare.
La nostra verità umana è spinta così a liberarsi di armature esiziali: moralismi stereotipati, assolutismi e deliri di onnipotenza. È il senso quanto mai attuale di questo piccolo gruppo di racconti di Lina Angioletti. La quale ci fa pensare che, forse, quel flusso infinito, sempre uguale e sempre diverso, che abbiamo chiamato Dio o Universo, meglio sarebbe chiamarlo Poliverso. Disponendo così la nostra molecola di vita a tenere aperti gli usci del cuore e della mente al rinnovamento critico e alla molteplicità.
Nell’universo simbolico disegnato dall’incrocio delle varie trame di senso, il mare è la linea orizzontale che segna il limite tra la vita e la morte. Ma il percorso verticale rovescia i termini consueti della simbologia occidentale, sia cattolica che laica. Il massimo della vita non è in alto, col suo corteo di segni e sensi: luce, visione superiore, rinascita, anima, salvezza ecc. In alto, sopra il mare (non a caso nel racconto di apertura, La zia alla finestra), è posto un cimitero, che degrada in forma di anfiteatro, a gradoni, dalla collina verso il mare. L’immagine si imprime in noi con forza e acquisisce valenza metonimica, diventa il cimitero, luogo che accoglie la morte, ma che qui appare parte dell’alveo senza fine della vita, luogo in cui ripensare con “una nuova serenità” la vita. E le stesse riapparizioni della “zia Augusta”, appena morta, non assumono connotazioni misticheggianti o di miracolo paranormale. Acquistano il senso di un avviso all’Io razionale di non pretendere di spiegare tutto. Il vero miracolo, invisibile, è “in fondo al mare”, imo e abisso in ombra dove la vita rifonda se stessa e ritrova il suo fulgore, non raggiungibile dagli abbagli del sole.
Lina Angioletti era nata a Verona, ha vissuto a Milano e ha pubblicato oltre trenta opere di narrativa, poesia e saggistica; tra le ultime: Transito con catene (saggi critici), supplemento della rivista Testuale, Ed. Anterem, Verona 2000; Maria e gli altri (narrativa), Ed. Tracce, Pescara 2005; Parole per un uomo, Via Herákleia, Verona 2006; La casa in fondo al mare, Milanocosa edizioni, 2007. Ha svolto un lungo lavoro di traduzione, dedicato in particolare a opere degli americani Marianne Moore e John Dos Passos, degli inglesi Edith Sithwell e Dylan Thomas e del magrebino francese Tahar Ben Jelloun. Molte le opere a sua cura e gli interventi presso riviste o convegni; tra questi: Saggi critici per dodici poeti, di Salvatore Quasimodo, Marotta Editore, Napoli 1993; e I problemi di definibilità della realtà in Atti del Convegno “Scritture/Realtà”, a cura di A. Vaccaro e R. Liedl Porta, Milanocosa, Milano 2003. Sue opere sono state tradotte in Americano, Arabo, Danese. È stata tra i soci fondatori di Milanocosa, di cui era Presidente Onorario.
Grazie, carissimo Adam, di questo indispensabile ritratto/ricordo, con la magnifica foto di una Lina Angioletti vera ed intensa com’è sempre stata.
Un saluto e un augurio di cuore dall’amica
Mariella
Grazie a te, Mariella, costante conferma di essere uno dei miei preziosi punti di riferimento affidabili che ho avuto la fortuna di incontrare e salvare. Hai inteso e apprezzato il percorso di Lina, perché anche del tuo ne hai fatto un’arte scevra da meschinità di calcoli, supponenze e individualismi del panorama prevalente.
Adam