Lina e la “liquida innocenza”
di Gilberto Finzi
“Ancora la vita. La magnolia. Lo stelo. Non è finito il pianto. L’amicizia. Il tempo. Nei luoghi prediletti del non vero. L’onda. L’altra riva. Notte. La poesia. L’albero. Lontananza. La voce. È una rosa.”
Non sono appunti per una poesia da farsi: sono i titoli delle quindici poesie che Lina
Angioletti ha riunito nel suo piccolo ultimo libro, dal titolo un poco scontato, Parole per un uomo. Una plaquette, che Giò Ferri ha impreziosito con una dotta presentazione che non manca di cogliere il rapporto difficile fra poesia e verità, sapendo bene che in una poesia non si cerca altra verità che quella della forma, del ritmo, di tutto ciò che in sostanza disarticola le parole per inserirle in un nuovo contesto.
Il rapporto diretto con le cose è sempre stato il mondo preferito da Lina, e a questo mondo ha dedicato buona parte della sua poesia: versi semplici, lineari, che non presentano astrusità né linguistiche né filosofiche. Ma queste considerazioni valgono soprattutto per i libri o le plaquettes precedenti, pervase dalla leggiadria cantabile di una poetica superficialità. Una gentile “ispirazione”(mi si passi la parola) ha spesso permesso che la vita con tutte le sue connotazioni, ora liete, ora più spesso aspre, filtrasse nei suoi versi con la delicatezza di parole e ritmi non urgenti, atti a far intendere l’idillio e la comprensione umana più che il loro aggressivo contrario.
Questo insieme tranquillo, questo mondo assestato è sembrato ora messo in dubbio dalle ultime quindici poesie: come se una folata o un nembo fossero passati improvvisamente e avessero oscurato (non cancellato) quel mondo.
«Fra dolore e dolore ha camminato
questa storia estesa
mai conclusa.
Poiché si diffonde lo sguardo
a raccontarmi di te sopra la soglia
eletta per altri incontri
prediletti del non vero.»
È l’incipit esemplare di una costruzione libera, in cui è rilevante l’uso normale di un verso prosastico qui però più adatto alla riflessione e all’interiorizzazione che al canto lirico. In queste poesie parole come “dolore” e “abbandono” trovano la loro collocazione (ma si potrebbero aggiungere “lontananza”, “pianto”, solitudine”, nonché vari aggettivi) in contesti dominati da qualcosa come un’ombra, un’aspettativa non gradevole o peggio funesta. Forse questi versi sono dettati dall’assenza di una o più persone care che hanno fatto parte integrante della propria vita, ma forse sono dettati anche dalla coscienza della propria fine vicina, dall’ombra che sfugge al razionale ma che è sempre presente. Di questo sembra essere conscia Lina, mentre si avvolge in versi pensosi e severi, mentre si rende conto di essere fatta non solo per l’aspetto cantabile e più a lei confacente della poesia, ma anche per qualcosa di molto diverso, che cerca con durezza di esplicitare:
«…ancora entrerò nella sapienza indotta
di cui sono costrutta
aspetterò l’istante ribollente che concede i cancelli
aperti all’ignoto…»
(L’onda)
Ho detto durezza: ma non c’è urlo né rifiuto nelle parole di Lina, solo qualcosa che sembra essersi infranto. Oppure è una nuova consapevolezza che si è aggiunta al fardello dell’esistenza. Linearmente, orizzontalmente, come seguendo sempre una linea-guida gentile, che impedisce di tracimare, di invadere altri sentieri, più complessi e razionali.
Ci si accorge allora che un modo di formare unitario lega le poesie di tutta una vita a queste ultime: Lina stessa nella poesia citata fornisce una chiave possibile della sua poetica, un sentire lucido che non vuole stupire ma solo descriversi e cantare, quando sul finale, staccato da ciò che precede, afferma alquanto perentoriamente «l’onda irrefrenabile / la sua liquida innocenza».
“Innocenza” sembra veramente l’atteggiamento primario di Lina rispetto a tutte le cose, a tutte le situazioni che la riguardano, e “innocenza” è alla base di questa poesia, di ogni poesia che avvicini l’esistenza alla sua forma, al suo ritmo poetico. Una innocenza esistenziale che si rovescia subito in innocenza compositiva, resa “liquida”
da un’onda (quell’ “onda”) di sentimenti, di modi di essere e di descrivere se stessi e il proprio esistere nel presente con la leggiadra fluidità dell’acqua che scorre e non permane. Questo modo gentile e assorto di porsi di fronte a chi legge determina una apparente facilità del verso, una comprensione diretta che è tuttavia indotta da un sapiente utilizzo delle forme retoriche e liriche: e basterà ricordare, a proposito di “facilità”, certe brevissime illuminazioni del primo Ungaretti.
Permane, in queste quindici poesie, un atteggiamento che definirei “di saluto”, come un congedarsi dalla vita e da noi amici che la leggiamo. Con leggerezza, sapendo che si deve, e come si deve. Legando ciò che sappiamo dell’esistenza a quello che supponiamo essere su “l’altra riva”. Disegnando un quadro o una serie di piccoli quadri in cui si riassume un sentire profondamente umano ma – ripetiamolo – lieve e non drammatico. Una sorta di emozione forse possibile soltanto al femminile, nel realismo della donna che sa di poter dare la vita. Così, in quella che secondo me è forse la poesia più significativa della piccola raccolta, Lina riesce a creare un limpido raccordo fra questa nostra esistenza e l’aldilà.
L’altra riva
Aperta la finestra sull’ontano
La schiera si aprì luce su luce fitta
le immagini evidenti a larghe ondate
m’era difficile al momento
rivestire d’ombra perché
d’ombra ciascuna immagine era fatta
e nei confini soltanto era palese
cercavo
la luce grigio azzurra del padre
la morbida luce della madre fra
l’altre tante in brusio diffuso
cercavo la figura giovanetta azzurro cielo
le mani nelle mie; stava lontano sopra la vetta
dall‘opposta riva e mi guardava
non con la voce eppure mi raggiunse
“non è l’ora ancora sarò io nel momento”
e subito coinvolto nel lungo lampo
se n’era andata assieme agli altri nell’altra riva,
È una poesia luminosa, che proietta luce sul mondo “di dopo”, che ricorda vivacemente le discese agli Inferi di Odisseo o di Enea, ma senza il buio dell’evocazione.
Le ombre non si possono abbracciare, si possono soltanto vedere alla luce nera del-
emozione che le ha suscitate: le ombre maschili e femminili del passato, ma soprattutto, per Lina, “la figura giovanetta azzurro cielo”, il figlio scomparso giovanissimo ora “assieme agli altri all’altra riva”.
È un lucido addio trasfigurato nei versi del sogno e del più semplice ritmo. È la memoria di se stessa che Lina ci trasmette con l’usuale leggerezza anche mentre disegna un vago Ade idealizzato dalla sua costante “liquida innocenza”.
Magnifici interventi sul prezioso lavoro di Lina Angioletti. PER NON DIMENTICARE.
Grazie! Un saluto e un augurio