Francesco De Napoli
La Collana Viola E L’epistolario Pavese – De Martino
Centro Culturale “Paideia”, Cassino 2008
Adam Vaccaro
Propongo la rilettura del prezioso saggio del 2008 di Francesco De Napoli, a commento della pubblicazione di Bollati Boringhieri, Torino 1991, “Cesare Pavese – Ernesto de Martino, ‘La Collana Viola, Lettere 1945- 1950, a cura di Pietro Angelini, sul carteggio tra i due condirettori della storica Collana di Giulio Einaudi, “la prima collezione di studi etno-antropologici e religiosi apparsa in Italia”, dedicata ai miti e alle pratiche esoteriche di società primitive.
L’interesse del saggio di De Napoli è accentuato dalla sua impronta, tesa a focalizzare non solo le consonanze e differenze tra i due protagonisti, ma di collocarle nella temperie culturale dell’Italia di allora, tra personalismi, tentativi coraggiosi di uscire dai limiti culturali e politici, e condizionamenti ideologicamente chiusi, nell’area di destra, come in quella di sinistra, rispetto a ricerche anomale e innovative.
Poche le personalità che si distinsero e si attivarono in tal senso, tra le quali si collocava ad esempio sia quella di Elio Vittorini, sia in modi diversi, per la specifica sensibilità poetica e fragilità, anche Cesare Pavese. Il saggio ripercorre le varie fasi in cui si svolse il rapporto tra due personalità, napoletano de Martino e piemontese Pavese, lontane sia geograficamente, ma soprattutto con tensioni mentali e culturali totalmente differenti: il primo con passioni, ambizioni e contraddizioni non esenti da calcoli venali, il secondo con orizzonti culturali immersi in un humus di tormenti esistenziali, da cui non riuscì ad affrancarsi, tanto da sfociare poi nel suicidio del 1950.
Preciso che il saggio di De Napoli “È l’estratto della rivista non più edita ‘La collina di Pavese’”, come sottolinea l’Autore, collaboratore della Rivista e tra i cultori più appassionati dell’Opera e della vita di Pavese. E il testo è un “Quadernetto”, pubblicato dal Centro Culturale “Paideia”, rivista campana, di cui De Napoli è attivo animatore. In proposito, Domenico Cara, recensendo “Del mito, del simbolo e d’altro, Cesare Pavese e il suo tempo” (Editrice Universitaria Garigliano, Cassino 2000), testo di illuminante circumnavigazione pavesiana, dice: ”Francesco De Napoli; assiduo falco di eventi letterari,…ha “scritto un fulmineo saggio” che con “sensibile levità” rende “pieni segni dell’inquietante crisi del personaggio…di una disperata instancabilità, interrotta dal naufragio in un’isola deserta del Finito…dell’afa torinese”.
Domenico Cara, da par suo, sa cogliere i tratti di quello che definisco Atteggiamento generale di un Autore, che qui tende a coinvolgere area etica, pensiero critico ed emozioni, insomma capacità di Adiacenza interiore ed esteriore, quale premessa di conoscenza dei vari livelli della propria identità.
Ed è questo Atteggiamento che si evidenzia anche nella scrittura del pregevole il saggio di cui ci stiamo occupando, che dipana la matassa di incontri, scambi, consonanze e scontri, che abbraccia un arco di poco più di un quinquennio, della seconda metà degli anni ’40.
Eravamo ancora in piena Guerra Mondiale, tra influssi terminali del Fascismo, e albori delle forze vitali di una Nuova Repubblica, “Nella primavera del 1943, Pavese e De Martino si incontrano per la prima volta a Roma”. Il primo, giunto da Bari, crede di incontrare Einaudi, per una proposta editoriale innovativa e per lui rivoluzionaria, relativa appunto a studi etnografici su società primitive.
L’Editore affida invece il compito a Pavese, suo Direttore editoriale. Nonostante la sorpresa e “due uomini diversissimi” (come li definì anche Cesare Cases, nella pubblicazione succitata del 1991), tra i due l’approccio fu positivo, e Pavese approva la proposta, per cui divennero condirettori del Progetto. Tuttavia, nel prosieguo della sua realizzazione, si evidenziano le differenze, soprattutto di sensibilità e visione della stessa tematica culturale, fino a momenti di aperto contrasto.
Ma riprendiamo il filo a partire dalla sua genesi, che De Napoli ricorda, con una lettera inviata nel gennaio 1942 a Giulio Einaudi, con cui de Martino propone una “collana di lavori di metapsichica”, italiani e stranieri, rendendosi tuttavia disponibile a “un suo ‘volumetto divulgativo sulla natura e sui metodi della ricerca metapsichica”, con approfondimenti “sui fenomeni psichici paranormali presso i popoli primitivi”. De Martino era nel contempo, sia mosso da autentica passione di ricerca fino ad allora in Italia mai tentata, sia ingabbiato in condizionamenti e contraddizioni personali e culturali non completamente risolte. Tra queste c’era l’influsso della autorevolezza di Croce (in particolare al Sud), e della sua visione idealistica, talché non casualmente De Martino era stato spinto a cercare possibilità fuori dalla Laterza, nonostante fosse uno dei suoi Autori, perché la Casa Editrice barese era sotto l’egida del “padre-padrone” editoriale, quale ra appunto Croce, che certamente non era favorevole alle ricerche storicistiche demartiniane.
De Napoli rende conto di questi e altri nodi personali ed epocali, tra i quali de Martino si muove con abilità, a volte con forzature culturali cerchiobottiste, a favore della propria affermazione e dell’interesse personale, che spingono a rilevare “una forma mentis diciamo piuttosto…’informe’”, rileva De Napoli, con una capacità e dinamicità manovriera meridionale, non esente da accenti venali e richieste economiche giudicate eccessive, dalla linearità e “compostezza” operativa dello “stakanovista Pavese”. Il quale era interessato e al tempo stesso distaccato, rispetto alla stessa tematica progettuale e alle relative pubblicazioni.
Come sottolinea De Napoli, in Pavese c’era un particolare gusto del “selvaggio primitivo”, ma mai sconnesso alla impenetrabilità del “paesaggio delle Langhe”, per cui lo “studio degli strumenti linguistici” devono servire “per afferrare ‘il midollo della realtà’ nascosto tra le pieghe del vissuto”, dando senso alla “Memoria” nel paradosso capace di aiutare a “’uscire dal tempo e sapere chi siamo’”
Abbiamo toccato solo alcuni nodi dell’intrico dipanato dal saggio di De Napoli, al fine di stimolare l’interesse alla sua rilettura, confidando di avere evidenziato il suo apporto conoscitivo, che va oltre le “convinzioni risapute” (come dice Domenico Cara), per restituirci un quadro adiacente della complessità, sia del contesto, sia delle straordinarie personalità coinvolte. Di queste vengono sintetizzati caratteri, passioni e visioni, offrendoci motivi di riflessioni attuali, utili qui e ora a fare nostro il magistero pavesiamo, di una memoria che diventi occasione e medium per uscire dal tempo e sapere chi siamo.
22 febbraio 2025
Adam Vaccaro