OLTRE LO SCONTATO
Adam Vaccaro
Paolo Valesio, IL TESTIMONE E L’IDIOTA, La nave di Teseo, p. 284, 2022
Tra i tanti libri che ricalcano forme e contenuti che non riescono a produrre in noi meraviglia, né tantomeno acquisizione di conoscenza, ci imbattiamo poi in alcuni libri capaci di rimescolare il risaputo e offrirci squarci e percorsi oltre lo scontato. Utili e preziosi, ancor più nella attuale china distopica che ci sta cullando entro il suo orizzonte che pare fatalistico accettare passivamente. Diventa perciò ancora più acuto il bisogno di libri col coraggio di uno sguardo radicale, oltre le miserie e il destino apparentemente immutabile e irreversibile, disegnato dalle logiche vincenti nel presente.
Questo libro di Paolo Valesio è innervato in, o animato da, questo coraggio. E lo fa con una sua sontuosa imponenza che ci lascia sapori resistenti nelle nostre papille gustative e nei neuroni invasi da un fiume che continua a brillare, ampliando le sinapsi finallora costruite dall’autogenesi. A partire dal titolo – composto da due polarità di ricerca di senso: l’intelligenza attiva e il suo apparente opposto, simbolizzato da un idiotismo che non richiama solo quello dostoevskiano – siamo presi dalle magie dell’invisibile e del silenzio, per essere condotti nella foresta della complessità dei sensi che ci rendono umani. Il libro è un tomo che chiede silenzio attento davanti alle sue 284 pagine, al fine di accentuare la capacità di ricevere echi e voci risalenti dalle sue parole, per estendere i rami del suo albero e vederli riempire di altri getti e fiori, accesi dall’immaginazione che sa essere fonte di un vento di vita, oltre lo scontato.
Procedendo, facciamo perciò nostro l’invito del suo primo libro pubblicato da Valesio, Ascoltare il silenzio (Il Mulino, 1986), al fine di cogliere appieno il suo maturo alito appassionato e tagliente, riconnesso a un alveo di “cultura teologica e sensibilità spirituale” (p. 278), che l’Autore nei suoi ringraziamenti in fondo al libro dedica a Anna Maria Tamburini – preziosa tessitrice di una sintesi poetica del libro –, dedica che è, in tutta evidenza, un sotteso specchio di sé, sebbene assolutamente non rivendicato, in coerenza col suo atteggiamento di umiltà culturale, profonda e non recitata.
È una cultura che viene rivendicata attraverso Eliot, che nei suoi quattro quartetti dà forma a “densità…bibliche e dantesche, per il plurilinguismo del parlato” (p.274), espletato e reso in una incessante forma interrogante, in cui nulla è assodato o garantito a priori. Siamo in un territorio che riconnette continuamente personale e collettivo, esperienza e prassi dal basso, con levature e velature di una pesca d’altura culturale, senza la quale ogni gesto rimarrebbe in una marcita priva di senso – che tuttavia rimane sempre sospeso e in bilico, da ricostituire o rifare, ogni istante e col letto, ogni mattina.
Alberto Bertoni sintetizza nella sua acuta Prefazione (pp.15-17) la “inesausta traduzione e metamorfosi dell’Uno nel Molteplice” del percorso geografico e culturale di Valesio, che è andato dalle radici italiche a contesti di prestigiosi atenei americani, continuando al tempo stesso – aggiungerei – nel travaso opposto di immettere il molteplice nella propria unità plurima: psico-mentale, antropologica e spirituale, facendone un “crogiuolo” ricettivo e generativo di sinestesie tra cultura della “tradizione greco-romana”, orizzonti biblici, e alimenti di letteratura alta occidentale, da Dante a Shakespeare, fino agli sperimentalismi più accesi e stimolanti del Novecento.
Un percorso cui, man mano, non poteva bastare il recinto di passioni coltivate dalle ricerche iniziali in ambito linguistico. Cultura e vita chiedevano ben altro, visione di complessità e una lingua priva di ogni estasi di purezza, volta a dare nomi alle domande irrisolte poste dalla tempesta gioiosa o drammatica che irrompeva di continuo nel nastro esperienziale di ciascuno.
Un flusso molteplice, accolto con atteggiamento mistico-sacrale, fatto fonte di etica e umile senso del limite, da cui è derivata anche la forma e la struttura poematico-drammaturgica di questo libro, con personaggi – espressioni dell’interiorità dell’Autore – che non parlano, o parlano tra sordi, tra loro, ai quali perciò il testo offre un teatro di incontro e colloquio. È una esemplare messa in atto di terzietà e “finzione suprema” (come sottolinea Bertoni, richiamando Wallace Stevens) del Testo. Un esempio che tende a offrire e incarnare un oltre di “possibile abbattimento della barriera tra pensiero critico e scrittura creativa”.
Un oltre che si dipana ed esalta “il bisogno di dialogicità”, di comunicazione come capacità di condividere e mettere in comune (ricordando Antonio Porta), quanto più questa è negata da logiche biopsichiche o da ideologie sociali dominanti. Ora, se il Testimone è personaggio dai contorni più facilmente inquadrabili, chi è l’Idiota, incrocio shakespeariano e dostoevskijano, “autentico protagonista del poema”?
Cercando una risposta, una prima evidenza del testo mostra i due topos del titolo come due corpi di un unico corpo, gemelli siamesi congiunti col dorso, che quindi volgono i loro sguardi a orizzonti impossibili per l’Altro, divisi e uniti, reciprocamente inutili, ma che istituiscono un terzo, quale è il Testo e un Soggetto Scrivente (SS), fragile, temporaneo ed eterno al tempo stesso, senza il quale il Soggetto Storicoreale (SSR) rimarrebbe irreparabilmente alienato e schizoide. Estraiamone a tale fine solo alcuni lacerti:
“L’Idiota non sa ballare/…/ in una danza che vòlita/ da Shiva a Davide/ e nuovamente da Davide a Shiva./…L’Idiota sogna –/ o fantastica a occhi aperti,/ …/ che la sua danza sia / mentale precativa“ (Songe et non rève, per Alberto Bertoni, p.81); “L’Idiota oggi ha sognato/ una disputatio dell’anima – o con l’anima?…/ è più pericolosa/ un’anima divisionale/ o un’anima campatta?” (“Divisio aniimae”, per C.G. Jung”, p.44);
“’L’Idiota agli angoli della vita/ si commuove osservando le madri” (Grandeur dans la petitesse, p. 70); e “Tempo fu che l’Idiota / si ammalò di coscienza di classe e ancora/ ne porta le cicatrici” (Patologie, p. 71);
“Ogni qualvolta il Testimone invoca/ il riposo del sonno…/ (scendendo al più profondo/ delle proprie cantine di coscienza/…/ è come se ogni volta/ in ansietà stringesse –/ con i pugni serrati e sudati –/ un lembo del mantello di Macbeth, (In cantina, p.45):
“Il Testimone ecco si arresta/ quasi nel mezzo di Grand Central Station”, dove era stato “Vingt Ans Après” (p.68), ma “Basta un grappolo di secondi” e “il suo disorientamento ha raggiunto una pace abissale”, dove in poche righe, si disegna il moto repentino che risucchia l’Io dalla memoria al territorio di cui è signore, del presente, un moto che prosegue nel successivo, I cuori mondiali (p.69): “Manhattan è stata per lui/ il bruno cuore del mondo” che irride il “ragazzino distratto che vedeva/ il cuore del mondo dentro un uovo fritto”;
Il SS è la capacità soggettiva di unire “LA VOCE”, che “emana…dal soffitto…dal pavimento, dalle pareti laterali di diverse stanza”. È un’immagine che percorre a mo’ di telecamera la Casa, metafora di Corpo e voce dell’ES, e che fa ricordare la “cantina”, di Roberto Sanesi, luogo che peraltro Il Testimone prova a raggiungere, (vedi, In cantina, p. 45) ma da solo gli è impossibile, per cui “ogni volta” rimane in un’ansa di follia, stringente tra le mani “con i pugni serrati e sudati –/ un lembo del mantello di Macbeth,”. Bellissima sintesi delle contraddizioni insanabili intrasoggettive, in cui agisce “LA FIAMMINGA”, quarto dei personaggi che, definita “belga, curiosa, forte della sua intelligenza”, chiaramente incarna l’operatività mentale dell’Io e della sua estensione nel Superìo, e che, insieme a IL TESTIMONE e L’IDIOTA, strutturano la tessitura complessa di tutto il tomo.
Struttura dunque teatrale, composta da quattro parti: “Prima parte, i due solitari”; “Seconda parte. La Voce”; “Terza parte. La Fiamminga”; e “Epilogo. A viso aperto”. I personaggi, specifica Valesio, “sono apparsi lentamente, emergendo da una sorta di nebbia. Io ho trascritto parole udite, inquadrandole…come poesie”. A me pare una splendida messa in forma della mia ricerca fenomenologica dell’Adiacenza, ulteriormente specificata dall’Autore con “Il Testimone e l’Idiota sono in grado di ascoltare la Voce”, mentre la Fiamminga non ode mai la Voce” (p.21). Perché? Perché l’Io raziocinante è sordo alla voce del molteplice. È un Io che semplifica, assolutizza, e non sa di essere parte, necessaria, ma parte.
Dopo la Prima parte (pp. 23-108), con testi poetici dedicati a I due solitari, principali protagonisti del libro, si sviluppano nelle parti successive isole di dialogo tra i quattro protagonisti, in un moto di apertura che culmina nella splendida luce dell’”Epilogo – A viso aperto”, (pp.251-264), in cui tutte le barriere e le porte si aprono, nello scenario del parigino Parc Monceau, dove Testimone, Idiota e Fiamminga “dopo aver espatriato dall’Italia all’” pensano di ritornare in patria, e “ben sapendo/ che tutto sarà diverso: ‘rimpatriare’ è illusorio;/ al più si cambia di espatrio”, mettono in atto il più difficile, profondo espatrio, quello intrasoggettivo, “per giungere alla dignità del dialogo”, (p.261), tra parti di sé divise, cui solo la Voce del Testo, della Poesia e dell’Arte regalano la magia, per quanto precaria, che sa renderli adiacenti e comunicanti.
18 maggio 2023
Adam Vaccaro
Interessante lettura di una raccolta complessa, che invita alla riflessione anche grazie agli agganci con la grande letteratura e la grande filosofia attraverso temi sollevati e approfonditi da autori indimenticabili, sui quali molti di noi si sono formati.
Grazie di avercene resi partecipi, Adam, e complimenti a Paolo Valesio
Grazie, Laura, della tua attenzione sensibile e culkturale, anche a nome di Paolo Valesio.
Ricevo per email da Paolo Valesio questo articolat riscontro del mio lavoro di analisi, e che immetto in sua vece, per difficoltà tecniche:
Caro Adam,
ho molto apprezzato la tua eccellente recensione al mio ultimo libro di poesia, Il Testimone e l’Idiota. Innanzitutto per la generosità intellettuale del tuo discorso – generosità che si rivela prima di tutto nell’ attenzione al contesto, sia del libro stesso sia del mio lavoro (tua menzione di Ascoltare il silenzio); e in secondo luogo e soprattutto nella risposta al “bisogno di dialogicità” fra noi, per cui tu ricordi anche Antonio Porta. È una dialogicità che rispetta la “complessità dei sensi che ci rendono umani” e al tempo stesso i nostri differenti tipi di “esperienza e prassi dal basso”.
In particolare, hai ragione sull’importanza del lavoro di chi mette in questione la “barriera tra pensiero critico e scrittura creativa”. Si parla attualmente, soprattutto nella scrittura di lingua inglese, di “poesia-saggio”; che non è l’unica via naturalmente (nessun dogmatismo critico), ma è una via in cui continuerò a impegnarmi, incoraggiato anche dalla tua analisi. Una buona recensione infatti è tale – sembra a me – quando aiuta l’autore a pensare a quello che sarà (se gli resta tempo di vita) il suo prossimo passo.
È importante in questo senso la distinzione che tracci fra Soggetto Scrivente (SS) e Soggetto Storicoreale (SSR). È anche attendibile l’ipotesi che tu menzioni sulla ragione per cui la Fiamminga non ode la Voce: “l’Io raziocinante è sordo alla voce del molteplice”. (Noto d’altra parte che, nell’Epilogo che giustamente sottolinei, la Fiamminga dice ai due amici che lei ha cominciato a udire la Voce: ha avuto luogo in lei un’apertura mentale e spirituale). Questo è uno sviluppo rivelatore in quel dialogo a tre nel quale, come dici, “tutte le barriere e le porte si aprono”. Infine ho apprezzato il modo in cui individui, nell’esperienza di espatrio che è il sottotesto di tutto il libro, l’aspetto più profondo, che è “quello intrasoggettivo”.
Paolo