GIORGIO LAROCCHI PITTORE

Pubblicato il 8 gennaio 2010 su Saggi Arte da Adam Vaccaro

GIORGIO LAROCCHI PITTORE

Sulle tracce di un “disegno perduto”

Vincenzo Guarracino

È un mondo minimo e privato, quotidiano e feriale, di segni e tracce della vita, di piccole cose fedelmente amate e coltivate, tra umbratili umori e silenzi, quello cui Giorgio Larocchi, pittore e poeta, anzi pittore-poeta si applica da sempre: un microcosmo personale ed esistenziale, oggettualizzato e mineralizzato, in cui forme di ordinaria flagranza e referenza (nature morte, vegetali, manufatti, corpi, indumenti, interni domestici, paesaggi, presenze umane e animali, eventi meteorologici), rese astratte ed elementari da un accanito assillo formale, diventano qualcosa d’altro, elevate al rango di vere e proprie storie dell’anima.

Circonfuse da un’aureola di favolosa serenità, nella sua stagione più matura e recente, tali “storie” vivono come eventi di colore che abbiano incontrato per avventura una forma, un nome e un segno, in cui riconoscersi: questo per dire che, sbocciate dal terreno di un’emozione di fronte a un motivo naturale, si scelgono una loro strada autonoma, un modo autonomo di apparire, traducendosi non in vedute o “aspetti” del paesaggio, bensì in “fenomeni” della natura, di cui i titoli dichiarano la particolarità ispirativa (Nell’aria, 1977, Nella mia palude, 1990, Forse angeli, 1991, Nuvole, 2001, per citarne solo alcuni) ma senza imbrigliarli, e più spesso i testi poetici si incaricano in controcanto di approfondire e sviluppare attraverso la scrittura come creazione parallela ancorché vivente e vibrante di luce e dignità proprie.

Il risultato è la rappresentazione di un modo di sentire la natura in cui sapienza pittorica, intelletto, cultura reciprocamente si integrano creando la “realtà” dell’opera, in un gioco molto equilibrato tra emozione e invenzione, sensibilità e tecnica, da cui prende origine la creazione artistica.

A osservarle da vicino, tali forme potrebbero dunque definirsi così: pensiero emotivo (“in movimento”, è definito in un testo poetico datato 8/10/2004), fatto materia pittorica; realtà, comédie naturelle virata in spettrografia sentimentale con l’ausilio di una pittura organica e lirica al tempo stesso; campionario onirico di segni e forme, archetipi, con l’ambizione di raccontare nel colore i propri soprassalti di umore; regesto di araldiche immagini attraverso la progressione di un disegno o di un pigmento colorato che non ha bisogno di somiglianze per affermare il proprio destino formale. “Impronte di frasi” (in Rammendi e nidi, 8/4/88) e “traccia / d’una storia venuta da molto lontano” (in Esercizi di melancolia, 8/10/2004), ecco, per usare metafore dello stesso Larocchi, che coniugano felicemente segno e parola: “impronte” e tracce eloquenti di un percorso interminabile, che, partendo “da molto lontano”, attraverso la grafica, la pittura e la poesia, condensa e restituisce il senso della vita stessa, come pare suggerire anche uno dei topoi più caratteristici del suo operare artistico (con la parola o col colore-segno), ossia l’ossessione delle date, apposte così ai testi poetici come a fogli disegnati o a tele dipinte.

Larve attese e catturate del desiderio e del sogno, dunque, ognuna paga della propria solitudine e autonomia, senza altri referenti che se stesse, vivono in un paesaggio senza tempo, eppure segnato dal dolore del tempo, come in una specie di limbo: “a un palmo dal mondo”, come dice emblematicamente un testo datato 20/12/87 (è, questa ossessione delle date, ossimoricamente un elemento di non poco valore, su cui sarà bene ritornare), contenuto in Rammendi e nidi, la raccolta poetica che ne segna nel ’90 il maturo esordio sulla scena della poesia: come dire in una sorta di extasis, di sradicamento e sospensione del reale, di collocazione in una terra di nessuno, dentro e al tempo stesso oltre la realtà, in uno spazio sospeso tra visibile e invisibile, tra qui e altrove, quasi col timore di vederle impigliarsi e lacerarsi nelle trame del vissuto.

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“Corre a un palmo dal mondo/ questo vento inseguito dal freddo/ da fragili trottole di terra/ che s’arrestano presto e/ alzano intrecciando disegni perversi/ versi deserti irti di segni/ di passeri trafitti da sguardi/ da grumi e rantoli di tracce e trame./ E martiri portano mirto/ e spine e perle rosse di sangue”.

Un testo paradigmatico, questo, come è facile intuire; quasi una dichiarazione di poetica, una giustificazione di un peculiare modo di attraversamento di territori diversi e al tempo stesso contigui, quelli della scrittura e quelli della pittura, con gli attrezzi di un’attenzione vigile e contemporaneamente differente, di una riflessione straniante, che gli oggetti li mette a fuoco ma senza lasciarsene conquistare e irretire troppo, con lenti oniriche e deformanti, capaci di trasformarli in ambigue vibrazioni di colore, in luminosi avvertimenti del mistero che lievita nelle cose del mondo circostante: una qualità insomma che potrebbe somigliare a quella che Italo Calvino celebrava sotto il nome di “leggerezza” in una sua memorabile “lezione americana”.

Vibrazioni di luce, avvertimenti del mistero, sotto spoglie di cose concrete: meglio ancora, emblemi di un’infinita interrogazione intorno al senso stesso dell’essere e dell’esserci, che acquistano dimensioni assolute, sotto la lente di una quieta arsione creativa e in virtù della paziente consapevolezza visionaria di chi vede in essi concentrarsi e consistere il senso stesso della vita sotto l’impulso di una perenne, incessante metamorfosi, di un vento di mutazioni inarrestabili (“il fascino d’una forma / in fuga” o di “un pensiero in movimento”, come si dice rispettivamente in un testo della stessa raccolta, datato 6/1/89, e in un altro della raccolta Esercizi di melancolia, datato 8/10/2004).

E poi, cosa che qui ai fini del nostro discorso maggiormente importa, quel vertiginoso enjambement, tra quinto e sesto verso, “disegni perversi / versi…”: come dire che, quando il “disegno” o non risponde più e si ribella all’intenzione e alla mano dell’artista o al contrario si fa troppo urgente e aggressiva la ctonia pulsione che lo sospinge alla pagina, producendo un ingorgo emotivo che fa groppo alla penna, ecco che sopravviene il “verso”, una scrittura che si ostina a ricominciare ossessivamente ogni volta daccapo, lasciando sul bilico della pagina i propri fantasmi a guardarsi nello specchio del loro stesso precipizio formale e concettuale, in compagnia di “deserti irti di segni”.

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La cosa appare tanto più evidente quanto più ci si addentra nella realtà stessa della vita di ogni giorno dell’artista, dentro il suo stesso spazio creativo ed esistenziale, là dove tra presente-passato le cose vivono e partecipano di un processo di idee e di parole, di un contatto e di un colloquio, di un leopardiano “commercio” di idee e sentimenti, rivelando un fecondo rapporto di stimolo e di interazione con ciò che poi si ritrova trasformato sulle carte o sulla tela in virtù del segno, dell’inchiostro e dei colori, sul difficile discrimine tra invisibile e visibile.

A entrare infatti nel suo atelier e addirittura nella sua casa non è raro imbattersi, oltre che in una suggestiva quadreria sua e altrui (Bonalumi, Vaglieri, Ruggero Savinio, Meloni) dalla comprensibile quantità e varietà, in reperti che la collocazione stessa (un tavolo di lavoro, un mobile del salotto, una consolle d’angolo) rende enigmatici ed emblematici, posti come sono sotto una luce diversa, lontani e distanti dalla loro originaria appartenenza e in una dimensione astratta, innaturale: oggetti di un’esistenza “altra”, dotati di un’anima puramente suggestiva e fruibili solo sul piano estetico: qua, una radice contorta d’albero, un frutto rinsecchito o una foglia accartocciata e trattata con colle e aniline, oggetti bizzarri e curiosi di indecifrabile provenienza e destinazione, sottratti al caso, all’oblio e all’abbandono; là, un osso ripulito di un qualche animale misterioso (un bue, un cavallo, una capra, un uccello), uno scheletro o una spoglia di serpente, emerso forse dalle “tane più profonde della ragione” (rivela in un testo con data 18/8/89), o un teschio (“di cristallo”, è detto con empito visionario in un altro testo, datato 16/4/89) spolpato e dilavato dalle piogge, da acidi, da un qualche agente aggressivo, insomma, naturale o artificiale, che ne ha trasformato e stravolto l’originaria funzione per consegnarlo all’ammirata o atterrita contemplazione dello spettatore, in una sorta di irridente memento mori, in una specie di medievale Trionfo della Morte.

Un’atmosfera particolare, non c’è che dire, la stessa da cui si è sorpresi dinanzi a tanti suoi quadri: la sensazione di trovarsi a tratti ipnoticamente catturati e immersi con lo sguardo, senza potersene più distaccare, di volta in volta in un rutilante Atlante delle Immagini (Im)possibili, segnato non di rado dalle stimmate di una sottile Crudeltà, in un Bestiario dal vociare stridente e indiscreto, o tra le quinte di un barocco Teatro del cupio dissolvi occupato e attraversato da scenari rapidamente cangianti e versicolori, buoni a stimolare sì la fantasia dell’artista, ma anche a suggerire a chi osserva col loro complesso gioco di forme, moti e citazioni implacabili indovinelli, incubi, sul senso della vita e dell’arte.

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È dentro queste coordinate che affiora e prende corpo, sotto le spoglie di un’apparenza di volta in volta arcigna e scostante ma anche tenera ed amabile, una realtà “altra”, sempre in procinto di lasciar intravedere montalianamente qualche adirata divinità, sul punto di suggerire e rivelare un segreto, una sbaglio di natura, o almeno disponibile a lasciarsi cogliere e sfidare oltre la superficie della propria “elementare” naturalezza, della propria organica fisicità e concretezza, come un cifrato alfabeto di riposte verità, entro le quali all’io sia dato di (ri)conoscersi e scoprire nelle forme l’attimo di quella febbrile volontà di essere e significare in cui fantasmi e veleni, del proprio vissuto quotidiano non meno che della memoria e della storia, siano improvvisamente assunti entro il cerchio breve di una favola bella e crudele, sub specie per così dire metafisica, dove tutto si tiene nello spazio di un pensiero disponibile al mistero. Cogliere “la trappola”, i “motivi sotterranei” che inquietano l’aspetto calmo e solo apparentemente seducente del reale (“nell’ombra il presente crolla”, infatti), tutto quello insomma che lascia intravedere “apparizioni” (in Esercizi di melancolia, 8/10/2004): è di ciò che l’artista ha vigile consapevolezza e si industria ad esprimere, a rappresentare.

Si tratta di un percorso, che in Larocchi è andato progressivamente chiarificandosi a partire dagli esordi, nel clima e à côté del postinformale degli inizi del ’60, degli artisti per intenderci del cosiddetto “realismo esistenziale” (“una nuova generazione / sepolta sotto la neve di Milano”, come la definisce in un testo datato 30/3/2005), laddove il rispetto per la vita, per le cose incrostate di nebbia e di terra della sua quotidiana consuetudine e fatica, ha trovato in lui rigorose, essenziali corrispondenze etiche, prima ancora che esistenziali e creative, che lo hanno posto in uno spazio originale ancorché del tutto appartato, per la sua volontà di guardarsi intorno e di dire senza concessioni così all’urlo e alla rabbia come ad una oleografica maniera.

Questo per dire che con pittori come Banchieri, Bellandi, Ceretti, Della Torre, Vaglieri e soprattutto Romagnoni, artisti cioè della sua generazione, può essere assimilato solo per naturale consenso e consonanza su certe tematiche, per una certa sensibilità d’epoca, ma non certo per esiti artistici, come ha ben precisato Flaminio Gualdoni, che ha rilevato in lui da subito “un piglio più intimamente astratto” e al tempo stesso “naturalistico”, intendendo per esso “il farsi del naturale da dentro, il corpo pittorico come organismo, il crescere allo spazio nel tempo come geneticamente” (cfr. nota introduttiva al catalogo per la mostra presso Montrasio Arte, Monza 2004), fino a scegliersi e definirsi uno spazio tutto proprio e riconoscibile che non ha autentici compagni di strada, agito com’è essenzialmente da pulsioni e fantasmi interamente suoi, semmai apparentabili a suggestioni ricavabili o da testi poetici o dalla natura.

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È proprio questo aspetto, la personalità e originalità assieme a una peculiare sensibilità poetica, abbinata quest’ultima alla capacità molto rara in un pittore di darle corpo nella scrittura, che la critica ha fin dall’inizio notato e messo in evidenza nel suo lavoro, a cominciare da un critico come pochi altri acuto e avveduto, Franco Russoli.

Questi infatti aveva subito intuito e sottolineato nel catalogo per la mostra alla milanese Galleria Toninelli (1962), non solo le sue capacità tecniche affinate da un lungo esercizio ma anche la capacità di evocare ambienti naturalistici “senza disperdersi nei labirinti fioriti di un’arcadia formalistica”, trascrivendovi al tempo stesso “simbolicamente situazioni psicologiche”, fino al punto di leggere nelle sue immagini “la storia di una inquieta personalità umana, sempre tesa in una passione sentimentale, fino alla tenerezza, come fino all’acredine, e che tale foga controlla, giudica e spesso condanna al lume di una ragione che non abdica mai ai propri diritti”.

Vero e proprio mentore delle qualità già evidenti del giovane Giorgio, Russoli si concede perfino profeticamente un auspicio, che non andrà certamente deluso. “Sono sicuro”, dice infatti in conclusione della sua nota introduttiva, “di presentare, con questa prima personale di Larocchi, un vero artista, un nuovo pittore” e la sua è un’intuizione che poi le successive esposizioni andranno progressivamente confermando.

Negli anni a venire, infatti, non solo lui stesso e a più riprese, ma anche altri sensibili esegeti dell’opera larocchiana, quali Mario De Micheli, Roberto Sanesi e Alberto Crespi, ritorneranno sullo stesso tasto per vedere realizzato nel suo lavoro, di volta in volta: chi il maturo approdo a immagini di “serena e splendente autorità”, intrise di “una sostanza luminosa, terrestre, ma trasposta in termini di pura tonalità, in accordi fedeli a un’antica connaturata sensibilità pittorica italiana” (Russoli, per la mostra alla Galleria delle Ore, Milano 1969); chi una pittura capace di indagare ed evidenziare “la struttura di un’immagine senza peraltro preoccuparsi di un’esteriore verosimiglianza”, sfuggendo “ad una definitezza mimetica” per dar corpo attraverso un colore “di natura psicologico-lirica” a traslati di vita interiore di forte pregnanza e suggestione emotiva in una perfetta osmosi tra individuo e natura (De Micheli, per la mostra alla Galleria Il Cortile, Monza, 1977); chi l’”indizio di come tradurre il visibile in visione non caricando le immagini di simboli per sovrapposizione forzata ma spogliando l’oggetto, riducendolo a una traccia”, in modo che le cose vivano nell’ascetica eloquenza di una sorta di “vuoto estatico”, come “memoria del quotidiano e memoria di un possibile” (Sanesi, per la mostra alla Biblioteca Civica di Muggiò, 1986); chi infine lo sguardo fiero e leopardianamente compreso di chi si sente esposto all’azzardo di una difficile partita, tra ambito naturalistico e imagerie dell’irrazionale, e tale consapevolezza la trasforma in un tessuto segnico gremito di soprassalti formali, di premonizioni e inquietudini con “esiti lirici puri e risonanze inaspettate”, alla cui efficacia conferisce non poca forza e supporto la parallela attività di scrittura poetica, che nel tempo è andata facendosi sempre più assidua e necessaria (Crespi, su “Il Cittadino”, Monza 20.1.1994).

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Ma andiamo per ordine, seguendo la scansione delle sue mostre, non moltissime ma tutte ben calibrate, nel tempo, a dimostrazione di un percorso coerente e progressivo a partire da un’idea di pittura come sentimento della natura, che non vuol dire abbandono e panica immersione nell’organico, bensì esplorazione delle possibilità significative del reale attraverso un giusto equilibrio tra emozione e invenzione.

Come già si diceva, per anagrafe e formazione, i suoi esordi si collocato nella seconda parte degli anni ’50, del decennio cioè per antonomasia dell’informale.

Poche sono le opere superstiti di questo primo periodo, a fronte di un autentico furore creativo; poche tele ma determinanti e incisive, e molte opere su carta: sopravvissute, letteralmente, al fuoco di un empito distruttivo, alla dépense di una furia iconoclasta generata da una riconosciuta distonia esistenziale e morale, sono opere di forte impronta materica, che con la loro drammatica e pastosa tonalità-gestualità testimoniano l’adesione dell’artista a una visione della vita e dell’arte fortemente condizionata da pulsioni e reazioni di fronte a eventi e situazioni, di cui potrebbe dar conto un’indagine sulla valenza simbolica di certi colori. Basti a questo proposito “Composizione n°5” (tecnica mista su tela, 1961), in cui a campeggiare sulla tela è la “vicenda” cromatica di un rosso che si tramuta in verità formale assoluta entro un campo di cangianti tonalità grigio-marrone: quasi a dire, letteralmente, che il termine “composizione” significa e va letto per antifrasi, come il sintomo di una “de-composizione”, di un processo di autoemarginazione, di volontaria esclusione da un contesto armonico e fattivo, operato per il tramite dei segni-colori da parte dell’artista revolté, in disarmonia col mondo, in un periodo vittorinianamente di “astratti furori”.

Destinato a chiarificarsi sempre di più a partire da queste vigorose ancorché acerbe “prove” d’esordio, che pure sono gratificate da incoraggianti riconoscimenti (il Premio Diomira, 1957, tra gli altri), l’itinerario pittorico di Larocchi, a partire dall’inizio degli anni ‘60, si indirizzerà con progressiva consapevolezza verso una dimensione lirico-poetica sempre più marcatamente personale, perseguita soprattutto attraverso un colore (in una linea che è quella che Renato Birolli nei suoi Taccuini aveva definito assiomaticamente, “non materia”, bensì addirittura “nucleo emozionale”), che va tramutandosi in “fatto plastico” (come dirà più tardi Sanesi, nella nota nel catalogo alla mostra presso la Galleria Il Cortile di Monza, 1978), in esperienza segnica, a riprova di un’attività fantastica e illimitata dell’immaginazione, che, superato d’un balzo ogni pretesa di realismo retinico o metonimicamente gestuale, abolisce ogni referente oggettivo per lasciare definitivamente spazio a suggestioni evocative e musicali, a quella già altrove definita “forma / in fuga” (6/1/89, in Rammendi e nidi, 1990), attraverso una pennellata libera di acceso cromatismo e un segno teso e nervoso, razzente, senza comunque mai smarrire un solido e concreto legame con la matrice oggettiva dell’emozione in una occasione ben precisa, con l’ómphalos del sogno annidato in un’immagine (paesaggistica, animale, oggettuale).

È questa la stagione del primo vero consenso critico, quando, in occasione della personale alla Galleria Toninelli di via Bagutta, a Milano, nel 1962, si presenta al pubblico con una trentina di chine e tempere, accompagnato dal critico Franco Russoli, che spende per lui parole di convinto e significativo elogio.

C’è in lui, dice subito Russoli, una forte esigenza di “chiarificazione interiore e linguistica”, che si traduce da un lato nel rigoroso rifiuto della “suggestione del casuale”, del “non finito stilisticamente”, comodi espedienti di tanti per conseguire una facile “piacevolezza” di maniera, dall’altro nella ricerca di una essenziale “trascrizione” della sua coscienza della materia e della luce, attraverso un “segno nitido e senza incertezze”: una sorta di smascheramento dell’innocenza dei segni della natura, cercata con ostinazione e conseguita come “improvvisa illuminazione”, a testimonianza di una personalità artistica e umana, ricca di motivazioni e di prospettive.

Non meno di questo, è lusinghiero il viatico dello stesso Russoli per la successiva esposizione milanese, nell’autunno del ’65, presso la Galleria delle Ore, dove presenta una serie di opere incentrate su una sorta di antropologia del paesaggio, sul rapporto uomo-natura come generatore di significati.

Larocchi, dice il critico, ha raggiunto un livello espressivo in cui si è fatta più forte ed evidente “la vena della sensibilità nervosa, del lucido raziocinio che indaga le possibilità del linguaggio contemporaneo, della cultura che si traduce in struttura stilistica”, col risultato di dar vita a opere in cui si attua la “creazione di un ‘organismo’ in cui la stessa linfa cromatica, la stessa struttura grafica e plastica, danno forma alla realtà, diversa nei particolari aspetti, ma di unica essenza e vita”.

Un “pittore poetico”, lo definirà Mario De Micheli, recensendo tale mostra su “L’Unità” (novembre 1965), e questo in virtù della sua tensione “a cogliere il pathos della vita e del cosmo”: con le sue “immagini ambigue umano-vegetali”, Larocchi infatti dà ragione di una rara capacità di trasfondere nelle sue tele “il segreto dell’esistenza” attraverso una resa pittorica di “forme in divenire piuttosto che forme definite”, in campiture di colore “ondulate e densamente fluenti”, rivelando un a notevole maturità nel trovare un “tono giusto e sempre suggestivo”.

Tappa successiva e decisiva è la mostra del ’69, ancora alla Galleria delle Ore, a testimonianza di un processo che si va sviluppando in maniera armonica e regolare, senza rotture, ma progressivamente con crescite sicure e verificabili a livello sia concettuale che pittorico.

A dirlo è ancora Russoli, il quale a questo riguardo nota nella presentazione in catalogo come il precedente “fremito visionario, il rovello concettuale, si sono non placati, ma fatti più suadenti e veri nella conquista di un equilibrio compositivo, di una trama materia più frenata a intimamente elaborata”.

Opere nutrite di “una sostanza luminosa, terrestre, ma trasposta in termini di pura tonalità, di accordi fedeli a un’antica connaturata sensibilità pittorica italiana”: è proprio quest’ultima notazione, circa influssi e lezioni sulla sua pittura, quella che appare ora più importante. Dopo che già De Micheli aveva parlato di Birolli e del Migneco di “Corrente”, e che lo stesso Russoli aveva tirato in causa la “gloriosa tradizione di naturalismo romantico”, ecco che ora appaiono in piena luce debiti, ma filtrati in maniera personale e originale, con Morando e la “linea tonale italiana” e soprattutto Sutherland e certo “magico e inquietante naturalismo inglese”.

È in questa direzione che si muoverà la lettura critica della sua opera negli anni successivi: nell’evidenziazione di certe atmosfere del Birolli d’anteguerra del periodo relativo ai disegni delle Georgiche (lo dice De Micheli nel catalogo per la mostra del ’77, presso la Galleria Il Cortile di Monza), e soprattutto nella rilevazione della consonanza con certo naturalismo visionario inglese, pittorico non meno che poetico (è Sanesi a dirlo esplicitamente, chiamando in causa Thomas, nel catalogo della mostra dell’anno successivo, 1978, sempre presso la stessa Galleria).

Siffatta annessione a tematiche e a soluzioni espressive anglosassoni, lontane da certo naturalismo di ascendenza lombarda, diventerà, da allora in poi, una costante della lettura critica delle opere, anche grazie a Sanesi, poeta e traduttore, oltre che critico d’arte di chiara fama, che da quel punto si elegge a complice fraterno della sua avventura artistica, accompagnandolo in numerose mostre successive.

Eccolo, dunque, dopo aver rilevato che, “pur restando ancorata al particolare reale, al dato naturale osservato”, la pittura di Larocchi vuole esser letta come “un archivio di emblemi” (1978), Sanesi rende più esplicito il suo discorso nella presentazione di una cartella dal titolo emblematico, Frammenti di una piccola storia naturale (Zarathustra Arte Incontro, Milano 1978), parlando di “blakiana mimesi infantile dell’innocenza e dell’esperienza”, di “naturalismo inglese” ma in accezione ancora più impegnativa di come aveva già fatto Russoli, di “zona Palmer”, di bagaglio iconografico riconducibile “agli studi frazeriani”: come dire un ordine concettuale e figurativo fortemente connotato in termini di visionarismo.

Non diversamente, in una successiva mostra presso la Galleria La Colonna di Como (1982), parlerà di “misticismo laico”, di “stupefazione metafisica”, in cui “epifanie, fantomatiche emergenze” affiorano con assoluta naturalezza dal paesaggio, senza comunque perdere la loro concretezza. È un processo, questo, che diventa caratteristico di tutta la produzione di Larocchi fino alle soglie del decennio successivo, lasciando l’impressione che qui l’artista-poeta si sia esercitato con insistenza e tenacia a sperimentare un’idea di mutamento, di movimento, davvero interessante e necessario. Non è certo un caso che nelle opere di questo periodo ci sia tutto un proliferare di presente, realistiche e al tempo stesso enigmatiche, di elementi come uccelli, larve, insetti, elementi cioè animali che spesso sono posti in relazione con forme vegetali, a testimonianza di un’idea di perenne vitalità e ciclicità. È lui stesso, Larocchi, a riconoscerlo nell’intervista già altrove citata a Ugo Marchetti: “Gli uccelli spesso rappresentano il trapasso: sono uccelli trampolieri, dal volo silenzioso, con chiari riferimenti simbolici. Le larve e gli insetti ricordano il tempo breve della nostra esistenza e anche gli insetti come gli uomini attraversano una continua serie di cambiamenti più o meno complessi prima della morte. A me, e da sempre, è interessato soprattutto riassumere il concetto della organica unità tra individuo e natura”.

Le mostre degli anni successivi, nel 1994 e nel 2004, entrambe presso Montrasio Arte, danno campo, se non a una svolta, a uno sviluppo in direzione di un intorbidamento dello sguardo, come a registrare l’insorgenza prepotente delle forze più incontrollabili dell’irrazionale, che si concentra e raggruma per così dire nella violenta esposizione e messa a fuoco di dettagli, in campiture di colore forti e dalle tonalità spesso drammatiche, in cui ormai annega ogni fiducia della forma. Frammenti di corteccia o di pelle, foglie raggrinzite e contorte, lacerti di cielo rannuvolato o flagellato dalla pioggia o dal vento, minacciose nuvole foriere di tempesta: l’imagerie larocchiana dell’ultimo quindicennio rivela una progressiva sfiducia nei confronti di un mondo naturalistico in altri tempi osservato e rappresentato a interrogarne e carpirne i segreti movimenti, lasciando intravedere l’avanzare minaccioso di quello che Alberto Crespi ha chiamato “il freddo impero dell’inverno” (in “Il Cittadino”, Monza, 20, 1, 1994). È come se ora, dinanzi alla scheletrizzazione e mineralizzazione di ogni elemento naturalistico o alla sua distaccata indifferenza e insofferenza nei confronti dell’umano, così evidente nel “nero tagliente d’ossidiana” (in Esercizi di melancolia 29/7/2005) di certe tele o nello spazio sempre più marginale riservato al cielo (spesso ridotto a poco più che una striscia nella parte superiore del quadro), l’artista abdicasse da ogni attesa di “miracolo”, da ogni aspettativa di bene, dichiarando ormai la propria incompetenza a esprimersi sui massimi sistemi. Ma forse è solo un’impressione: forse questa rinuncia “è stata la sua scelta / il modo di cambiare direzione”, come dice in un testo poetico abbastanza recente (13/2/2001). Quale sia questa nuova “direzione” non è chiaro; certo è l’insistenza della figura del “mare” (“per rivedere il mare”, 6/5/2005; e “fino al mare”, 29/7/2005), col conseguente allontanarsi dalle atmosfere accidiose e deprimenti dei laghi, e l’emergere del “verde” (“la musica della poesia più verde”, 21/6/2005; e “un verde appena nato” (1/9/2005), che affiorano da certi testi poetici recenti, sembrano far presagire sviluppi, possibilità nuove di “bagliori” e di bellezza.

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Si sono fatti qui, nelle pagine precedenti, due nomi sopra gli altri: quelli dei critici Franco Russoli e Roberto Sanesi.

Su di essi, data anche la carature delle loro personalità, conviene per un attimo soffermarsi, per leggere attraverso la loro presenza nell’opera di Larocchi il valore e il significato del rapporto tra un artista e i suoi critici. Un rapporto che, a partire da occasioni di mostre, nasce come stima (reciproca, va da sé) e nel tempo, se dura, si tramuta progressivamente in amicizia e in consuetudine di incontri e di scambi di pensieri e di stimoli, rivelandosi capace di durare anche oltre la vita sotto forma di riconoscenza e devozione.

Questo aspetto, della devozione cioè e della riconoscenza, se non da altro, è ben testimoniato dai numerosi testi poetici che Giorgio ha sentito l’esigenza di dedicare a queste due figure fondanti (e fondamentali) della sua “avventura” artistica.

Per quanto riguarda il primo, oltre alle numerose più o meno esplicite citazioni in diversi testi, valgano due liriche, riportate entrambe nella raccolta Esercizi di melancolia.

“Forse per il modo di camminare / mi riconosco con Franco Russoli / al fianco in via Fiori Chiari. / Era il momento di mutamento / di consigli accettati di dubbi. / E le case attorno / coi muri ancora in rovina”: dice il primo testo, contrassegnato dalla data 8/10/2004, mettendo in scena una sorta di identificazione con l’amico-pigmalione all’interno di un paesaggio, quello della Milano di Brera e dintorni, in una stagione di “mutamenti”, di fermenti e di scelte, come quella legata alla mostra del ’65 alla Galleria delle Ore, una mostra di grande impegno e rigore, dove il suo “stile” così denso e leggero al tempo stesso aveva avuto modo di mostrarsi appieno, grazie anche ai consigli del “suo” critico.

“Nello studio di Russoli a Brera / sfogliando una cartella di disegni / cercavo di spiegare citazioni capire / malinconie la prima mostra degli americani / il déjeuner sur l’herbe e altri temi / la vita le scale che portavano alla cantina / alla casa di Franco alla mia / noi emigranti forse una nuova generazione / sepolta sotto la neve di Milano” (30/3/2005): la scena è pressoché la stessa del testo precedente, la stessa ambientazione e la stessa stagione (lo stesso Russoli vi fa riferimento nella nota in catalogo alla stessa mostra del ’65, quando parla di “una linea di ricupero del vero attraverso il filtro di precedenti ‘opere d’arte’”, citando appunto la “colazione sull’erba”), con in più la definizione della costellazione degli interessi dell’artista tra “americani” e la “nuova generazione” dei suoi coetanei del “realismo esistenziale” e la coscienza di un’erranza, di un’inquietudine e di un nomadismo esistenziale (altrove, sempre nella stessa raccolta poetica, dirà che “solo il dubbio ti apre alla speranza”, 10/12/2000), tali da farlo sentire “emigrante” in patria, alla ricerca di un ubi consistam etico prima ancora che artistico.

Più diffusa, certamente, e profonda, la presenza di Roberto Sanesi, dal suo apparire intorno alla metà degli anni ’70 fino alla fine, alla morte, il 2 gennaio del 2001, e anche oltre: una presenza che si è manifestata non solo nel rapporto artista-critico, dove al critico compete il ruolo chiarificatore di guida severa e serena, ma anche a livello poetico, e non in direzione univoca, se lo stesso Sanesi gli aveva dedicato un testo poetico, Da Efeso, dicembre, poi apparso in Alterego § altre ipotesi del 1974 (ora compare anche nel catalogo della mostra del 2004, presso Montrasio Arte di Monza, a lui esplicitamente dedicata).

Proprio nel catalogo monzese, c’è, a specchio di questo testo sanesiano appena citato, uno degli innumerevoli testi poetici a lui da Larocchi dedicati (se ne contano almeno altri quattro), forse il più intenso: “Eppure quell’improvviso correre / delle nubi verso le fioriture / del tramonto avrebbe dovuto / metterti in guardia farti intuire / la direzione presa per i sentieri / dell’acqua e il respiro della luce / che si estendeva in mille venature / al margine del buio era chiaramente / un progetto il segnale della partenza. / E dunque da tenere in considerazione / come disegno idea per raggiungerti” (20/3/2001).

Ecco, in quel “respiro della luce…al margine del buio”, mi pare consista il senso del legame tra i due poeti: l’idea di un patto “luminoso” e illuminante, di un’intesa profonda sui temi dell’esistenza, realizzata come antidoto ed esorcismo del buio, del silenzio e della morte, nella pratica delle risorse dell’amicizia attraverso il dialogo. “Gemme di parole Roberto / staccava luminose in dediche / a volte inquiete e le metteva / a fuoco sul foglio bianco / in una luce di miracolosa / purezza punta secca morandiana” (16/10/2004), dice un altro testo e non c’è chi non veda come in esso si metta proprio in evidenza necessità della ritualità energetica e corroborante del rapporto amicale, fatto di “gemme di parole” che passano attraverso il dono e la dedica di libri, quasi sacramentalizzazione di un più profondo dono di sé per il tramite dell’incontro e del colloquio.

A considerare dunque tutte queste si può concludere senza tema di essere smentiti che davvero per Larocchi potrebbe valere l’intitolazione da parte di Geno Pampaloni a una raccolta di riflessioni critiche, Fedele alle amicizie, se non addirittura un ancor più celebre titolo, Una lunga fedeltà, apposto a un saggio sulla poesia di Montale, da parte di Gianfranco Contini.

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Eclettica personalità di artista (pittore, disegnatore, scultore e incisore, oltre che raffinato, ancorché appartato, poeta), Giorgio Larocchi si è mosso da sempre sul difficile discrimine di linguaggi diversi, mettendosi continuamente in gioco e sperimentandosi nella pratica di volta in volta di forme, colori e parole nuove e diverse con delicata forza e competenza, in ossequio ad un’intima esigenza di espressione, fino a incarnare un modello tutto peculiare di artista che già Mario De Micheli aveva pensato bene di condensare nella formula “pittore poetico”, ossia di “pittore intento a cogliere il pathos della vita e del cosmo” con i mezzi di volta in volta considerati i più idonei e convenienti alla sua ispirazione (in “L’Unità”, Milano 1965), così come esplicitamente ha confermato lui stesso in un’intervista rilasciata a Ugo Marchetti, parlando di “un bisogno di cultura e di confronto con altri mezzi espressivi” per conseguire sempre nuovi “stimoli per la creatività” (in “La Voce di Como”, aprile 1982).

Per comunicarci per mezzo dei versi delle sue numerose raccolte poetiche (Rammendi e nidi, 1990, Ogni movimento disturba, 1995, Cinque movimenti, 1999 e L’intervallo tra un pensiero e l’altro, 2001 e recentemente Esercizi di melancolia, 2006), contrassegnate da una particolare attitudine di scrittura a metà tra diarismo “lombardo”, realistico-elegiaco, ed espressionismo visionario di ascendenza anglosassone, il suo stare consapevole nelle cose, la sua perplessa percezione di presenze ed entità naturali e animali, di paesaggi di boschi e di colline, di macilenti orti suburbani, di cieli ed acque, abitati da ambigue e sfuggenti creature di amore e di memoria, traducendo in un frantume di volta in volta opaco o luminoso di parole la sua inquieta attenzione e interrogazione dell’esistente.

Questo, con la stessa naturalezza e fermezza con cui da sempre ha continuato in tela o in carta ad esplorare e fissare in colori ora acidi e densamente pastosi ora fluidamente vibranti e trasparenti, in un tessuto pittorico o grafico di assorta, austera visionarietà (come giustamente rilevato a suo tempo da Sanesi, 1986), sentieri tortuosi di marcite e brughiere, grami campi gelati di una natura avara di dolcezze, altre volte cieli rannuvolati e carichi di presagi e minacce, sulle tracce di un’invisibile fauna palustre o migratoria, con l’orecchio a echi sfumati di richiami e segnali convenuti: con l’occhio attento ad essi, alla loro disadorna e scarna naturalezza, ma col cuore e la mente altrove, alla vita “altra”, annidata nelle loro pieghe più riposte, alla loro astratta eppure sensibile pregnanza, a ciò che emblematicamente li fa percepire come perfetti “traslati di una vita interiore”, dotati di una loro vita autonoma rispetto alla realtà e senza alcuna intenzione referenziale, come ha detto De Micheli (1977).

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“Frammenti di una piccola storia naturale”, aveva con complice acume interpretativo definito certi suoi lavori Roberto Sanesi, un buon quarto di secolo addietro, nella nota in catalogo per la mostra alla Galleria Il Cortile di Monza (1978), leggendovi un’attitudine a frequentare esperienze di senso non abituali alla ricerca figurativa “italiana”, carichi come erano di rimandi e allusioni ad un ambito di sensibilità e cultura assimilabile a un dipresso a certa contemporanea pittura d’Oltremanica. Notazione, questa, si badi, non nuova, se già era stata rilevata da Russoli nel ’69, nell’atto di mettere in guardia, di fronte alle opere esposte alla Galleria delle Ore, da una loro lettura di taglio essenzialmente realistico e troppo “lombardo”, per immetterli in un ambito tematico e tonale ben più vasto e intrigante, quello appunto del “magico e inquietante naturalismo inglese” e segnatamente di Graham Sutherland.

Nuova e più decisa, rispetto all’intuizione di Russoli, è comunque l’assimilazione e messa a fuoco da parte di Sanesi, uno che con gli anglosassoni, scrittori (Thomas, Eliot, Blake) o pittori (Sutherland, Richard) che siano, ha avuto una frequentazione lunga e di riconosciuta intensità e profondità. Con tutto quanto comportato da questa impegnativa annessione in fatto di oggettività originaria e di assenza di descrittivismo, rapportabile com’è al groviglio proliferante e vitale di una sapienza più profonda, magico-alchemica, che fa della rappresentazione dei più disparati elementi della natura (una foglia, un tronco, un bulbo, un virgulto, una radice, ma anche un uccello, un insetto o una nuvola) immagini emblematiche e metaforiche del ciclo vitale, indotte ad imitare, attraverso un meccanismo associativo strettissimo, non l’apparenza ma l’energia interna e metamorfica che percorre la materia, la stessa perenne, intricata “storia” del naturale nei suoi aspetti più oscuri e misteriosi: “cifra di un discorso attorno ad alcuni significati appunto elementari”, piuttosto che oggetti dotati di valenza soltanto “descrittivamente naturalistica” e veristica.

Più tardi, proprio riflettendo su questo nodo essenziale, lo stesso Larocchi, rispondendo nell’intervista già prima citata a una precisa sollecitazione di Ugo Marchetti, sugli artisti contemporanei maggiormente per lui significativi, ammetterà di aver assimilato soprattutto la lezione di Paul Klee e di Sutherland, prima dell’incontro decisivo con Ceri Richard, riconoscendo che le loro tematiche sono state sì importanti per la sua creatività, ma di essersi poi sforzato di interpretarle, quanto più possibile, “in modo autonomo e personale”: “Penso a Paul Klee, forse per quel che riguarda il processo creativo, sempre a metà strada tra la realtà e il sogno. Poi a Sutherland e in generale all’area inglese ed ultimamente anche alle ricerche poetico-visuali”.

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Ecco, è da qui che si possono prendere le mosse per accostarsi al lavoro di Larocchi, così come è andato svolgendosi soprattutto da un certo punto in poi (diciamo, dalla metà degli anni Ottanta), tra pittura e scrittura: da questa definizione, “frammenti di una piccola storia naturale”, coniata da Sanesi per inquadrarne la “ricognizione attorno al senso del naturale” attraverso grafica e pittura, ma che può ben adattarsi a tutta quanta la sua opera, non soltanto quella figurativa, nel suo più complesso svolgersi e articolarsi.

Nella prima non meno che nella seconda, infatti, a prender corpo verbale o figurativo è l’esperienza di un’infaticabile e appassionata viandanza per i sentieri di una bio/geo/grafia fantastica e al tempo stesso realistica e concreta (quella delle sue “celtiche” plaghe brianzole), con l’attenzione a scandire passi e pensieri, attimo per attimo, immagine dopo immagine, in una trascrizione capace di specchiarsi nelle proprie interrogazioni e “illuminazioni” (è stato sempre Russoli a usare questo termine, che colloca e connota la prima ricerca figurativa come esperienza di “un magma di colore e luce corposi” e incandescenti, 1969) con la nervosa corsività del suo segno non meno che nella modulazione del suo ritmo modellato sull’ampiezza del respiro.

Un sorta di regesto, insomma, realizzato per minimi tasselli figurativi e lirici, la trascrizione di un modo di “sentire” la vita, l’esistere (ex-sistere) nel suo più vitale succo etimologico di presenza istante per istante, entro un mobile, infinito orizzonte di senso, una totalità, che progressivamente concresce e si struttura tra vuoto e vuoto, nell’”intervallo tra un pensiero e l’altro”, addirittura, come recita il titolo di una intensa mini-raccolta poetica del 2000, nella nervosa correlazione dei suoi frammentari reperti immaginali e fantastici, immessi nel contratto paesaggio di un testo a fare i conti con l’oscuro annidato dietro l’ordine araldico e rigoroso di forme di apparente immobilità geometrizzante.

Si tratta, come si vede, dello stesso sentimento, che tra “realismo esistenziale” e lirica gestualità permea e sostanzia la discrezione delle sue forme pittoriche, così come la quieta esplorazione del mondo animale e vegetale, operata per via poetica in sobri fotogrammi di parole che traducono una visione dell’esistente fortemente allarmata, quale è dato verificarla in testi editi e inediti.

Ne cito a caso tre, segnati da un’identica sostanza, se non anche tematica, stilistica: il primo tratto dall’inaugurale Rammendi e nidi (Book Editore, Castel Maggiore, Bo, 1990), risalente al 2.10.89; il secondo, appartenente alla raccolta Esercizi di melancolia (ibidem, 2006), contrassegnato da una data, 28.12.1997; il terzo dalla raccolta, L’intervallo tra un pensiero e l’altro (Signum, Bollate 2000).

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“Dalla nebbia ancora verranno / su esili raggi d’inverno / uccelli cercando le tracce / le canne di dicembre / in questo silenzio di palude./ E troveranno occhi d’acqua / lacrime nella rete del mattino / nella barca ancorata alla riva”. Su un paesaggio di putride acque e nebbie, in un tempo opaco di silenzi e solitudini, c’è un’allerta dei sensi e del pensiero nel presagio di una luce, di un’ansia e promessa di vita, capace di smuovere e drammatizzare l’ordine stanco degli eventi con una nota di pathos, col brillio di un pianto muto e disperato, impigliato “nella rete del mattino”: tutto è preciso e rigoroso, dal lessico alla metrica, dalla messa a fuoco dei dettagli alla gradazione degli effetti. Larocchi, in questa raccolta d’esordio, sa cogliere come pochi altri l’attimo in cui avvengono e svaniscono forme e suoni, cose e visi, di inquietante istintività e verità, su una scena governata da un’istanza di memoria, come pare affiorare paronomasicamente dai precordi etimologici dei Rammendi del titolo, in cui risuona l’esigenza di ricostruire e ricucire una trama lacerata e l’insidiato alveo dell’infanzia col suo sogno di nidi e di un tempo delle favole. Secondo una strategia che resterà costante in tutta la sua esperienza successiva di scrittura, di siffatto mondo poetico pietà e fedeltà sono il lievito morale e stilistico: pietà, nel senso più letterale di candida genuflessione alle cose, alla vita nel suo molteplice dispiegarsi e resistere ad ogni minaccia di sgretolamento e scomparsa, fedeltà, nel senso del rispetto alla traccia, alla memoria di ciò che trascorre senza dissolversi ma anzi continuamente trasformandosi. Una scrittura, dunque, che ha coscienza di se stessa, più che come mimesi del reale, come “sentimento”, tanto più necessario e suggestivo in quanto è avvertito chiaramente come “altro”, non puramente elegiaco e consolatorio ma anzi agito da una salutare scarica energetica, capace di indurre anche noi, complici e “fraterni”, a secondarlo e farlo nostro.

Non diversamente dalla lirica, è proprio dagli stessi “esili raggi d’inverno”, che sembra essere guidato e retto il volo delle file leggere di aironi o di chissà quali altri più o meno riconoscibili volatili, che miracolosamente sfida, nelle carte di un trittico degli anni Ottanta, il silenzio di nebbie e paludi alla ricerca di indecifrabili tracce, mentre da una tela, datata 1985, tra cieli ed acque, sotto l’attonito sguardo di un pennuto, si levano a fissarli nella loro temperie di pallido ocra due occhi inquietanti e misteriosi, disegnando una sorta di mistico punto di contatto e fusione tra elementi superiori e inferiori dello scenario naturalistico, tra due diverse metamorfiche fluidità, quella del cielo e delle nuvole, da un lato, e quella dell’acqua dall’altra, in presenza di un principio equilibratore, inscritto nella pensosità dell’animale.

Una sorta di candore latteo e lunare intride e permea l’una e l’altra scena: il candore forse di chi, pur non potendo rinunciare al suo bisogno di sapere, ne intuisce già in anticipo la vanità; o il candore di chi con pudore ed ispido garbo si accosta, fascinato e impaurito, a un nodo oscuro dell’essere, a una verità sul punto di svelarsi, consapevole della sua crudeltà e al tempo stesso della sua innocenza.

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“Certe volte rubo pioggia alle nuvole / e la stempero con chine colorate / per disegnare in cielo messaggi parole misteriose / che sembrano voli d’uccelli e anche prati / e i boschi di sera coi loro capelli rossi”(28.12.97). Quello che colpisce in questi versi, assieme all’esplicito riferimento al mondo dei suoi interessi pittorici, è la stessa capacità, già prima riscontrata, di costruire attraverso il ricorso al suo consueto armamentario tematico e lessicale il teatro di un’esperienza essenziale, accendendo nell’immagine un pensiero, secondo modalità che possono ben far assegnare al testo il valore di una dichiarazione di poetica, che interessi scrittura e pittura al tempo stesso.

“Messaggi parole misteriose / che sembrano voli”, i versi di Larocchi, non meno delle sue coeve figurazioni (penso alle cortecce o alle foglie della sua ultima mostra monzese del ’96), si collocano sull’incerto discrimine di una realtà, in cui convivono quotidianità e mistero, interiorità e universo, sottraendosi continuamente a una fruizione univoca, a una lettura naturalistica e superficiale dei dettagli, per agire sui follicoli segreti e sotterranei dell’immaginario, carichi come sono di rimandi e intermittenze di senso, di rifrazioni e aloni, che ci riportano a figure forti della sua cultura figurativa e poetica (Richards e forse Sutherland, da un lato, e Sanesi dall’altro) e che solo tutti insieme nella loro totalità danno forza e consistenza a una singolare esperienza di contatto profondo col mondo archetipale. “Parole” che sembrano sempre qualcosa d’altro, gli “oggetti” rappresentati si caricano così di allusività e suggestione facendo emergere dietro l’apparente scabra referenzialità di forme e colori l’ambiguità di più complesse e antropomorfiche significazioni, che qui in questo caso specifico di foglie e cortecce sembra alludere in un gioco di mutazioni naturali alle dinamiche stesse dell’esistenza a partire dall’umido, misterioso alveo della generazione e della vita.

Visto in quest’ottica, il progetto, poetico non meno di quello figurativo, di Giorgio non può non sorprendere per compattezza e coerenza, sia a livello contenutistico che stilistico, giocato com’è su registri di sobria narratività, su una misurata scansione degli effetti, che assieme a una parsimonia tematica scrupolosamente perseguita fa sí che emergano e s’accampino situazioni e personaggi in una temperie etica di ascendenza inconfondibilmente lombarda, benché a tratti accesa di allusive e vive sprezzature, a testimonianza di un’attenzione a una cultura (poetica e figurativa) anche molto distante dalla nostra, sulla scorta di una fertile curiositas.

“Ora che l’esperienza / non dà più affidamento / tenta d’osservare / al di là della siepe./ Non ascoltare suggerimenti./ E’ meglio perdersi rinascere / nella più completa innocenza”(5.12.00). Il Larocchi poeta più recente sembra collocarsi nel segno di una riconquista di “innocenza” e leggerezza, fatta di scetticismo e diffidenza nei confronti di ogni ricetta ideologica preconfezionata, giungendo ad auspicare un senso nuovo della vita, una vera e propria riconsacrazione dell’esistente e del visibile, attraverso un fiducioso abbandono ai “sensi”, alla capacità di trovare da se stessi “la traccia tra l’erba / il sentiero più adatto per la fuga”, come dice un altro testo della stessa raccolta, L’intervallo tra un pensiero e l’altro. L’”oggettualità” a tratti fredda e distaccata dei testi delle prime raccolte sembra aver definitivamente lasciato il posto ad una più mossa articolazione concettuale oltre che ad uno sguardo di intelligenza che illumina un gioco sottile di evocazioni e allocuzioni, frutto forse di un’accettazione di pensieri e ansie nuove, di fronte a un mondo che cambia e che dal poeta chiede un atteggiamento nuovo, più umano e disponibile.

Sobrietà della parola, scrittura amabilmente ascetica, lucida ma anche ironica, esposta ad emozioni sotterranee e attenta a cogliere con religiosa dedizione le più piccole sfumature di colore, i minimi movimenti e mutamenti (“l’intervallo tra un pensiero e l’altro”) delle cose : è come se il poeta, di fronte al sempre più incerto e frammentato orizzonte del contingente, dichiarasse con serena e tranquilla malinconia una mai prima dichiarata nostalgia per una comunità degli animi, l’auspicio di una riconciliazione e quasi di un rinsaldamento della “social catena”, auspicata da Leopardi (nella “Ginestra”) tra tutti gli esseri, animali vegetali minerali e umani che siano.

Non meno del poeta, l’artista è a un’identica utopia che sembra attaccarsi, proiettandosi oltre la “siepe” dell’”esperienza” della concretezza e matericità, negli spazi per antonomasia della leggerezza, nel regno delle nuvole (“forse…”), da dove la dantesca “aiuola che ci fa tanto feroci” può essere guardata e rappresentata con ragionevole distacco, in una cartografazione senz’altri referenti che l’occhio dell’osservatore cauto e perplesso quanto basta ma pure finalmente libero di confrontarsi soltanto con i propri fantasmi.

Gli strumenti linguistici, per il poeta non meno che per il pittore, sono quelli di sempre, ma con in più una volontà di provocare un contatto, un dialogo con situazioni e realtà, mettendosi in gioco più direttamente e in prima persona nell’affermazione della propria verità, quasi a voler snidare con l’ostensione della propria umana debolezza limiti e pregiudizi degli altri, forzandoli a penetrare col suo stesso sguardo d’intelligenza la scorza di insignificanza dietro le quali le cose si celano per dar corpo ad una epifania finalmente felice di senso attraverso la parola dell’arte, poesia o pittura che sia.

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“Con tenera inquietudine / la nuvola annusa la terra / cercando fantasmi veleni / tra quotidiano e memoria / indagando l’ombra caduta / i corrugamenti dei rimpianti / che annaspano nel nostro io / nelle nostre albe profonde. / Su esili raggi invernali”.

Ecco, è nel segno dell’”inquietudine” che si colloca l’ultima ricerca di Larocchi: nel segno di un allarme, che porta la sua sensibilità ad indagare “fantasmi e veleni”, con l’ansia di chi vuole scoprire e mettere a nudo le pieghe (e le piaghe) più riposte della realtà, eliminando tutto il precario e l’effimero, i “corrugamenti”, che ottundono e oscurano la coscienza fino a rendere l’io impotente e refrattario ad ogni slancio. Una situazione, questa, che certo non è nuova ma che ora più di sempre si configura come un’esigenza essenziale, non più dilazionabile: come un antidoto contro il rischio dell’insignificanza di ciò che più sta a cuore al poeta, non meno che all’artista, indagatore di forme-simbolo nello scenario di una natura insieme concreta e visionaria.

Stare sulla terra, viverla e “annusarla”, e al tempo stesso distaccarsene, prenderne le distanze; sentire il mondo, la vita, dando un nome e un senso alle cose, e contemporaneamente liberarsi dalle sue meschinità, dal teatro della crudeltà dei rapporti più falsi e mistificati, in uno slancio di leggerezza, in un ricupero di innocenza e di pulizia morale, magari anche con una punta di polemica nei confronti di ogni efficientismo e carrierismo (non si dice per caso “stare con la testa tra le nuvole” giusto per contestare proprio un’assenza di realismo?): è questo che vuol dire la “nuvola”, col suo stare “a un palmo dal mondo” (cfr. il già citato 20/12/87), con la sua esibita inappartenenza alla concretezza e ad ogni fattività?

Io credo di sì, almeno a dar retta anche a quegli “esili raggi” dell’ultimo verso, in cui al senso di una luce di verità si coniuga l’allarmata percezione di un tempo di gelo e di aridità, consegnandoci l’immagine di un uomo più che mai à sa proie attaché ma con un di più di delicato pudore, di “tenerezza” e amabilità, che liberano la sua dizione dalla “cosalità” ossificata e dalle più scabre impuntature di certa sua lirica precedente.

“Ora che l’esperienza / non dà più affidamento”, pittore e poeta, nel tentativo di guardare in faccia e nominare l’arcano che è nelle cose, per familiarizzare con esse, congiungono finalmente le loro forze, sotto il segno delle “nuvole”, all’insegna cioè di un principio di illimitatezza e imprendibilità, per dire il potere dell’immaginazione umana come capacità di dar forma a ciò che è labile e casuale, a ciò che sfugge e si pone oltre la sua portata immediata.

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Forte di queste consapevolezze, Larocchi si pone su una scia, che solo nel ‘900 si configura ricchissima di sorprese, come dimostra anche una pur rapida campionatura di testi poetici.

Dalle suggestioni simboliste (“una nuvola / grigia che pigra fuma nel vitreo / serale silenzio”, Pascoli) alle densità metaforiche dell’ermetismo (“Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue/ salite dalla terra”, Quasimodo), dal ricupero memoriale della poesia della cosiddetta “linea lombarda” (“Per anni ho guardato le nuvole/ a oriente di questa terrazza/ senza curarmi se fossero/ diverse”, Erba) alla concentrazione metafisica di certa lirica frequentatrice di boschi sacri di area soprattutto anglosassone (“e tuttavia si poteva distinguere, ai margini/ delle nuvole basse, una danza insensata, frenetica/ di fiamme e fioriture”, Sanesi), si disegna finalmente, sulle quinte di un cielo mutevole e mirabile, tramato com’è di ombre e di luci, un alfabeto simbolico, capace di far convivere immaginazione e disciplina, libertà e necessità, come è messo in evidenza anche da un testo poetico di un suo complice-amico, stimolato proprio dal suo lavoro (“nomi e nuvole e nel sogno l’inquieto/ procedere, dicevi, oltre il turbine/ di una trama di fiamme e fioriture: // lessemi svolazzavano nel freddo/ e negli occhi un lampo d’inquietante/ purezza forse irruppero per Giorgio:”, Una visione elementare, XVI, 2005).

Tutto questo, non casualmente, avviene sul duplice versante della sua creatività, nella poesia non meno che nella pittura, a testimonianza di raggiunta coincidenza di intenti e linguaggi.

Se nella prima il processo appare abbastanza chiaramente delineato anche dai minimi lacerti testuali già addotti a riprova (ma molti altri potrebbero apportare indubitabili conferme), la seconda ha dato vita a una serie di ricerche grafico-pittoriche, che hanno trovato la loro più convincente realizzazione in almeno due occasioni: la prima nella mostra personale presso Montrasio Arte, Monza 2004, dal titolo quanto mai esplicito, Nuvole, forse…; la seconda nella collettiva Quel che resta del cielo, Rodi-Fiesso, Ossuccio, Vienna 2006, dove un titolo non meno significativo, Sotto il segno delle nuvole, le colloca subito in uno spazio di precisa pertinenza.

A proposito proprio di quest’ultima e per comprenderne gli intenti,

può valere, comunque, quello che lo stesso Larocchi ne ha detto in una paginetta quanto mai profonda nella sua essenzialità, che conviene riportare integralmente: “Spesso di fronte a una tela ancora bianca, i primi segni s’inseriscono incerti, poi improvvisamente percorrono linee decise, tracce contorte di sentimenti e ombre, spazi di silenzio e deliri di piogge e turbamenti. A volte una siepe si muove appena, anche se l’aria è calma, calda in una serata di giugno che inizia ad essere torrida; e io sprofondo nei miei pensieri, preso da un orizzonte carico di nuvole scure che lascia però intravedere una lama d’azzurro, proprio al confine. Un suono sordo, forse un respiro affannoso proviene dalle foglie del lauro e la siepe di nuovo comincia a gonfiarsi, ad allungarsi, ad assumere movimenti strani, quasi un corpo oscuro le premesse da vicino… come un’ala tenebrosa della notte rimontata da una corrente silenziosa. Ora striscia trascinandosi nell’erba viscida e nera: mi lascio prendere dalla paura e, alzandomi, attraverso il prato e con un balzo salto il muretto che separa il giardino dall’orto, gli ostacoli della mia infanzia, e attendo. Qualche tuono brontola lontano quando un bagliore illumina una forma opaca che si dilata contorcendosi. Da una ferita sgorga un liquido verdastro, forse nero: mi sorprendo a urlare mentre una pioggia violenta cade mista a grandine. È solo ora che mi appare un animale con un ventre enorme, senza pelo, insomma nudo, con una lingua angosciosamente molle: avanza lento ondeggiando come una serpe, come a volte certi ex-amici che hanno le mani sudate, lo sguardo torbido, e ti vengono incontro simulando un sorriso. Lo riconosco all’istante e mi fermo: lo lascio scivolare verso il buio, verso strade che ho deciso di abbandonare. Il cielo è tornato sereno e profondo e vedo tutto lucidamente, anche le gocce di rugiada, i colori che cadono sulla tela, sugli occhi della notte ormai conclusa” (Quando un bagliore illumina una forma, nel catalogo “Quel che resta del cielo”).

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Soffermiamoci, per un attimo, su alcuni punti di questa importante dichiarazione, che in chiave per così dire allegorica mette in chiaro il suo pensiero presentando la situazione in cui sente di vivere di fronte all’emergere di un’idea e ai problemi espressivi da essa comportati.

Una “tela bianca”, innanzi tutto, poi “i primi segni”, dapprima “incerti”, poi progressivamente “linee” sempre più “decise” a proclamare i diritti del mondo immaginale dell’artista, che premono per trovare visibilità, e soprattutto l’idea dell’illuminazione, dell’esposizione sotto una luce essenziale (“un bagliore”) dei fantasmi del suo inconscio che si tramutano in forme, producendo un effetto catartico (“Il cielo è tornato terso…”): in altri termini, il mondo dell’immagine si definisce così, a poco a poco, come un processo di lenta approssimazione e chiarificazione della forma in direzione di una umanizzazione del puro fatto tecnico.

Un percorso in fieri, dunque, in cui ciò che conta veramente è il fare, il porre in atto la decisione di investire “sentimenti e ombre” sulla tela, come alveo complice e accogliente di pulsioni che chiedono di esporsi, di tradursi in forme-colori. Si tratta di un processo di appressamento a un’idea di sé, prima ancora che un’immagine definita del profondo: un “infinito intrattenimento”, per dirla con Blanchot, di cui l’artista svela a tratti drammatica consapevolezza, come lascia intuire un testo poetico molto recente di Esercizi di melanconia, datato 10/11/2004: “Perdo un disegno. / Cerco di rifarlo / ma non è lo stesso./ Lo ripeto per tutta / la vita ma ho smarrito / le tracce e giro attorno / afferrando una forma / forse me stesso”.

“Afferrando una forma / forse me stesso”: è in questa consapevolezza che si muove l’artista nella sua stagione creativa più recente: nello sforzo di definirsi come unico referente della propria ricerca infinita, a costo di immergersi e perdersi nella “palude” del proprio inconscio (essendo proprio essa, la “palude”, “il grembo più lievitante è la palude”, come aveva intuito Alberico Sala, in catalogo alla mostra dell’’84, presso Montrasio Arte), là dove, nell’”ombra profonda dell’anima” (così nel testo conclusivo di Esercizi di melanconia, 1/9/2005) si svolgono le più aspre ma silenziose mutazioni.

Proprio dentro questo spazio, la “palude” intesa come luogo dove abitano tutti i fantasmi (paure, sogni, voci, memorie, desideri) del proprio immaginario, Larocchi vive con la devozione e l’attenzione di un “officiante laico” (la bella definizione è ancora di Alberico Sala) che si pone sulla soglia del suo naturale “santuario di foglie, petali e spine” in attesa di miracolose metamorfosi: cosciente di essere lui stesso, l’artista, traccia di quel “disegno perduto”, “forma” di quel perpetuo circuito di produzione e distruzione in cui per assunto consiste la vita.

VINCENZO GUARRACINO

2 comments

  1. Marica larocchi ha detto:

    Sono contenta che questo saggio pregevole abbia trovato finalmente una dignitosa collocazione. Ne sono fiera e ringrazio Vincenzo Guarracino per la devozione dimostrata nei confronti degli esiti artistici e letterari di mio zio, Giorgio Larocchi

  2. sergio rivolta ha detto:

    Leggere queste pagine egregiamente esposte dal Sig. Guarracino mi consentono di rivivere quella che per tredici anni è stata la mia conoscenza di Giorgio Larocchi.

    Per lavoro, sono stato suo collaboratore, e in quei tredici anni ho potuto “vivere” quella che è stata la figura di Giorgio, ho avuto modo di frequentarlo anche nella vita privata, conoscere la moglie, e devo dire di essere stato fortunato… Fortunato per aver ricevuto in dono da lui molto di quello che era il suo sapere, la sua intelligenza, la sua cultura…

    Grazie ancora sig. Guarracino per questa egregia disamina sull’amico Giorgio.

    sergio

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