Gilberto Isella, Criptocorsie, Book Editore 2021, Riva del Po (FE)
L’istrice insofferente
Adam Vaccaro
Ci sono versi in esergo di questo libro, significativamente titolati “CV: Nato il 25 giugno 1943…”, che sono forma di poetica e programma poi svolti dal testo, che è tutto nella ricerca di percorsi aperti oltre “cose ferocemente ovvie”. Un curriculum che si dipana fuori da ogni imposizione: “nulla vi è chiesto di fare”, ma “vi toccherà invece strappare/ l’intera latitudine/ dalle coordinate d’uso/ del pianeta”. È un programma insofferente dell’ovvio, ma che nel contempo non vuole e non può uscire dalle corsie che inanellano la vita, a partire da quella, “più ovvia e tàcita” che comincia in un giorno e in una anno precisi, generata da nomi impressi nelle “lapidi”. (p.11)
È un programma di lettere cui non basta l’impressione sulla carta, ma cercano una incisione di memoria più resistente, lapidaria. Una sfida che si schiude quindi da subito dentro il paradosso originario dell’arte e della poesia, di non imitazione illusoria, ma reinvenzione – antichissima e modernissima – senza reti di garanzia rispetto a ciò che è e pretende di essere l’assoluto indiscusso e indiscutibile.
Poesia dell’impossibile e dell’irrisolto irrisolvibile, che continuerà, ma che questa scrittura insegue, forse con moti goffi e inconsulti ma anche con aculei di un istrice, che non ha alcuna intenzione di rendersi animale ornamentale e pacifico: saremo “a guisa di un virgulto insospettito” tra “…le delizie/ benedette maledette del creato”, “tra il respiro di un angelo/ e le ali del nostro smarrimento” (Torneremo virgulti in Atlantide, p.143).
Sono versi che ci prendono e fanno volare oltre, il presente e le sue banalità del male e del bene, che però non è escusso e cancellato in una arcadia accovacciata e appagata sulle proprie uova letterarie. No, qui l’insofferenza è presente e inscindibile dal qui e ora, tesa ad aprire spazi e tempi utili a svestire e ripensare le ovvietà spacciate dal corteo di servizio, “per spostare la bomba deposta dall’aquila” (p.11) del dominio in atto.
Entro questo quadro, Isella ama i percorsi obliqui, che intrecciano levità e aculei, aprendo man mano pertugi laterali di senso, che agganciano e non lasciano tranquillo, al pari dell’Autore, il lettore. Ad esempio, a p. 61, parte da una citazione di Vladimir Nabokov (si può citare qui e ora un nome russo, senza rischiare epìteti?), “C’era un paragrafo…in cui tutte le parole cominciavano con ‘p’”, dopo di che il testo prosegue: “Solo parole che cominciano con P/ porta il dizionario…ma tra Profeta/ e Prometeico s’insinua/ uno iato/ (già trafitto Profitto)//,,,/ dove la Preziosa affiora/ senza toccare Pienezza, Pretesa/ Progresso ha cancellato// Parola inessente,/ bandiera eroica carica di pena/…nell’urna sottostante”.
Un’urna che non è elettorale, ma cimiteriale, carica di pena, per una cerimonia funebre dedicata alla rarefazione del senso. Ed è una immagine ripresa a p. 95, che parte da suoni in ‘M’, anche qui con giochi in apparenza solo verbali, che aprono poi squarci tutt’altro che giocosi: “Mano è nave orante tra gli scogli, le unghie/ scialuppe…e gorgoglia scrittura// Mano madre plurivalente, la notte/…scuote lettere nel palmo, vi coglie/ una M esiziale e la dipinge/ coi colori dell’urna/…tra due M mute a mezzanotte”
Splendida e geniale serie di salti e lampi che “coi raggi descrive un tragitto di murena”. La M del testo si chiude sull’immagine della murena, allegoria di voracità e agguati affidati ai denti affilatissimi di un animale che, all’opposto del Soggetto Scrivente che scava e scova sensi aprendo pregiati gusci nascosti tra echi di lingua, è privo di tale propaggine al servizio della violenza della sua fame. Sta poi al lettore decidere quale metafora far incarnare da tale allegoria nelle infinite varietà e moltitudini antropologiche, tra le quali abbiamo la ventura di vivere e sopravvivere, in un circuito in cui cerchiamo in primo luogo di agguantare un senso, vitale per gli esseri umani al pari del cibo.
Il nucleo vitale di tale Soggetto, è esposto nell’esergo dell’ultima sezione “CRIPTACOLI” in cui è citato F. Hoelderlin: “Il mio canto…come la sorgente segue il fiume”. È una visione eraclitea, esplicitata dal prosieguo del proprio testo: “Si viaggia alla cieca. Sorgono visioni da corsie nascoste, antimondi. Le chiamano criptacoli: emersioni di un’iride occulta…incontrollabili del pensiero e del senso…segnali postumi dell’hoelderliniana povertà, unici fasti concessi da una Corsia divina in dissoluzione.” (p.85). È qui evidente la concezione di una poesia moderna, quale progetto ignoto, se e in quanto coinvolge la propria totalità e molteplicità, di cui è parte fondamentale quella non conosciuta e non conoscibile mai del tutto, dell’Es.
Il percorso è perciò costituito da “Tasselli mutevoli di un grande intervallo”. E qual è questo intervallo? Alla domanda il libro dà risposte, innervate in quanto appena detto ed espresso limpidamente nella domanda di questi versi: “chi coltiva in sé stesso un germe/ un lumicino di totalità?” (p.141). Solo così, dice implicitamente la complessa tessitura del libro, “osserveremo un intervallo scivolare tra nubi e ringhiere/ a guisa di un virgulto insospettito” (p.145).
Salti di immagini tra alto e basso, a caccia di quella totalità inseguita, nello spazio e nel tempo, ben oltre il tempo e il piccolo intervallo di vita concesso al singolo, al quale però spetta il compito vitale ed etico di ridare vita al virgulto (uno termini ripetuti nel testo), teso tuttavia a scovare “la faccia velata di Atlantide/ (forse chissà)” (ibidem). E “in quello zigozago/…/ non mancherà la cosa per noi più soave,/ avvinti in un lampo di cobalto// risveglieremo Atlantide/ nelle pieghe argentine di un virgulto” (p.152)
Sono gli ultimi bellissimi versi, di gioia e gioco serissimo che non si arrende, di una poesia dell’impossibile e dell’irrisolto che non angoscia perché, nel moto “frastornato” dentro un insolubile “enigma” e una “incomprensibile regia” e (p.155), l’istrice insofferente, immagine con cui sintetizzo la tessitura complessiva del libro, sa che tutto continuerà nel grande intervallo tra il mito di Atlantide e i nostri incerti resistenti virgulti.
Adam Vaccaro
Ricevo da Gilberto Isella il commento che segue, con la preghiera di inserirlo in sua vece, per problemi tecnici che glie lo impediscono
Adam
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Per Adam Vaccaro – Milanocosa (commento)
Sono grato ad Adam per l’attenta, acuta lettura della mia raccolta Criptocorsie. Una lettura non ai margini, o come si dice ‘di servizio’, ma attenta a cogliere, anche interpellando il non detto, le motivazioni profonde del mio percorso poetico. E Adam ha fatto bene, in tal senso, a caratterizzare i versi in esergo come “forme di poetica e programma”. L’accenno alle “lapidi” (1943, anno della mia nascita, proprio al culmine di una spaventosa guerra) non intende infatti evocare, per contrasto, la morte in termini genericamente metafisici, bensì accompagnare il lettore sul drammatico e concretissimo crinale che ha funestato un secolo intero. Un’“incisione di memoria”, come osserva giustamente Adam, che penetra nelle corsie evenemenziali dell’oggi per interrogarne gli aspetti più oscuri. Fenomeni significabili, almeno in parte, solo grazie a quel linguaggio “senza reti di garanzia” che è la poesia. Là dove essa, osando nominare il cripto, cerca un varco, una corsia propria entro la dialettica, spesso insoddisfacente o equivoca benché orientata sul cosiddetto ‘reale’, delle narrazioni sociopolitiche. Di lì il mio ricorso all’allegoria e agli archetipi, ma di archetipi ‘fissurati’, beninteso, si tratta. Siamo insomma condotti, con la poesia, nell’ambito dell’”irrisolto irrisolvibile”, o del transreale; posti di fronte, se si vuole, all’Altro lacaniano, in tutta la sua vertiginosa imprendibilità. Per quanto mi riguarda, aborrisco l’arcadia e la sua retorica consolatoria– come ha ben visto il recensore – preferendo, parole sue, gli “aculei di un istrice”. Un’altra questione, per me importante, sollevata da Adam, è quella implicita del nichilismo. Quel nichilismo che non è nelle mie corde, in quanto l’”insofferenza” che traduco in versi è aperta a intervalli di utopia, espressi in varie maniere, in particolare attraverso il “grande intervallo tra il mito di Atlantide e i nostri incerti resistenti virgulti”. Hai colto nel segno, caro Adam!