Fabiano Alborghetti trova Alberto Mori

Pubblicato il 12 maggio 2008 su Scrittura e Letture da Maurizio Baldini

Fabiano Alborghetti trova Alberto Mori. Cercando l’oro della poesia 17. Territorio e monnezza.

04 Aprile 2008

Edizione anomala questa di “Cercando l’oro della poesia”: non ripercorriamo l’intera opera di un autore come nelle edizioni precedenti, ma ci addentriamo in dettaglio dentro una sola. A mio avviso, in tempo di elezioni e in tempo di emergenze “messe da parte” perché imbarazzanti se è in corso una campagna elettorale. Ecco allora una edizione straordinaria perché altrettanto straordinario (audace e attuale) è il tema trattato.

Tutta la vita delle società moderne in cui predominano le condizioni attuali di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di merci.(Marx)

Le opere fisiche – dal risanamento edilizio all’arredo – si devono accompagnare ad interventi “immateriali”, progetti nel campo culturale, sociale e di programmazione economica. Senza questa premessa, qualunque agglomerato urbano nulla altro rimane che un contenitore abitato.

Partendo da questo assunto, vivere la città non si riduce quindi alla mera attività di guadagnarsi da vivere: Ulf Hannerz in Esplorare la città – Antropologia della vita urbana (Ediz. Il Mulino, 2001) sostiene che i cittadini, nel corso della loro vita, si costruiscono un vero e proprio “repertorio di ruoli” a cui attingere a seconda delle diverse situazioni o ambiti in cui sono chiamati ad agire e a relazionarsi con gli altri. Gli ambiti in cui un individuo è coinvolto nel modo di vita urbano sono così almeno cinque secondo l’autore:

quelle riguardanti l’ambito familiare;

quelle riguardanti l’ambito dell’approvvigionamento, relative cioè al tipo di impiego e alle modalità di sussistenza da parte dei cittadini;

quelle che riguardano le attività ricreative;

quelle relative ai rapporti di vicinato;

infine quelle connesse ai rapporti di traffico, cioè ai contatti con gli estranei.

A più d’uno risponde Alberto Mori col tema trattato in Raccolta (Sant’Arcangelo di Romagna, Fara Editore, 2001) dove – con quella lingua che rende riconoscibile l’autore ormai da diversi anni (e libri) – viene trattato un’ aspetto ritenuto della trama sociale, il più “invisibile”, sottovalutato: o cosi almeno è stato sino allo scandalo esploso in Campania: i rifiuti o – come i quotidiani ci hanno insegnato nelle cronache – la monezza.

Prima di capire come Alberto Mori agisca per mezzo dello strumento poesia confrontandosi con un tema apparentemente inusuale per la poesia, facciamo un passo indietro: nessuno degli elementi sopra indicati e nemmeno il “grande contenitore” – l’agglomerato urbano – possono funzionare se non vi è una caratura di tutti gli elementi perché questi possano funzionare in accordo.

Guy Debord teorizzava – negli anni ’60 – la psicogeografia, cercando di studiare il fenomeno della frequentazione degli spazi urbani come sovrapposizione sul comportamento di una disposizione psicologica nei confronti di una particolare funzione della città. D’altro canto c’è stato chi, come Roland Barthes ha svelato l’orizzonte dei segni, arrivando a descrivere il contesto urbano come un groviglio di significati.

Se queste due polarità interrompono il proprio coordinamento, se i significati che diamo al luogo s’aggrovigliano, se il sistema s’inceppa, ciò che già si vive come un’estensione di uno spazio standard o meglio detto non-luogo (Marc Augé) ecco frantumarsi i confini disciplinari per mezzo dei quali la nostra relazione con lo stato abitativo esiste.

Lo spazio diventa a noi estraneo tanto quanto noi diveniamo estranei allo spazio, intrusi quindi dell’atlante che abbiamo cercato di omogeneizzare perché divenisse accogliente. Avviene una frantumazione di cui restano solo ingestibili schegge.

È per mezzo di schegge alfabetiche che Mori tratta quindi sia un collasso di sistema come avvenuto in Campania con “l’emergenza rifiuti” che il teorema irrevocabile a voce di Carl Marx usato in apertura d’articolo: Tutta la vita delle società moderne in cui predominano le condizioni attuali di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di merci. L’accumulazione di merci non può che provocare – come ovvia conseguenza – un maggiore (e irrefrenabile) flusso di scorie, di rimasugli che finché il sistema opera perché vengano smaltite restano invisibili ma che – se il sistema appunto inceppa – debordano, accumulano.

Alberto Mori opera per mezzo di un linguaggio immediato eppure al contempo metafisico, mostra a piene parole (anche per elencazione) ma lasciando enormi spazi bianchi tra un verso e l’altro. E’ uno spazio ancora da colmare, è uno spazio che viene appuntato perché la debordante massa di rifiuti ancora non ha invaso l’interezza: il sito di stoccaggio – ci viene però palesato – è l’intera presenza sul territorio dei rifiuti, è il territorio. Il territorio addirittura è l’esistenza dei rifiuti, non un accessorio ma una presenza possente e ineluttabile.

L’uso di Mori di una metrica spezzata, l’offerta di quadri espositivi in cui la singola parola suona e s’impila non tratta esclusivamente la presenza di liquami, sacchi, oggetti, abbandoni. Si spinge un passo oltre la tangibilità: avverte infatti la presenza di un altro genere di rifiuto, quello che perviene per mezzo del computer, il famigerato SPAM. E’ un nuovo genere di scoria, inesistente a livello fisico ma presente per il fastidio che provoca.

Un successivo passo: nella poesia di chiusura, Mori apprende e riconsegna al lettore la Junk Space, (di seguito cito quanto nel libro) termine usato dall’architetto Rem Kolhaas anche per definire genericamente la sovra produzione virtuale di spazio nelle architetture ipermoderne.

Anche lo spazio diviene un oggetto-rifiuto: l’enorme atrio, enormi ingressi, spazi popolati da spazio e non persone, una nuova genesi di rifiuto che però a livello percettivo accogliamo come calcolato ordine e razionalizzazione.

Come è facile intuire, il rapporto persona-ambiente è complesso e tutt’altro che univoco. A volte i due poli si attraggono e si intrecciano vicendevolmente, scomparendo simbioticamente l’uno nell’altro. Altre volte, l’uno dall’altro si allontanano, respingendosi fino al punto in cui la separazione coincide con una lontananza quasi totale. Mori sceglie di analizzare il problema a partire dall’arte (la poesia), prende in considerazione opere, teorie, testimonianze visive e manifesti programmatici, stati di fatto. Comprende come la metropoli è un eccesso che sovrasta ogni individuo e che, proprio per questo, richiede l’apparizione di nuove divinità, che si manifestano a somiglianza dell’essere umano ricomposto in sembianze originali dalle meraviglie della tecnica. Comprende come la nuova divinità sia il consumo che se dapprima è un territorio vasto controllato da forze superiori, la cui chiave di lettura è principalmente estetica e portatrice di un respiro di sorpresa e di stupefazione, dall’altra è in agguato la catastrofe, la sopraffazione. Mori usa allora una sequenza di immagini che è generata per associazione e per contrasto dallo sguardo, un linguaggio caratterizzato con un taglio lontano dalla logica accademica della poesia e che risulta particolarmente fertile ed efficace. Egli comprende infine come il nostro nemico più insidioso è un nemico sconfinato, è un terrorista che si sposta mimetico e indistinto nei territori. Lo temiamo, lo combattiamo e contro di lui, perdiamo. Quel terrorista siamo noi stessi. Il corpo che rimane a terra moltiplica in sacchi e quei sacchi contengono la nostra disfatta.

Fabiano Alborghetti

Da Raccolta di Alberto Mori, Fara Editore

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