GIAN MARIO VILLALTA E PAOLO RUFFILLI: I DUE ESITI DEL MINIMALISMO
Giorgio Linguaglossa
Gian Mario Villalta Vanità della mente Milano, Mondadori, 2011 pp. 100 € 12,00
In questi ultimi due decenni è avvenuto che la proposizionalità del verso è diventata sempre più tropologica. Ciò vuol dire che i tropi (alcuni tropi assiepati secondo una tendenza lineare) tendono a diventare preponderanti a discapito delle altre forme di retorizzazioni. Fenomeno questo ben visibile e dilagante soprattutto nell’ultima generazione. Ciò che in altri luoghi ho definito stili da stagnazione, non voleva essere soltanto una stigmatizzazione in negativo ma intendeva indicare una tendenza epocale diffusa che comporta una monotonalità dei fondali, uno stile da povertà, tematiche privatistiche, una accentuazione del «privato», una accentuazione di «dettagli», un atteggiamento «desiderante» dell’occhio che osserva il «reale», una separazione tra il soggetto e l’oggetto all’interno di una visione nostalgico-restaurativa, etc.
La poesia di Gian Mario Villalta Vanità della mente (2011) non sfugge a questo fenomeno. Per Villalta il discorso poetico è quel luogo dove si continua a dire ciò che non può essere detto, non è altro che una maniera di non dire quel che si dice. Il «montaggio febbrile dei dettagli», secondo le parole di Villalta, rivela, appunto, l’esistenza di una certa «febbre», di un volontarismo, di un atteggiamento di coazione verso gli «oggetti»: ciò che si vorrebbe nascondere ritorna alla superficie della scrittura, e i «dettagli» sfuggono, necessariamente, a chiunque voglia ghermirli e catturarli; il «reale» sfugge e scivola via come acqua dalle mani che vorrebbero agguantarlo.
Dire che «l’oscurità rivela» e che la poesia sia «l’evocazione della luce», come scrive l’autore in una nota annessa al volume non fa che confermare il nostro assunto: che il «reale» sfugge all’atto della contemplazione, come una natura morta, ghermita dalla luce (o dal buio) rivela soltanto ciò che si addice alla attività dell’occhio posto al di fuori degli «oggetti». Così, la processualità degli «oggetti» si sviluppa all’interno di un binario restaurativo. Da ciò ne consegue il clima e i temi familistici (la casa, i giorni di scuola, la madre, i genitori, gli animali domestici etc.) della poesia di Villalta in un discorso poetico ben pressurizzato, sì, controllato, sorvegliato e attento ai «dettagli» ma anche, alla fin fine, monotonale, uniforme.
Un’elegia frequentemente interrotta e frenata, sì, che resta però elegia. La riflessività del discorso poetico è la risultanza che consegue alla asseribilità del suasorio di cui questa poesia è pregna e piena; come una strada maestra che non conosca curve o diversioni laterali o inversioni, tutto il locutorio procede, lento e inarrestabile, verso il luogo dell’asseribile (che sconfina con l’indicibile?), con tanto di «soggetto» (fatto salvo) fuori quadro che procede con lo zoom paesaggistico e le intromissioni del cuore. La «lingua famigliare», «la lingua propria del sentimento» (dizioni di Villalta), rivelano platealmente la tendenza alla privatizzazione del «privato» di tanta poesia contemporanea; di qui allo stile familiare il passo è breve. E l’intensificazione dei colori è il contraccolpo tonale e cromatico alla monotonalità paesaggistica:
freschi i bulbi oculari,/ i colori nello spettro/ prima ancora // dal giallo/ così intensamente vi penso/ al violetto/ che sfinisce/ la sagoma con lunghe zampe,/ fiorisce il contorno/ nero e sangue,/ le corna arcuate.
Paolo Ruffilli Affari di cuore Einaudi, Torino, 2011 pp. 131 € 12,00
Una analisi delle «forze» che scorrono all’interno del linguaggio poetico di Paolo Ruffilli mostrerebbe una maestria impareggiabile nell’orchestrazione del lessico (sempre calibrato sull’impianto referenziale del reale) e dell’ordito delle cesure e delle rime interne, che disfano a volte il verso in due emistichi, che inducono ad un rallentamento, quasi uno stop; a questa forza frenante del binario poetico si sovrappone un tensore di accelerazione connesso con l’impiego, pressocché continuo, dell’enjambement, che riprende il verso in extremis, lo rimette sui binari dell’acceleratore del ductus per portare la durata del ductus fin nel verso successivo in cui la disconnessione fra senso e senso, che definisce la forma-poesia, è portata alle sue estreme conseguenze; è qui che ha inizio un contromovimento che si frange su quello precedente per dare il la ad un nuovo inizio.
Tipico di quest’onda sintattico-sonora è la corresponsione diretta di essa con l’onda ipotattica, la cui severità gerarchica collide e frigge con la leggerezza dei plot delle storie d’amore che l’«io» narrante ritrova, quasi per miracolo, nelle pagine di un diario immaginario? reale? finto? quasi reale? – Ruffilli è un maestro oltre che dei plot narrativi anche del passo breve: l’«io» e il «tu» mettono in atto una danza apotropaica, celebrano una ipotiposi, un duetto, una sfida, una contesa dove non si sa se la rivalità valga meno della affinità in amore, se il serio e il faceto, il dramma e la commedia si mescolano e si intricano.
L’autentico e l’inautentico, il leggero con il frivolo, il serioso con il pensoso sono irresistibilmente compenetrati l’uno nell’altro come fratelli siamesi, irregolarità e frasari sincopati intervallano la «storia» dei protagonisti: affetti, umori, intemperanze e inclinazioni, ne esce un paesaggio umano terremotato, alterno, instabile, sospeso come sul vuoto, un enorme vuoto, sul quale c’è un ponte di corda, sottile e slabbrato, dove si pavoneggiano i trapezisti della leggerezza e dell’istrionismo amoroso del volume.
Il libro di Ruffilli è dunque una vera e propria messa in scena del teatro dell’«io» e del «tu», una messa in opera delle vicende d’amor perdute e ritrovate, lasciate e ripescate, una tenzone perpetua, che non conosce vincitori né vinti, tutto immerso nel quotidiano rievocato e riprodotto tra la rievocazione e la scepsi del ricordo evocato con un passo da «canzonetta», con un ritmo da jazz dove il verso breve consente improvvise accelerazioni e subitanee frenate, come nella pista di un autoscontro di un luna-park o la scacchiera di un flipper dove le palline (leggi gli amanti) si scontrano e rimbalzano l’uno contro l’altra, tra sgambetti d’amore e tranelli di disamore. È ovvio che non c’è nulla di più serio che trattare poeticamente una materia tanto friabile, leggera e faceta, intessuta di equilibrismi tra tradimenti e trasalimenti…
A questa inedita coniugazione poetologica dei «tensori» innici ed elegiaci, corrisponde, a livello del linguaggio poetico, una sorprendente economia di retorizzazioni, tranne quelle richieste dalla struttura stessa del linguaggio e legate all’uso calibrato e sincopato dell’ipotassi e della paratassi.
Quel lungo percorso iniziato con Piccola colazione, edita da Garzanti nel 1987 e proseguita con Camera oscura del 1992 trova qui un degno epilogo, uno dei migliori libri di poesia di questi ultimi anni, appartenente a quel genere «leggero», di apparente intrattenimento quali le storie di erotismo e di passione della coppia instabile che si svolgono tra un «campo di battaglia» e un «corpo a corpo»; l’amore borghese che si consuma tra la camera da letto e la cucina, nei sentieri borghesi delle abitudini borghesi dell’epoca della leggerezza dell’essere e degli stili da stagnazione. Libro brillante, non c’è che dire, tenuto insieme da quei rettili del giurassico che sono la coscienza dell’io, la sfera istintuale e il bon ton dei sentimenti bene educati e finalizzati della nostra società telematica dove anche l’eros è diventato qualcosa a metà tra il telematico e il virtuale.
È più forte di te:/ mi guardi giù le scarpe,/ ti piace l’accordo/ delle tinte sui vestiti…/ Fino a che punto/ della posa/ pretendi o inviti/ che io sia tenuto/ a questa lista/ dei dettagli?/ Dici che l’una/ dà valore/ all’altra cosa./ Era destino/ che mi piacesse/ un’arrivista/ un po’ borghese,/ però ogni volta/ nel rendermene conto / / per me è dolore/ che ti dimentichi/ del contenuto/ per il contenitore.
(…) questa lettura critica del minimalismo di Linguaglossa rende manifesto che non tutto ciò che viene spacciato per minimalismo è, necessariamente, arte di massa, arte deteriore,arte minore, c’è anche un minimalismo che soltanto apparentemente è facile. Quello di Paolo Ruffilli è di quest’ultima specie. Quello di Zeichen e di Magrelli invece appartiene al primo tipo.
Poi c’è il minimalismo degli “stili da stagnazione”, ben rappresentato da Villalta con quella sua “febbre dei dettagli”, che è un po’ una coazione a ripetere di qualcosa che è stato rimosso. Poiché il «reale» sfugge a Villalta, ecco che lui si mette a catturarlo con il microscopio e a legarlo alla sedia dove sta seduto. Ecco spiegata la sua poesia, così ricca di «reale» che non riesce più a catturarlo…
Insomma, c’è una catena di montaggio del «reale», c’è il «reale» prefabbricato, c’è quello finto etc. (…)
Il fatto è che Villalta scrive come pensa e pensa come i nipotini di Cucchi e di Riccardi, pensa che il «reale» lo si possa mettere in scatola un po’ come le sardine…
Analisi perfetta, caro Giorgio! La Poesia che parla solo della sua lingua o della “leggerezza” quotidiana. In modo noioso o in modo incantevole. Ma non possiamo e non dobbiamo chiedere anche altro alla Poesia?
Ricordo che nel lontano 1993, Villalta fu il “bone of contention” (“osso della disputa”) di un tragico e conclusivo litigio su base ideologica tra Luperini e Fortini, il secondo appoggiando, da presidente del premio di poesia “Laura nobile” di Siena qual era per quella edizione, il vincitore, nella persona maschile di Gianmario Villalta, e il primo, appoggiando la mia femminile persona, con la raccolta Noi Altri.
Ammetto di non avere mai letto nulla di Villalta, stando come sto emarginata in un paese straniero (ma che scusa del caBolo)!
Volarono , mi fu detto da Luperini ed altri, insulti, e anche uno schiaffo dato dal Prof. Nobile al povero e allora già vecchio Fortini.
Non vinsi quella volta il primo premio (vinsi il successivo con Sanguineti presidente, che sostituiva Zanzotto assente), ma fui, da giovanetta qual ero, lo stesso contenta di stare insieme ad altri 5 bravissimi poeti tutti ex equo inseriti nella antologia che fu prodotta con Vanni Scheiwiller.
Chi io sia, non conta. Vale ricordare le contese vecchio stampo.
Da tempo Giorgio Linguaglossa si è messo in testa di spacciare in toto il minimalismo. Sbaglia, perché dipende da chi lo pratica; può essere, beninteso per le rare persone di talento e di istinto, una forza interiore, non di pratica artificiale, e rappresentare realistica e profonda poesia.
Per quanto io non sia al corrente d’ogni intervento, purtroppo è la seconda volta che Giorgio mette in risalto, diminuta di valore, la poetica di Gian Mario Villalta. Uno può pensare che sotto sotto ci sia del buono. Poi, per quello che ho letto di Paolo Ruffilli (magari scrivesse in minimalismo), ho sentito la continua vuota sonorità artificiale delle filastrocche––mai amate persino da bambino.
Sordo?, no, ingiusto per chi non sapra mai cosa sia
poesia.
Siamo chiari, non si mescolano poetini inutili all’arte con Valerio Magrelli; che la sua poesia sia
o non sia minimalista non dovrebbe avere nessuna importanza per nessuno perché la sua poesia è di poeta artista. Onore che non si appicicca a tutti i
“grandi” italian, facilmente tacciati di essere tutti grandi.
Alfredo de Palchi
22 ottobre, 2011
Quando poi nel 1993 andai a trovare Fortini a Milano a casa sua, in merito ad un progetto di ricerca, mi disse, con mia soddisfazione, che si era poi pentito di avere ingaggiato una contesa a Siena con Luperini perché il vincitore del premio Laura nobile 1991 (era quella la edizione? forse si) fosse assegnato a Villalta. Spiegò che era stata una opposizione teorica esacerbatasi su un dettaglio futile.
Per vanità femminile fui tentata a credere che lo dicesse allora, avendomi vista per la prima volta di “persona” nella mia smagliante bellezza tridimensionale.
Ma non era così: lo diceva per altri sopraggiunti convincimenti, che avevano appunto a che fare con considerazioni sulla poesia di penombra, come la definì Fortini. Prese un suo libro da uno scaffale, si sedette sul divano (e mi tenne seduta ad ascoltare quasi per mezz’ora su un sedia dinanzi a lui) e si mise a leggere da un suo testo critico incentrato su questioni inerenti a questo argomento e stile di scrittura.
Ripeto, non conoscendo la poesia di Villalta, non posso scendere in considerazioni teoriche sul saggio di Linguaglossa.
riflettendo sui modi della poesia: si scrive ‘come’ si pensa? si scrive ‘delle cose’ di cui si pensa? si scrive delle cose ‘di cui si è ossessionati’? si scrive delle cose di cui ‘si ha memoria’? si scrive ‘del pensiero in divenire’, ‘mentre si scrive’? si scrive pensando a elucubrare? si scrive per congetturare? si scrive per sedurre? so scrive per auto-sedursi?
secondo voi, chiedo, un poeta si struttura avendo – vuoi per ideazione vuoi per disposizione vuoi per ambizione – la preponderanza di una di queste attitudini? o nell’amalgama, tutte queste istigazioni?
si scrive come modo di un pensiero? si scrive per un umore, un equilibrio serotoninico? etc etc
io penso si scriva soprattutto della propria visione del mondo, che si manifesta mettendo in ordine tutti questi e molti altri modi: la visione del mondo di una persona che diventa stile non la si può criticare al fine di condizionarne i modi o determinarne un qualche cambiamento, perché quella visione non dipende che dal poeta ed è dunque immutabile.
Ne consegue, secondo me, che la critica al testo non può mai attaccare quella visione del mondo.
No, quella non la si può attaccare – vitalistica o crepuscolare, o assurdista, o minimalista, o espressivista, o impressionista, romantica, che sia, perchè nasce da una disposzione che si fa visione e stile: uno/a è come è. E scrive di quello che globalmente pensa e vive e sente. Lo sa fare o non lo sa fare? Questo è il solo punto.
Si può solo dire mi piace e la condivido, o non mi piace e non mi dice nulla. Ma non darne un giudizio di valore, se sia o meno un bene o un male rispetto ad un’altra visione del mondo.
Sicché ciascuno porta una visione del mondo che nutre pregiudizio su quella altrui, ed è ugualmente immutabile.
(mi riferivo dunque alla legittimità o meno di Fortini e Luperini di scendere ad una così radicale disputa sul se sia o meno giusto o preferibile scrivere poesia vitalistica, o “di penombra”: su questo tipo di argomento, un critico non può arrivare a battersi con un altro critico. E’ solo la scusa per un altro tipo, più profondo e meno risolvibile, di aggressione.
Per cui, se da poeti si sia o meno legittimati a scrivere poesia minimalista, nessuno lo può dire. Nemmeno il critico. E tanto meno, insisto, il critico poeta, come Fortini. Si può solo dire: è bravo come minimalista, è bravo come assurdista, è bravo come romantico, etc. o, non lo è.
Se non siete d’accordo, voi due, critici in lite, potete solo dire all’organizzatore: abbiamo bisogno di due coppe, di due pergamene, di due medaglie… perché a ciascuno di noi due piace uno dei due poeti in lizza per il premio finale e non riusciamo a pervenire ad una decisione: e si conferiscono gli ex-equo.
Che in quel caso, per tutti gli altri, nel 1993, fu un 5-equo! Giusto. Quello sì. Fu molto bello.
:).
@ erm
[scusandomi di rimanere fuori tema rispetto al post di Linguaglossa]
I modi della poesia possono essere tanti. D’accordo. Come le visioni del mondo (o ideologie), che in parte riceviamo, in parte rielaboriamo, adattiamo alle nostre esperienze o abbandoniamo in certe fasi della nostra esistenza o della storia collettiva in seguito a crisi, epifanie, pentimenti, revisioni più o meno approfondite.
Queste visioni del mondo (o ideologie) – questi abiti (culturali) che indossiamo – mutano anche perché vengono criticate; e vengono criticate, quando tali credenze (distinte dalle scienze, che comunque hanno anch’esse ormai una natura probabilistica e non più di certezza assoluta) non corrispondono più al “mondo”. Pensiamo a Galilei, che critica la visione geocentrica e chiusa dell’universo o a Marx, che critica lo scambio tra capitale e lavoro, considerato paritario dagli economisti classici o a Freud che critica l’io unitario della filosofia e della psicologia classica.
Perché, tornando all’orticello della poesia, la critica qui dovrebbe scomparire? Erm dice che la critica al testo non dovrebbe mai attaccare la visione del mondo – « vitalistica o crepuscolare, o assurdista, o minimalista, o espressivista, o impressionista, romantica» – che in esso il poeta, più o meno consapevolmente, esprime.
E perché mai?
E, se si dicesse di una poesia soltanto « mi piace e la condivido, o non mi piace e non mi dice nulla» non sarebbe forse già un dare «un giudizio di valore» , cioè stabilire una gerarchia tra ciò che piace (valore) e ciò che non piace (disvalore) e, dunque, fare un atto di critica (elementare, grezzo magari)?
E perché mai «un critico non può arrivare a battersi con un altro critico», se il critico A è convinto che – tanto per fare un esempio scolastico – il romanticismo è una visione del mondo (o ideologia) più valida del classicismo o viceversa? Perché “battersi” (argomentare le proprie convinzioni in modi più meno leali e approfonditi) sarebbe poi “aggressione”, quasi una sorta di tentativo d’omicidio (culturale), e non un modo ragionevole di cercare nel confronto aperto, leale e persino duro una verità più alta, una visione del mondo, una poetica più adeguata al mondo, che non è mai fisso e immutabile e pertanto va continuamente ridefinito, rappresentato, verificato (visto che le parole non sempre corrispondono alle cose)?
Erm giustamente potrebbe obiettare che la poesia si raggiunge anche per vie traverse o partendo da ideologie considerate sbagliate o superate o reazionarie. Per cui è sbagliato prescrivere a un poeta di essere vitalista o crepuscolare o assurdista o minimalista o espressivista o impressionista o romantico. D’accordo contro le prescrizioni o i comandamenti. Ma non si può prescrivere o comandare di non criticare, di non valutare.
Se tutte le strade portassero a Roma (alla poesia), ogni pretesa di suggerirne o di cercarne una migliore sarebbe stupida.
Ma è proprio così?
Non credo. Se è vero che in singoli casi si può arrivare a fare buona poesia anche aderendo ad ideologie negative o discutibili o addirittura folli, non è vano criticare le ideologie negative o discutibili o folli ( se tali ci sembrano). E c’è da notare che il risultato poetico raggiunto in certi casi lo è malgrado quell’ideologia o quella follia e non grazie ad esse. E’raggiunto, cioè, in poesia perché lì quel poeta smentisce la sua ideologia e noi possiamo riconoscere il valore della poesia, separandola dall’ideologia che non condividiamo e critichiamo.
Non credo poi la convivenza babelica o pluralista delle visioni del mondo (o delle poetiche che sono in fondo visioni del mondo applicate al campo poetico) sia il migliore dei mondi possibili per i poeti d’oggi e, in generale, per tutti noi. Innanzitutto non credo che sia effettiva né questa Babele né questa pluralità. Ma, anche se lo fosse, essa è percorsa da differenze conflittuali e non permette affatto che uno/a sia «com’è», cioè non permetta affatto lo sviluppo libero della propria “essenza” o “autenticità”. La convivenza è apparente (tant’è vero che siamo alle guerre “democratiche”!). E poi da secoli la nostra “essenza” o “autenticità” di uomini e donne ( o poeti e poetesse) è un miraggio o una nostalgia. Non siamo mica rimasti alberi di pere o mele o nespole o albicocche che nascono,crescono e producono rispettivamente il loro frutto “naturale”(questo non è più vero neppure per le piante…). Né siamo rimasti ad abbaiare, nitrire, cinguettare come gli animali. E perciò le nostre visioni del mondo e i linguaggi che le esprimono non solo sono più complessi, ma ancora tendono ad unire o a dividere, a mentire o a dire verità occultate. E c’è da scegliere. E la critica dovrebbe aiutare a farlo.
Ennio, che bellissimo commento. Mi piace tantissimo e me lo sono goduto parola per parola frase per frase: e lo sapevo che la mia “provocatoria” affermazione – che la visione del mondo (del poeta e del critico) sia immutabile e che costituisce i blocchi oppositivi dei reciproci pregiudizi – avrebbe suscitato le tue forti obiezioni da marxista militante.
Ma era solo una provocazione che marciava sull’onda del pessimismo schopenhaueriano sulla possibilità di critica all’altro da sé, mentre tu ed io normalmente marciamo sulla prassi ottimistica dell’attivismo del materialismo storico. E’ una obiezione che parte da te, ma che precede e segue, partendo anche da me, la mia stessa affermazione.
La visione del mondo non è l’opinione, che muta ed soggetta a evoluzione a seguito del dibattito e dello scambio di vedute: la visione del mondo è qualcosa che si costruisce nel rapporto della vicenda umana, sociale, economica, familiare, culturale, artistica, sessuale, etc ect— ed è il prodotto lento e straziante di intrecci e combinazioni non sempre alterabili a seguito di un atto di volontà, qual è appunto il disporsi alla critica e al dialogo.
La visione del mondo non cambia, ovvero non cambia per un atto di determinazione individuale, per una premeditazione, uno schema: può cambiare il progetto, può alterarsi forzatamente lo stile, anche a seguito (o forse soprattutto ) della conoscenza (o anche sotto la pressione delle critiche), ma non cambia altrettanto facilmente la matrice profonda di una visione che si esprime di necessità in una data forma, ciò che spinge un poeta, un artista, un critico a rapportarsi in un dato modo scritturale, pittorico, teatrale, musicale, alla foresta mentale che gli sta dinanzi, alla selva oscura di rami e vento che gli si dimena dinanzi in controluce.
Quando gli esseri umani esprimono giudizi, o eseguono delle espressività, in qualsiasi campo umano, essi manifestano soprattutto delle loro proprie visioni del mondo: molta gente, confrontandosi, scopre con sollievo di avere visioni del mondo compatibili, o di avere simpatia e tolleranza, o ammirazione per altre visioni del mondo, anche se molto lontane e diverse.
Altre volte, nel confronto-scontro di visioni del mondo, una fondamentale ingiustizia ed intolleranza si stabilisce tra esse, tale da farle arroccare nel pregiudizio reciproco.
Io non mi sento di dare un giudizio astratto sul valore universale del romanticismo,dell’astrattismo, dell’espressionismo, dell’assurdismo fuori dalle specificità di ciascun interprete di tale tendenza epocale, ovvero fuori dal suo grado di talento, e del mio rapporto sia con quel particolare genere o forma artistica, sia appunto con quel particolare grado di talento.
Innanzitutto, mi porrei il dilemma se sia io o meno in grado di recepire quel genere, quella forma espressiva, se sia io in grado di capirla e di giudicarla, e se i miei criteri siano affidabili ed universalizzabili, al punto tale da venire ad uno scontro frontale con l’interlocutore (a suon di schiaffi ed aggressioni alla persona umana).
Mi dirai, tu Ennio: allora le guerre non si dovrebbero combattere per gli ideali. Infatti, io credo che le guerre si combattano per le cose, per i territori e i privilegi.
Anzi, meglio: le guerre si devono combattere, ma sarebbero guerre meno feroci e inutili se ciascuno pensasse: forse qua mi sbaglio, forse qua non sono in diritto, forse qua non ho l’ultima parola, forse qua mi confondo scambiando l’idea o l’ideale, con il territorio ed il privilegio.
E mi obietterai, forse, tu, Ennio: “Ma Erm, questo che dai, non è un esempio, infatti, di guerra né ideologica (di principi e di testi) e nemmeno territoriale (di cose e di privilegi). E’ l’esempio di un mite dialogo tra relativisti”.
Già.
🙂
Mi compiaccio con tutti gli intervenuti a questo ulteriore dibattito, che spero prosegua e si arricchisca ulteriormente, e che gli scritti critici di Giorgio tendono sempre a favorire: è un merito… collaterale e non da poco che, al di là della condivisione o meno delle sue considerazioni, gli va riconosciuto, anche se va ripartito con le prese di posizioni, gli approfondimenti e i contributi finora pervenuti.
Tra questi, voglio esprimere un apprezzamento particolare per gli scambi specifici che si sono sviluppati tra Ennio Abate e Erminia Passannanti (che snobba e gioca con la firma, cosa non da poco, per dare più rilievo al detto e non al chi): lo considero un esempio di confronto che articola punti essenziali anche per me fondamentali, e tuttavia innervato in un senso di apertuta privo di arroccamenti ideologici (di cui con Ennio a volte abbiamo discusso): “…le nostre visioni del mondo e i linguaggi che le esprimono non solo sono più complessi, ma ancora tendono ad unire o a dividere, a mentire o a dire verità occultate. E c’è da scegliere. E la critica dovrebbe aiutare a farlo.”, dice Ennio cui Erminia aggiunge: “La visione del mondo non è l’opinione, che muta ed è soggetta a evoluzione a seguito del dibattito e dello scambio di vedute: la visione del mondo è qualcosa che si costruisce nel rapporto della vicenda umana, sociale, economica, familiare, culturale, artistica, sessuale, etc ect— ed è il prodotto lento e straziante di intrecci e combinazioni non sempre alterabili a seguito di un atto di volontà, qual è appunto il disporsi alla critica e al dialogo.”
Nel marasma povero di idee in cui siamo, non è facile coniugare complessità e ricerca di pensiero critico immerso nell’esperienza e nella storia. Grazie perciò a chi si esercita e ci sollecita a farlo.
uh, grazie! ma, Adam , caro, ….sono erminia, erminia passannanti
:/
sì, infatti, e da sempre – mi preme di espandere – il fermento nelle arti, nella critica non è solo una questione di guerre per il territorio, e/o rivoluzioni, ma anche esito delle crisi profonde nelle relazioni umane,di una data epoca, che si vengono a determinare a seguito delle lotte di classe, o sulle rivoluzioni, o sui veri e propri conflitti, su base economica e territoriale: lo ha detto insieme a Marx, Freud nella sua Introductory Lectures on Psychoanalis, e ricordato a varie tappe negli ultimi 20 anni il critico inglese della letteratura postmodernista,il marxista Terry Eagleton.
Vale a dire che le guerre che portano ad una sospensione del principio del piacere e della gratificazione, dinanzi alla necessità, sono condannate a trasferirsi all’ambito relazionale, e individuale.
I teorici della letteratura fanno anche essi le loro piccole guerre, avendo interiorizzato con tracce, forse indelebili, nel proprio carattere (o se volete nell’Io, nella visione delmondo) gli esiti della grandi guerre (e Fortini era stato un partigiano, e Luperini attivista, perfino arrestato per la sua partecipazione a manifestazioni di lotta di classe.)
La piccola guerra del 1993, a Siena, su cosa fosse meglio – se il vitalismo o la poesia di penombra – si iscrive in quel tipo di nevrotico riflesso (e l’ha chiarito Luperini nella monografia su Fortini, La lotta mentale) che affligge i letterati e i teorici, così come gli artisti.
Anche grazie a questo nevrotico riflesso che si produce dibattito ed arte.
…a proposito del pezzo di Linguaglossa, è lo stesso critico che introduce un importante distinguo nella querelle del minimalismo, specificando un esito positivo e uno negativo.
Dunque, c’è un esito positivo e un esito negativo. Non tutto il minimalismo è dabuttare via. È questo un merito della critica di un critico solitario e indipendente che non difende interessi corporativi o di “chiesa” come Giorgio Linguaglossa.
La difesa di de Palchi del minimalismo di Magrelli e di Villalta… è la sua opinione, e quindi è rispettabile, Villalta e Magrelli rappresentano un corno del minimalismo che la critica di Linguaglossa stigmatizza in negativo…
poi c’è l’altro esito del minimalismo che il critico romano definisce in «positivo»…
ma credo che occorrerebbe andare oltre la scematica antitesi dei due «esiti» per indagare che cosa distingua un esito dall’altro, che cosa c’è dentro lo scatolone del minimalismo… credo che occorra considerare le argomentazioni critiche dal di dentro e non da di fuori…
ritengo che le questioni siano complesse e riguardano, appunto, le differenze tra le «visioni del mondo» e le «visioni delle cose stilistiche» e quelle non stilistiche, tra visioni critiche e visioni acritiche … ma qui il discorso si complica.
Apprezzo le letture critiche e i saggi di critica letteraria del Prof. Linguaglossa per la loro straordinaria efficacia e intelligenza.Linguaglossa è anche un giurista,e l’uso della parola diretto e sintetico come quello che si dovrebbe avere nella materia giuridica. Non conosco,purtroppo,Villalta.
Per quello che riguarda Paolo Ruffilli concordo sul “nuovo inizio” di cui parla Linguaglossa.
Ho notato con piacere che nella lettura di “Affari di cuore”,la lingua del critico(e scrittore) si trasforma fino ad avere assonanze e paradigmi e tropi che si intrecciano con quelli del poeta Ruffilli. Voglio dire che il commento entra nel commentato con una intensità di comprensione, che lo porta a fare proprie le movenze per opposti e paradossi della scrittura di Ruffilli.Una scrittura che trova proprio nella leggerezza della lingua,quasi nella sua “frivolezza” il modo per esprimere il contenuto profondo della vita e della realtà. Perchè tanto più il tono è basso quanto più alto si fa il contenuto.
Ed è nel poco che si può ritrovare il molto. E nelle piccole cose la vera essenza dell’universo. E nell’umiltà la grandezza di un animo. Così: per paradossi. Forse unico vero modo di conoscenza ed espressione del reale. E la letteratura si fa filosofia e la lingua modo per conoscere ed interpretare il reale. Come nelle antiche filosofie…….ma ora mi sto dilungando.
Grazie al Prof. Linguaglossa per questo contributo critico. E per tutti gli altri.
Sandra E.