Distanze verticali – Irene Sabetta (cura)

Pubblicato il 7 maggio 2024 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

AA.VV., Distanze verticali. Escursioni poetiche sulla montagna
A cura di Irene Sabetta, Macabor editore, Francavilla Marittima (CS), 2024
(Nota di lettura, Carlo Di Legge)

C’è un oriente/dentro ogni cosa, e un bosco di voci lontane/che ti frastornano
quando il loro sole si accende – Edoardo Zuccato, p. 106

… si rivela la sacralità attraverso le strutture stesse del Mondon – M. Eliade, Il Sacro e il profano, p. 75

Avendo optato per la regia di questo libro, con poesie di autori così diversi sulla montagna, Irene Sabetta lo fa con semplicità. Credo si tratti di un libro che è esso stesso come una montagna, piena di nascosti sentieri, progetto di scorci e visioni che si aprono d’improvviso.
La semplicità sta nello spirito e nella nota introduttiva, che a sua volta inizia con un brano di Antonia Pozzi –ne riporto la fine. Lei scrisse “là in alto, anche la materia, la colossale materia che ci attornia, non sembra inerte o ostile, ma viva ed amica” (p. 7). Si mostra il senso simpatetico della universa partecipazione, della comunanza di tutte le cose, in un tipo di mondo dove anche la materia va intesa come vivente, come essere pulsante e animato, del tutto partecipe della vicissitudine del vivente? Il mondo di Giordano Bruno, tra gli altri… Certo, e non si tratta sempre di una madre affettuosa: la materia, la montagna è anche dura, essa “non ti tratta con tenerezza” (A. Manstretta, p. 59).
Ecco, si può dire in modo lineare cose che non credo lo siano. Una vera sfida.
Le carte sono subito scoperte nella introduzione, con la citazione da R. Daumal: la montagna, ogni montagna che s’immagini anche in parola, è “un’altra montagna che unisce la terra al cielo” (p. 7); in proposito, aggiungo, cfr. M. Eliade, che si riferisce a credenze religiose le più diverse, in cui la Montagna (Sacra) “congiunge la Terra al Cielo” (Il Sacro e il profano, p. 30). Quel cammino, che sa ogni amante della montagna, diventa “metafora del cammino per diventare ciò che si è” (Sabetta, p. 8), qualcosa di cui nelle letterature, religiose o meno, si trovano innumerevoli esempi – basti pensare alla montagna del Purgatorio nella Commedia dantesca, al Sinai, al monte di Sion… .Pratica della montagna comporta, anche per chi semplicemente lo fa senza essere consapevole, memoria di vicende iniziatiche, di cui testimoniano le differenti Scritture trasmesse: in generale il cammino della montagna come “l’esistenza umana, nella misura in cui essa si adempie, è essa stessa una iniziazione” (Eliade, p. 132). Ogni cosa che facciamo può essere carica di significato, ciò che si fa può essere sempre molto di più di quel che sembra.
Dunque la montagna evoca l’alto, a cui sembra unirsi, e l’ alto “continua a rivelare il trascendente in un qualsiasi complesso religioso” (Eliade, p. 82); citando la scala nel celebre sogno di Giacobbe, lo studioso osserva che una teofania ammette in sé un luogo per il fatto che esso è “aperto” verso l’alto cielo (cit., cfr. p. 22) – in Cina esistono molte imponenti montagne sacre al taoismo, al buddhismo, al confucianesimo: così si ritengono sacre le montagne in India, Giappone, Australia e America… ma non necessita andare lontano. Montagna è lontananza nel qui presente, che occorre raggiungere. I fedeli – e i turisti ardimentosi – si arrampicano, cosa che a volte è non facile (i più prudenti preferiscono l’ascesa in teleferica!).

Nel nostro caso “andare in montagna ha a che fare con lo scrivere poesia” (Sabetta, p. 8).

Le distanze verticali del titolo hanno a che fare non meno con la montagna che con il linguaggio, il quale – direbbe Kant – di necessità, anche dovendo concettualizzare, “spazializza”: le nostre parole risentono di necessità, come vide Giambattista Vico, del livello, e dell’alto e del basso: come “Poesia è discesa, scavo ed anche elevazione, e viceversa” (Sabetta, p. 9). Così anche i nostri giudizi di valore sulle cose e sugli uomini risentono di questa visione, e si parla di bassezza come di statura e di elevazione, perché tutte le parole che usiamo sono pregne di ciò che chiamiamo spazio, tempo, natura.

Gli aspetti che accomunano la “pratica della montagna” al fare poesia sono puntualmente elencati nella introduzione (cfr. pp. 8-10): ma è pur vero – tanto la montagna e la natura quanto, peraltro, la poesia sono unite, fin dall’origine, per avere strettamente a che fare con la dimensione del sacro: “La lirica è natura” (p. 52: Paola Loreto). O almeno, se non è questo il solo modo di considerare la cose, mi sembra un modo importante.
Venti autori declinano sul tema qui, in Distanze verticali, tutti i rispettivi modi, dal disincanto apparente, iniziando con la descrittività (ma cosa vien descritto e come?: Marco Bellini, 14-16):
“(Nascita dell’Adda)
Nelle valli che guardano Bormio
la nascita dalla morte dei ghiacci…
I rumori dei millenni sciolgono gli spigoli,
i goccioli muovono le pietre, si scoprono i fossili …
Da lì si stacca verso paesi appoggiati
luci gialle, pentole e tinozze per i giorni.
Saranno trecentotredici chilometri.” (p. 14).

Nessuna concessione alla retorica dell’emozione? Invece agisce qui fin dal titolo l’evocazione (“La radice”), proprio mentre viene esercitato il controllo possibile sulla parola, cosa che pur condivido in poesia. Ma è tema, questo della montagna, che “ci” prende in ogni caso.

Viceversa, immediata suggestione d’immagine risulta dalla lettura di testi come quelli di Bertolino (pp. 18-20) in Nìvole (Nuvole: le creste sono “dita/di roccia puntate verso il sole”, p. 20)

Senso dichiarato del mistero e della vita segreta, al cospetto della natura, nei versi di Stefania Bortoli (pp. 23-25); elaborazione del dolore, misura, in M. P. Ciancio, se “Oggi solo questo prato conta/e le faggete dove il silenzio è vivo/…sui morsi accesi di piccole ferite” (p. 29).
Annamaria Ferramosca (con qualche eco di Zanzotto) evoca la opposizione tra le “abbandonate a valle/parole opache di città” e “questa dis-lingua che solo sa asserire” e invece risulta “un balbettìo” dal lato del “nostro vuoto, e la “marcia” della montagna, “lungo” la quale (p. 42) “parla un continente intorno a noi dentro noi” (p. 46). La memoria di un “noi” fatto di un “io” e di un “tu” nel paesaggio, con l’auspicio di un “ritorno”, nel lungo inedito di P. Marelli (pp. 62-66). Così (e tuttavia assai diversamente) nei versi di P. Polvani la bella immagine della giovane donna straniera e del suo “dialetto arabo di Haifa” (p. 84) fa come da contrappunto al paesaggio, in qualche senso alieno, in cui lei viene descritta, con “la neve trentina”. Questi valgono come esempi, ovviamente, della ricchezza di contenuti: appunto “La chiami montagna ma è come il prato infinito di Calvino: un insieme di insiemi” in cui “ogni passo ridefinisce una mappa” (Stefano Guglielmin, p. 49).
Questi componimenti, temi a parte, sono poi altrettanti modi – serve dirlo? – a volte simili o anche diversi – di far versi e poesia, ma nel merito stilistico, nelle modalità della frase poetica non entro nemmeno; così come rinvio la lettura completa all’amore dei lettori per la poesia.
Ma, tornando al filo che avevo scelto per parlare di questo libro, non credo, ovviamente, che si possa pensare a un impossibile ritorno dell’uomo arcaico, dell’homo religiosus, oggi, nel mondo disincantato. Vi si può rimandare, un po’ con intenzione, come qualcuno fa, e anche non volendo, questo si’. Cosa vuol dire? Credo: che la memoria arcaica, fors’anche una nostalgia del mondo che fu popolato dal divino, risiede nella struttura della nostra mente e noi la “portiamo”.
Se si ammette che “i contenuti e le strutture dell’inconscio sono il risultato di situazioni primordiali antichissime, soprattutto critiche” (è la tesi di C. G. Jung ma anche di G. Vico, che non parlò (non ancora) di inconscio, ma anche di Eliade – cfr. op. cit., p. 132). Se è vero che “a livelli arcaici di cultura, l’essere si confonde con il sacro” (ivi, p. 133), bisogna considerare che oggi “L’uomo profano è il diretto discendente dell’homo religiosus e non può annullare … il comportamento dei suoi antenati, che lo hanno costituito nella sua forma attuale” (ivi, p. 132), tanto più che gran parte della sua esistenza è alimentata da impulsi che nascono… da quella zona … che oggi viene chiamata inconscio” (ibidem); peraltro, “anche l’uomo più schiettamente areligioso, è soggetto tuttora, nel più profondo del suo essere, a un comportamento orientato religiosamente” (ivi, p. 133).
Non necessita aderire del tutto alla psicologia analitica di C. G. Jung o conoscere pensatori come G. Vico, per vedere cose; credo che la poesia, attraverso la mediazione di ciò che chiamiamo inconscio, abbia a che fare con il sacro, il che risulta molto evidente quando l’immagine-simbolo della montagna viene chiamata in causa.

Carlo Di Legge

2 comments

  1. Laura Cantelmo ha detto:

    Molto interessante questa raccolta di descrizioni amorose e sapienti della montagna come entità sacra. Così è il Monte Fuji per i giapponesi, ma anche il Monviso, lassù dove sgorgano le sorgenti del Po. E comunque, sempre , la montagna che tocca il cielo con le sue vette, è vicino al Paradiso. Credo che sia un libro da leggere con piacere.

  2. Margherita Parrelli ha detto:

    Un’antologia alla quale è stato un’emozione partecipare per l’amore che nutro per la montagna e per i compagni e le compagne di viaggio. Grazie a MILANOCOSA per lo spazio dedicatole.

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