La Canoscenza cercata e dovuta
Rivelare o Ri-velare nella notte che stiamo attraversando
Adam Vaccaro
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Francesco Sassetto, Discanto, Arcipelago Itaca Ed., Osimo (AN) 2023, pp.114
Quest’ultimo libro1 di Francesco Sassetto, insieme a tutto il suo percorso espressivo precedente, si colloca in quella che ho chiamato qualche decennio fa, nello sviluppo della mia ricerca di Adiacenza, Terza Riva, rispetto a due modalità prevalenti nella poesia contemporanea italiana: una di iperdeterminazione del significante, e l’altra di iperterminazione del significato.
La prima Riva tende ad appagarsi di culto e magia della lingua, con rarefazione di sensi e significati ed effetti di ri-velazione, che ricopre l’Altro ignoto di fascinosi suoni e ritmi neoparnassiani, fino a idolatrie del nulla, che relegano in stanze chiuse un io appagato da ruote pavoneggianti intorno al proprio ombelico, e indifferente alla fame di conoscenza della complessità della realtà in cui viviamo. Forme alonate da ideologia del Testo, per le quali le formiche nere incise sulla carta sono Tutto.
La seconda Riva tende invece, tra minimalismi o visioni ideologiche precotte, a scodellare narrazioni di realtà monca o immaginaria. Forme diverse di chiusure e aperture ugualmente illusorie, che a volte si ammantano del termine civile, e che ri-velano in altri modi la durezza di vita convissuta dalla maggioranza degli esseri umani. La quale si dibatte da sempre tra disperazione e speranze utopiche di orizzonti rispondenti a esigenze primarie, materiali e culturali, tra cui il bisogno di capire, senza il quale rimaniamo a zampettare freneticamente immobili, prede facili dei poteri in essere.
Specificavo nello scritto richiamato2, una “Terza riva, che tenda a coniugare complessità e transitività, adiacente alla totalità del Soggetto Scrivente e del mondo, ricca di sensi e domande sospese ma anche di risposte e aperture rispetto al contesto chiuso e senza speranza che i poteri in atto ci offrono. Contesto che si rafforza quanto più i comportamenti e il dire non mettono in comune, non creano comunità e condivisione ma solo somma fàtica di io io, in ridicola paranoica competizione”
Francesco Sassetto, fa proprio questo mandato e scrive all’incrocio del bisogno di mostrare le falsità e le vergogne del Re odierno, dalle forme invasive e invisibili nella civiltà decantata dalle mille trombe mediatiche, al fine di sollecitare un pensiero critico, senza il quale la maggiore conoscenza diventa impossibile.
“Sei il Paese delle feste e dei festival “io tu e le rose”/ e la pistola di Luigi, terra di poeti e santi/ navigatori ed emigranti, “bella ciao”/ e “fin che la barca va”, mani che stringono/ mani ammiccanti, una lava l’altra,/ il bacio sulla bocca di Ivano/ e quello di Giulio a Totò Riina.”
……..
“E poi vent’anni di risate, bunga bunga, puttane/ politici corrotti, giornalisti prezzolati, finanza/ allegra e leggi per sé e i suoi lacchè” , “il Cavaliere dall’ampio consenso/ popolare, che ha fatto del Paese bordello personale”, mentre i “Signori feudali arroccati nei loro castelli/ guardano i sudditi obbedire/ andare chini a lavorare”, beata-mente “sorridono/ li chiamano cittadini.” (p17)
Sono i primi versi del libro, che si misurano col contesto dominato dall’ideologia neoliberista, infarcito di giochi verbali (ben più micidiali di quelli di tanti aspiranti poeti) e menzogne retoriche dietro parole magiche – riforme, cambiamento, crescita, civiltà, democrazia – col fine gattopardesco ed eterno del potere, di conservazione dell’esistente e di cambiare tutto per non cambiare nulla.
Il fine è la castrazione delle capacità di pensiero critico, utilizzando tutti gli strumenti della contemporaneità – mass e social-mediatici, fascinazioni tecnologiche o dello spettacolo e, non ultime, le droghe – per una costante azione lobotomica e di inebetimento politico. Le attuali immense potenzialità di armi di distrazioni di massa tendono ad agire, sia con mille canali cartacei e visivi, sia con tecnologie digitali sempre più invasive di intelligenza artificiale, quali chat-gpt, chip, progetti di transumanesimo che azzerino ogni ricchezza delle diversità e identità umane, in una marmellata melange di cui sono immagine adeguata i felici imbecilli della pubblicità, con libere solo le teste dominanti imperialistiche, assetate di guerre e carneficine continue.
Quando si ripete, come uno slogan o un mantra, restiamo umani, se non si intende questa sfida difficile e interminabile di conoscenza, si rimane su un bla-bla subumano, consono e conglobabile dai poteri finanziari mondiali, per i quali il sogno realizzato è un paradiso (per loro) infernale (per noi) di impotenza totale dei governati, in uno stato di caoslandia e rimbambilandia, in cui libertà, democrazia sono diventate coperte rosse di una ideologia di sinistra, punta di diamante del neoliberismo trionfante, anche se sbeffeggiato già dalla lucidità leopardiana di 150 anni fa, con disegno di Magnifiche sorti e progressive.
Di questo intruglio e di queste prospettive, i versi di Sassetto si fanno sassi impietosi che continuano a togliere il velo su falsità e vergogne del potere: disilludere è il primo passo della dignità umana e delle sue speranze di rinascita:
– “Dio Patria Onore le parole di frode/ predicate dai padri” (Redipuglia, p47)
– “l’aria irreale, due carabinieri ai lati del portone/ la tessera secondo piano terza aula a destra”, “il rito della democrazia/ e il suo funerale” (Elezioni, p.22)
Una coscienza, forse confusa, ma poi i più fuggono da ogni ritualità democratica, nauseati dal suo livello di falsità e corruzione. Si è parlato di catastrofe antropologica e basta vedere l’immonda tragicommedia cui stiamo assistendo rispetto agli immigrati, tra critiche xenofobe e buonismi, in parte tradotti in affari finanziati e consoni ai piani del capitale finanziario globale, se non prede di organizzazioni criminali.
Se chi scrive – in versi, in prosa e in ogni altra forma di espressione – non rivela l’invisibile nascosto dalle narrazioni dei poteri vincenti, rovesciando lo scontato e le illusioni ideologiche, diventa un ornamento di corte, che consola le ansie del colto e dell’inclita, ma non risponde al mandato dantesco (corona retorica nella recente celebrazione dei 700 anni dalla morte) di virtute e canoscenza.
Questo arduo interminabile percorso è fatto proprio dal Soggetto Scrivente (SS) che agisce nei testi di Francesco Sassetto. Il corpo a corpo con le durezze o dolcezze della vita, personali e del contesto, generando toni e petali diversi trasmutati in segni, dal sarcasmo all’autoironia, alla tenerezza degli attimi d’amore, alimenti fragili eppure resistenti di un poièin che inventa parole con sensi e canto nuovi, ma innervati in Nomi della grande poesia (citati in eserghi e dediche non gratuiti) o in Autori di canzoni memorabili. Un canto in cui “lingua e dialetto sono strumenti non ammiccanti…alla banalizzazione in atto”, chiosa Manuel Cohen nella Prefazione, perché sono corpi del corpo che resiste a tutto ciò che lo nega, “Sono pietre vive nella notte, sassi da lanciare nelle acque affaticate…dell’epoca di cui siamo testimoni, attori e vittime”.
Sono acque scure di “questa laguna di onde nere” (Xe un sigo grando, pp.52-53), di una Venezia, sotto un “cielo lontano/ sempre più nero” (Com’è triste Venezia, p.30), eco di una nota canzone di Aznavour, che qui diventa quadro graffiante di una città ridotta a bazar turistico globalizzato.
Scorci, cui Sassetto contrappone la luce della propria parola, che qui slitta per biologico moto in paroe (p.104, Nota linguistica sul dialetto), sul rigo che ricerca un canto privo di sdruccio-lamenti, teso a quella leopardiana parola materiale e lirica – male intesa da tanta critica novecentesca che ha buttato il bambino con l’acqua sporca del mieloso lirismo.
È questa poi la fonte materiale del continuum, musicale e significante, sottolineato nella nota in postfazione di Sandro Pecchiari, come in quella di Monica Guerra, che richiama “la fitta alternanza linguistica – tra italiano e dialetto”, innervata nella attuale “babele veneziana”, tra “coraggio dell’ordinarietà” e sogno del “miracolo dell’uguaglianza”. Ed è questa visione che si fa verso, come versus oppositivo e come tensione d’amore.
Di tale parola è costruito questo libro nelle sue tre sezioni, che vanno dall’orizzonte collettivo a medaglioni dedicati a figure femminili, ad affetti privati, in cui la ricerca di energie d’amore, fisico e spirituale (“il sapore della tua bocca m’invade, il buio si fa più lieve”, Ti ho rivista ala bar, p.67), diventa sostanza vitale di resistenza antropologica al degrado epocale. E tra i versi più umanamente sensibili, quelli dedicati alla madre e al padre, radici di una identità-totalità – etica, progettuale, affettiva –, di cui il testo cerca di farsi testimone di carta e di carne. In pochi Autori c’è tale minimo iato tra una forma e l’altra dell’identità soggettiva, tra SS e Soggetto Storicoreale (SSR), per me impronta di Adiacenza della poesia più ricca.
Ne è un esempio proprio la sezione dedicata a figure femminili, che rimangono incise nella nostra memoria perché sono corpi costitutivi dell’universo somatizzato dal SSR, che non è chiuso custode delle proprie formiche sulla carta, se rimane il dubbio, mentre “parlavamo d’amore”, “se ti disévi dei versi/ o de noialtri do” (“se parlavi dei versi/ o di noi – E par teéfono quasi, p. 70).
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Concludendo queste brevi note, concordo con chi – come Antonio Porta – afferma(va) che la poesia è, come ogni altra attività umana, parte del mondo e non mondo a parte, che quindi è solo qui che può cercare modi e forme per essere presente, riuscendo a transitare e a muovere (come dice Alfredo De Palchi) i sensi del fruitore. Che non scappa se trova parole che, a partire dall’esperienza di chi scrive, sappiano dire e misurarsi con gli abissi comuni, con il bisogno di condivisione e di amore, di bellezza e canto, corpi (come diceva Gramigna) della fame acuta che oggi (e sempre) sentiamo, di parole capaci di fare speranza.
Ma cosa vuol dire speranza, se perdiamo la nostra capacità di coscienza critica? Senza la quale ogni conoscenza è illusoria: “come Primo ci ha comandato”, “Saper ciò che siamo/ ciò che possiamo diventare” (Andare tutti ad Auschwitz, p.45); per cui se anche siamo ridotti a “un cane bastonato…mugolando ad aspettare che torni il bastone” (Ci hanno preso per stanchezza, pp.41-42), ricordando i martirii di Pasolini, con “i tuoi versi di rabbia e pietà” (A Pa’, p.25), o di vittime della mafia, come Peppino Impastato, la nostra dignità impone di trarre da questi eroi la “voglia di non chinare la testa” (Peppino, p.24), con tutti i nostri limiti, coltivando umiltà e prospettive di soluzioni interminabili, al pari del glicine di Sanesi: “Perché portare a termine/ quando nessuno, in giardino,/ ha mai visto il mio glicine concluso”. La bellezza non sta in chi si illude di mettere un punto, ma nella precarietà del fiore, “Tutta questa bellezza inenarrabile” che resiste ne “La pianura implacabile dei corvi./ Il nero denso che racchiude i corpi./ Il gracchiare pensoso della vita.”3
Il testo, Ousman, di pp.49-50 (Osman Dembélé, calciatore di origini senegalesi), sembra un’eco di tali approdi aperti: “La vita è tutto questo e altro ancora/ che io non so dire// scrivilo tu, Ousman, dillo tu/ che lo sai meglio di me”. Un approdo con grumi e liquami in un altro testo (Miranese – ancora, p.19), in cui scorre come una telecamera in una sera d’estate nel Miranese (hinterland veneziano, simile a quella mille altre aree), con immagini fuse a una cantata popolare, che irride e ride tra “il ronzio delle televisioni, le canzoni/ di Gaetano, il cielo sempre più blu qui non si vede”, né serve una “struggente preghiera in una notte di catrame e silenzio”, ché “ci fosse un dio se ne potrebbe parlare ma i suoi disegni/ non si scorgono tra i lampi degli abbaglianti” – eppure resiste la tenera e un po’ patetica speranza di “trovare tra le crepe dell’asfalto / un filo d’erba nuova// un sorriso”
È il sorriso autoironico, che salva dalla follia “È evidente che noi siamo i migliori, camminiamo/ insieme a una schiera di anime cieche/-…/ Noi paghiamo le tasse, facciamo i vaccini/… / attenti al bene collettivo…/ scriviamo articoli e saggi e poesie indignate/ ci dicono tutti e ce lo diciamo da solo/ quanto siamo buoni” (Migliori, pp. 20-21)
Immagini che si fanno simbolo junghiano di utopia resistente, con un sorriso – che ricorda quello della Gioconda – che invita a tacere chi non sa dire che la speranza, qui, è diventata un duro lavoro, necessario e folle, come coltivare l’erba sull’asfalto!
Adam Vaccaro
Note
1 Non posso non dire che già il titolo di questo libro è per me eco di consonanze e risonanze fraterne, col suo termine, presente sia nel mio percorso organizzativo che creativo, dalla serie Canti e Discanti del 2006, di poesia e musica di Milanocosa (Milanocosa.it), a Discantiche, inserita nel progetto Teatro-Poesia di Milanocosa, per Bookcity del 2019, e prima poesia di Google – Il nome di Dio, puntoacapo, 2021;
2A Vaccaro, Nota a margine – del fare poesia (2015, In antologie e in Tra Lampi e Corti, Saya Ed., Milano 2019);
3 Cfr.: – R. Sanesi, Il primo giorno di primavera, Book Ed., Castel Maggiore (BO), 2000;
– A. Vaccaro, La scarpa destra nel gorgo – La quiddità che scricchiola sotto i piedi e sale al sorriso di Sanesi, in “Lunarionuovo – Rassegna di Letteratura” diretta da Mario Grasso, Nuova Serie N° 18, 2006-2007, dedicato a Roberto Sanesi.
Riflessioni acuminate. Grazie, Adam
Grazie Adam per le tue “riflessioni acuminate” (Grazie Manuel!), l’appassionata e fraterna lettura del mio libro (felice della nostra consonanza umana e poetica sul “discanto”). Ho apprezzato molto la tua ricognizione a 360° su tutti i “temi” toccati, da quelli politico-sociali a quelli esistenziali-amorosi, dal degrado umano di Venezia alle storie dolorose di tanti cosiddetti “ultimi” (tematiche che alcuni tendono a “spezzare”, dividere e distinguere). Laddove – e hai visto benissimo esse s’intrecciano e si richiamano e lo hai esemplificato in modo attentissimo attraverso una fitta trama di citazioni che “rimbalzano” di continuo dallo Scrivente agli Altri, dal “politico” al “personale”(come si diceva un tempo), momenti e sguardi tutti di un unico “corpo”.
E Grazie, naturalmente, a tutta la Redazione di “Milanocosa” per la generosa ospitalità ed amicizia.
Grazie a Manuel e a Francesco, di questi vivi riscontri che moltiplicano vita!
Adam
Una intensa e particolareggiata analisi del percorso poetico di Francesco Sassetto. Adam Vaccaro individua i punti nevralgici della sua poetica e di come l’atto dello scrivere sia essere nel mondo e non evocare un mondo a parte. Nonostante tutto, individua la necessità di trovare parole capaci di fare speranza e di illuminare un tempo che ha perduto il senso del suo divenire, smascherando il grande inganno della storia , Nella grazia dell’impermanenza sta il senso del vivere e del continuare, nonostante il “discanto” a cantare.
Grazie Lucia, sempre preziose le tue parole.
Grazie Lucia, confermi la tua attenzione e condivisione, oggi quanto mai necessarie alle energie di resistenza, non solo culturale.
Adam
Certo Francesco Sassetto ci costringe a non addormentarci.
In fondo è questo che la poesia dovrebbe fare sempre.
Una volta avevamo grandi registi che ci disvelavano realtà da stare svegli la notte, penso a Elio Petri, a molti dei film con Gian Maria Volonté. Nomi che oggi non dicono niente, ma che mi insegnarono che volevo uscire da un cinema cosciente e magari incazzata.
E’ questo che la poesia dovrebbe fare, se non sempre almeno spesso. E qui non fatemi fare la morale.
Sassetto ci riesce, comunque, facendoci anche talvolta divertire. Ce lo meritiamo. Ogni tanto. Poi rinasce l’amaro.
Grazie Adam per aver parlato di questo libro.
Grazie, Leila, da parte mi e di Francesco, del tuo dono di attenzione e condivisione!
Adam
Grazie Leila davvero Grazie! E’ verissimo, avevamo registi e fotografi e giornalisti e cantautori a tenerci svegli ogni giorno! Oggi sono spariti o sono rimasti pochissimi e ci mancano moltissimo, manca la loro continua lezione di memoria, morale, dignità, il loro sguardo attento e coraggioso sulla società, le ingiustizie, le disciminazioni, i molti crimini. Oggi vedo un terrificante silenzio di indifferenza, ignoranza, menefreghismo, anche verso se stessi, un’incapacità indolente di scavare nel proprio animo, riconoscere identità e appartenenze. Credo che la poesia possa, almeno un poco, la mia la tua, quella di Lucia, di Adam e molti altri, colmare un po’ questo vuoto enorme, ricordare qualcuno di questi giganti andati via, denudare la realtà odierna, la sua cecità, i suoi falsi miti, insomma resistere “in direzione ostinata e contraria”, come cantava Fabrizio. Un forte abbraccio a tutti, amici miei.