Pasquale Vitagliano, Apprendistato alla salvezza, Interno Libri Ed., Latiano (BR), 2022, pagg.66
Nota di lettura di Laura Cantelmo
La intensa qualità visionaria della silloge Apprendistato alla salvezza di Pasquale Vitagliano contiene un’unità tematica – la speranza di salvezza dal caos – che lo rende a pieno titolo un poema e, allo stesso tempo, una ricchezza simbolica e immaginifica che fa pensare a un’esposizione di arte figurativa.
Questa sua interessante singolarità, attribuibile a una predilezione culturale dell’Autore, si presta anche a una sperimentazione del linguaggio poetico affine a quello di alcuni importanti movimenti artistici del secolo scorso, come il Cubismo o la Metafisica, nei quali la sovrapposizione di oggetti di epoche storiche differenti o di provenienze contrastanti, ottenevano un sincretismo dove l’immagine aveva una fondamentale funzione evocativa. Qui il Poeta ottiene lo stesso effetto, attribuendo all’immagine un’importanza prevalente rispetto alla parola e alle sue potenzialità semantiche.
In poesia la giustapposizione di immagini su cui viene costruita l’architettura del discorso poetico vanta illustri esempi – il Surrealismo, Ezra Pound e il suo Movimento Imagista, oltre a T.S. Eliot, citazioni che si limitano ad alcuni tra i più celebri. Inoltre, la freudiana Interpretazione dei sogni ci insegna che la funzione dell’inconscio si esplica attraverso le immagini ed è intuibile grazie ad esse nell’esprimere uno stato dell’anima. Grazie all’atmosfera onirica nella quale questo poema è immerso, percepiamo qui uno stretto collegamento con l’Es. Ma va anche sottolineato che l’incalzante successione mediante la quale esse intendono rappresentare una terra desolata mira ad ottenere l’effetto di una sequenza cinematografica, fedele alle astuzie dello specifico filmico – il montaggio – a testimonianza della passione a tutto sesto dell’Autore anche per la settima arte.
Nella scelta di presentare i testi senza titolo, quasi fossero anonimi e nell’iniziare ogni verso con la lettera maiuscola, a sottolineare l’indipendenza di ciascuno di essi da quello successivo, non si può non ravvisare le atmosfere atemporali della pittura metafisica, oppure quelle della apparente casualità cubista, nella scomposizione spaziale di oggetti e immagini, ciascuno portatore di una sua verità. E ancora, il semplice atto di citare con la lettera minuscola, in una funzione grammaticalmente appositiva, lo scultore Rodin e il pittore astrattista Rothko, fa parte della ricerca stilistica di questo non semplice poema. Ma la citazione non è certamente a caso: il richiamo a Rodin, lo scultore francese amante sia delle forme possenti che delle figure sbozzate, simili ad alcune opere di Michelangelo (vedi I Prigioni, o la Pietà Rondanini), oppure al pittore Rothko, autore di vaste e nude campiture di colore, immerse in un inquietante silenzio nell’immensità del deserto, confermano il profondo impatto dell’arte figurativa sulla scrittura di Pasquale Vitagliano e sono azioni automatiche che paiono emergere direttamente dall’Es.
Nel titolo, il termine Apprendistato allude a un lavoro di apprendimento, umilmente teso a qualcosa di sacro – la salvezza – e di necessario alla sopravvivenza di fronte a un grave pericolo. Un impegno mirante a preservare quella nobiltà dell’essere umano, ormai persa, che l’Ulisse dantesco ci ha tramandato e scolpito nella mente, come monito: “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza” Come in molta poesia contemporanea, qui sembra evidente essere la perdita il tema principale, quella stessa perdita a cui alludeva Dante nel Canto XXVI dell’Inferno.
La tematica, di evidente ispirazione nichilista, viene inquadrata entro una scena in una sospensione delle categorie spazio/temporali annunciate dall’esergo di Clemente Rebora: “Dall’immagine tesa/ vigilo l’istante/ con imminenza di attesa/ – e non aspetto nessuno:” Versi da tenere presenti per l’interpretazione della silloge stessa: l’importanza dell’immagine, la funzione del tempo – concentrata sull’istante, senza passato né futuro – l’attesa come stato d’animo, nell’ amara consapevolezza che nessun Godot comparirà. Anche nelle correnti di arte figurativa cui si accennava, la categoria del tempo viene “sacrificata” a favore dell’indefinitezza spaziale. Il tempo è memoria, organizzazione, sequenza – tutto quanto è escluso nella condizione che Vitagliano descrive.
Un paesaggio distopico, dunque. Nel vuoto derivante da una catastrofe non ben definita, la cui causa sembra essere la perdita del sogno – “un sogno che non ci appartiene più”. Ne viene coinvolto l’Io scrivente in quanto everyman, l’essere umano in generale:” Ho bussato a tutte le porte/ Qui non c’è più nessuno/ Salvo i fantasmi dietro le porte”. Il linguaggio (la parola) è ormai sterile: “Dopo la prova che la parola non cura”, il Poeta è espropriato dello strumento essenziale della poesia. Un barlume di speranza pare emergere dall’invocazione “la luce la luce è la luce”, (p.9), per la sua capacità di manifestare” la reale sostanza delle cose”. Sarà la luce illuminista della ragione? Braccato, sotto assedio, il Poeta si muove lacero, i sensi narcotizzati in un “corpo smemorato” (p. 21). Poiché “Tutto è stato detto prima” si è smarrita ogni certezza, tanto che “Non mi sembra vero/ Di essere riuscito a fare delle parole/ Copie” (p.25). Ne deduciamo che la scena del mondo estenuato fa riferimento alla realtà attuale: una eliotiana terra desolata, asfittica e disperatamente sterile, priva persino di quei lillà primaverili, sorprendentemente privi di speranza. “Pensare senza il pensiero/ Scrivere ciò che è illeggibile”: la sospensione della razionalità provoca azioni antitetiche il cui effetto è una “dolce aponia” – la mancanza di dolore fisico – che la nostra memoria, evocando Epicuro, associa ad atarassia, la serenità mentale, condizioni necessarie per il filosofo greco al raggiungimento della felicità come scopo della vita (p.19). Ci viene detto che sulla via di una possibile salvezza la dolce aponia non rappresenta l’oblio, ma unicamente uno stato di assenza del dolore, in un silenzio che è il silenzio del mondo. Qualsiasi coinvolgimento emotivo viene evitato: i sensi narcotizzati inducono quella aponia e, coerentemente col clima descritto, acuiscono il senso di totale disumanizzazione.
Il duro apprendistato verso la salvezza richiede anche l’affrancamento da sentimenti e da pratiche del passato, come l’esperienza del dolore o la scrittura poetica. Ed emanciparsi dal dolore è già di per sé una sorta di liberazione. Eppure, l’idea di una dissociazione della mente dal proprio corpo vive una contraddizione, una rivendicazione di proprietà della parola: “Benché pronunciate continuano/ Le parole ad essere le tue anche/ Se col corpo non c’entrano più”. Immerso in una realtà straniante, nella disumanità della tecnologia, che “vede inutile pensare”, il Poeta si rende ormai conto di aver perduto “virtute e canoscenza”, ovvero la sostanza della natura umana.
Le due sezioni finali introducono un vero e proprio cambio di stile e di atmosfera- vi troviamo dei testi che indicano in termini realistici la dimostrazione tangibile della devastazione, fornendo la chiave di lettura dell’intera silloge:” Taranto per noi” descrive lo sfregio subito dalla fulgida bellezza di un’antica e storica città, attraversata da una dolorosa ferita, un ponte che non unisce come dovrebbe, ma separa i due mari e due settori dell’abitato, testimoniando inettitudine e cecità politica.
Ora il clima non è più astratto, il tono è di denuncia, pur essendo il paesaggio simile alla distopia descritta in precedenza:” Ė accaduto anche alle loro case di essere lasciate sole/ Insidiate dalle piattaforme che affollano svuotandole/ Asfissiate dalle ghiere che le disabitano…”. Il danno è stato compiuto e adesso, nella sua cruda realtà, l’atmosfera del disastro si ammanta nuovamente di una desolante cupezza: “Nella nostra notte terrestre il silenzio è così grande che le luci si sono spente/ Ė come guardare una tenebra ed invece è una nottata calma in cui tutto è sistemato.” (p.48) “Tutto è sistemato” sono parole di fuoco, cariche di inquietudine. l
Dopo accenni ad altre catastrofi – la pandemia e l’incombenza della fine, il Poeta sembra avere raggiunto un traguardo: “Porto dentro di me ogni riparo” (p.46) benché dominato da un insopprimibile senso di perdita:” La luce non serve la speranza non smuove/ Alzati ascolta prova a spostarti cammina/ La luce non serve per salvarsi”. (p.47). Ma neppure la luce ha più un senso:” L’oscurità ti viene dentro/ Mentre la notte non ti lascia” (p.47). La vanità di ogni sforzo induce a una disperazione senza grida né lacrime, anche quelle ormai inutili. Moderno Lazzaro, il Poeta è costretto a muoversi attraverso l’oscurità e la desolazione universale, pur restando pronto alla lotta.
Il tono nichilista ritorna nell’ultima sezione, “Dopo la battaglia”, anche se “La guerra privata è finita” (p.53). Le storture e l’effimero di una società consumistica, le sue drammatiche guerre, le minacce nucleari, sono ora trattate duramente, con tono beffardo: “Il cibo inghiottito non ci nutre” e “Non c’è l’arsenico in questa torta/ c’è solo che siamo a dieta…potremmo morire tutti all’istante/ Tutto è diventato possibile/ Prima o dopo il bollettino ufficiale/ Anche che qualcuno alla fine si salva.” (p.56). Implicita denuncia dell’incapacità di reazione degli esseri umani di fronte allo sfacelo, che li destina all’autodistruzione.
Dopo tanto cammino, il ritorno alla realtà odierna dà nuovamente spazio al sogno:”. Finalmente ho fatto un sogno/ Che non era un presagio era/ […] promessa che la tavola è una terra/ Sulla quale nessuno chiede permesso.” (p.59) Un mondo di eguali, senza confini, civilmente aperto all’accoglienza, senza distinzione alcuna, ecco l’utopia mai rivelata. Significa forse che il sogno, quello supremo, con la S maiuscola consente finalmente la speranza?
Ma la conclusione è significativa: “Non mi aspettavo una guerra/ Per cui non devo combattere/ Eppure sono in trincea/ Con un solo colpo in canna/ Così devo difendere la chiave da passare al prigioniero”. (p.62) Possiamo dedurre dunque che l’apprendistato non avrà fine? Pur se la perdita, cocente, resta. E con un inquietante colpo in canna.
Privo di finale consolatorio, il dramma è raccontato con grande maestria e con fredda passione da un Poeta che pratica l’impegno politico dal basso, muovendosi con consapevolezza nel marasma in cui tutti viviamo. Sognando, però, come chimera, un mondo migliore.
Milano, settembre 2024
Laura Cantelmo