Dibattito sulla poesia contemporanea-I

Pubblicato il 26 luglio 2010 su Saggi Poesia da Adam Vaccaro

Anomalie nel deserto – dibattito sulla poesia contemporanea

Adam Vaccaro

Nella calura che quest’anno ha dato poche tregue, Giorgio Linguaglossa ci ha incalzato con “Lettere di intenti” (un po’ “curiali”, dice Luigi Manzi) e e-mail collettive che sollecitano opinioni e prese di posizione sullo stato della poesia contemporanea, a partire dal suo recente libro La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980-2010), Roma, EdiLet, 2010. pp. 262 € 13,00.

Intanto mi pare opportuno dare spazio (come è stato fatto dal sito di Lietocolle) alla serie di scambi che ne è scaturita, con contributi di: Gianmario Lucini, Franco Romanò, Massimo Conese, Fabrizio Dall’Aglio, Alfredo De Palchi, Mauro Ferrari, Gezim Hajdari, Dante Maffia, Luigi Manzi, oltre a brevi puntualizzazioni di Roberto Bertoldo, Gilberto Gavioli e Fabio Franzin, e a una intervista a Linguaglossa di Luciano Troisio (vedi su https://www.milanocosa.it/eventi-suggeriti/intervista-a-giorgio-linguaglossa, e su http://www.lankelot.eu/letteratura/linguaglossa-giorgio-la-nuova-poesia-modernista-italiana-intervista-giorgio-linguaglossa; interventi che, al di là dei contenuti, si sono sviluppati in un prevalente clima inconsueto di confronti serrati ma non saccenti o manichei, rispetto ai problemi posti dall’attuale crinale epocale.

Di Linguaglossa si può dire tutto il male e tutto il bene, ma credo sia utile misurarsi col suo approccio di analisi (e questo dibattito lo mostra), perché muove da una anomalia che cerca di guardare il fare poesia, entro l’orizzonte storicosociale in cui siamo. Approccio raro, in generale e non solo nella critica letteraria, perché il processo culturale in Occidente si è sviluppato per moltiplicazione di separatezze, dalle due culture agli infiniti ambiti specifici, in cui ognuno si illude di essere autonomo, dominus e dio di quel linguaggio, di quella scienza ecc., ritenuti ovviamente superiori a tutti gli altri per capacità e ricchezza di conoscenza.

Penso invece da sempre che la poesia, l’arte, la letteratura, come ogni altro fare, creativo, scientifico o speculativo (ma anche le operatività meno elevate e complesse), ricevono dal riferimento all’Altro – in particolare se questo è la totalità del contesto in cui germinano – una apertura e una torsione di sensi che da soli non possono darsi. Vale per i soggetti singoli, come per quelli collettivi, vale per quel soggetto che è il testo (quale inteso da Giuliano Gramigna).

Naturalmente, tenerlo presente non garantisce nulla, può anzi favorire (come sappiamo) una critica ideologica delle valenze o non valenze attribuite ai testi esaminati, asservendo ad essa la specifica analisi testuale. Ma ignorare o rimuovere il contesto non aiuta certo a evitare il rischio di un altro tipo di ideologia, quella del testo. Dal piano della costruzione a quello della fruizione e della sua analisi, condivido (come ho scritto altrove) la sintesi di Antonio Porta: il testo non basta a se stesso.

Tale tensione – interdisciplinare e per me fondante, sia per la mia ricerca critica intorno all’Adiacenza, sia per le iniziative di Milanocosa – è rilevabile anche nel libro di Linguaglossa, a cominciare dal titolo, col termine Modernista e col trentennio preso in esame. È un arco di tempo, un passaggio epocale, che porta all’estremo e rende impossibile, pena la totale ininfluenza, continuare a fare come se non fosse successo nulla. La realtà, rimossa o tenuta presente, può rendere muti o dare alle parole la capacità di vincere il tempo.

A Linguaglossa viene comunque riconosciuto il coraggio raro di fare nomi e cognomi, che manca non solo per piccoli calcoli e convenienze tartufesche, ma anche perché la situazione è tale che può togliere, come dice Lucini, anche la “voglia di dibattere, scontrarsi, scornarsi”. Chi la sa lunga, dà giustamente del “fesso e coglione” (come dice De Palchi) a chi manca di accorto bon ton, e dice liberamente ciò che pensa, o viene magari solo mormorato “in confidenza”, tra stanze e piazze reali o virtuali. A ciascuno il suo.

Tuttavia, Linguaglossa suscita le simpatie della “mosca bianca” priva di accortezze furbesche o del cavaliere disarmato senza le pretese ex-cathedra di tanti maîtres, perché la sua vis polemica si innerva in una passione etica e in disagi, insofferenze e degradi avvertiti in modi diversi da tanti, anche critici nei suoi confronti. Questi scambi lo dimostrano ed è questo che spinge a non lasciarlo solo, cogliendo l’occasione di ripensare meglio – insieme e per tutti – alcuni nodi espliciti o impliciti dei suoi assalti.

Nodi enormi e spesso rimossi della realtà contemporanea, connessi alla fase compiuta del capitalismo globalizzato – così come analizzato da vari studiosi e in particolare da Frederic Jameson in Postmodernismo, le logiche culturali del tardo capitalismo (Fazi, 2008), di cui Paolo Rabissi fa un’adeguata sintesi (in https://www.milanocosa.it/temi-e-riflessioni/frederic-jameson-globalizzazione-e-postmodernismo, già in http://rivista.overleft.it -, che tende a porre la poesia (e la cultura con capacità critica) in ambiti di marginalità e irrilevanza, di culla a bagnomaria e fuori gioco (o fuori mercato, come dice Sanguineti).

È il caso di citare qualche passo di tale sintesi: “Nella graduale scomparsa del mercato come luogo fisico e nella tendenziale identificazione della merce con la sua immagine (con il marchio o il logo) si compie un’intima simbiosi tra il merca­to e i media…al posto della vecchia separazione tra cosa e concetto (o …tra economia e cultura, base e sovrastruttura) prende pro­gressivamente piede una…circostanza molto diversa… dalla situa­zione storicamente precedente (vissuta dalla generazione nata negli anni quaranta e cinquanta)”.

“La postmodernità, afferma Jameson, non è altro che l’attuale fase storica del capitalismo, la terza, quella della globalizzazione. Nella quale il capitalismo ha raggiunto la sua espressione più ‘pura’, in piena sintonia con le analisi di Karl Marx e di Ernest Mandel”: «…la globalizzazione è la postmodernità e viceversa…due nomi diversi per descrivere esattamente lo stesso fenomeno storico e lo stesso periodo economico: uno sottolinea la sua espansione economica…un mercato mondiale definitivo, l’altro mette a fuoco le strutture e le forme culturali nelle quali è giunta a esprimersi questa mutazione». Se «…nel periodo classico la realtà persisteva indipendentemente da quella “sfera culturale”…Oggi la cultura…rende problematica qualunque forma indipendente o, per così dire, non o extraculturale».

Linguaglossa è tra i critici che tengono presenti tali intrecci, vedi l’intervista a Troisio, in cui invita a rileggere “la lezione di Franco Fortini…uno sconfitto…lezione rimossa dalla coscienza della poesia italiana”: «Una poesia che si disgiunga dalla coscienza costante di tutto quello che poesia non è, si degrada ad “aroma spirituale”, a ipocrita “cuore di un mondo senza cuore” o…a “vino di servi”».; “Soltanto portando la «poesia» oltre la «poesia», oltre e al di là degli steccati degli istituti stilistici si potrà giungere alla riforma strutturale del linguaggio poetico che non è mai avvenuta nelle patrie lettere.”

Tutto ciò moltiplica e non diminuisce la responsabilità politica (in senso alto, come sollecitata da Antonio Porta già vent’anni fa) della scrittura, che è sfidata ad andare oltre un ambito appartato, attivando i suoi specifici processi simbolici. Dice Carlo Sini: il simbolo è il carnoso del concetto. Ma questa carne diventa reale se coinvolge l’Altro, se i sui canoni diventano presenti e vivi in una realtà che, intanto, procede con tecniche e linguaggi talmente diversi per cui occorre inventare forme capaci di misurarsi con essi, se si vuole esistere e resistere con una propria autonomia. Non si può scrivere, in sostanza, come 20, 30 o 40 anni fa. Pensare di farlo, vuol dire ignorare la realtà in cui si vive, rimanendo ininfluenti rispetto al processo vitale. Che senso ha allora dichiarare di voler centralizzare la vita?

Ciò comporta per la poesia, al pari di ogni altra forma e linguaggio, di essere capace di bucare, con i suoi specifici processi simbolici, l’invisibile schermo oltre il quale c’è un pubblico potenziale. È questo il problema della poesia contemporanea che, a suo modo, anche Linguaglossa pone con una passione etica priva delle consuete accortezze dell’ambito letterario, teso ormai più ad autolegittimarsi che a esercitare un’azione critica corrosiva. Nelle presentazioni, recensioni, antologie, premi ecc. contano prima di tutto le amicizie, le relazioni, le logiche (come lui dice) del do-ut-des, che favoriscono le esaltazioni più che le tarature critiche.

L’ambito letterario (e della poesia) non si distingue, salvo pochissime eccezioni (tanto da far dire a Roberto Bertoldo che nessuno di noi è privo di qualche scheletro nell’armadio) dagli altri ambiti. Convenienze particolari e familismi che sono poi terreni di coltura di una cultura che, in Italia in particolare, scivola verso mafie di ogni tipo. Qualcuno dice: e perché dovrebbe distinguersi? Siamo forse angeli?

Ma quando alziamo le mani davanti ad atteggiamenti che toccano “la questione morale”, qualunque sia l’ambito (politico, artistico, professionale) di cui si parla, quell’ambito tende a degradare e a produrre melma. Che magari nel breve termine viene presentata come oro colato. Ma nulla di nuovo, si dice ed è vero, è stato e sarà sempre il tempo lungo a fare giustizia, a dare le misure vere.

Quindi, perché agitarsi, scandalizzarsi, suggerisce il disincanto “cinico e diffidente” (Dante Maffia) di chi non è nato ieri. Ma la situazione attuale tende a castrare proprio l’azione del tempolungo, ad azzerare i fattori selettivi rispetto al presente e al futuro. Talché “il Sacro Capitalistico Impero, con la sua eterna Arcadia, la sua clericatura, con i suoi paggi e i suoi riti, sarà sempre lì. Ineffabile ed eterno”. E Luigi Manzi ci aggiunge un carico di ottimismo, ricordando gli scambi tra Dino Campana e Mario Novaro, che già agli inizi del ‘900 parlavano di poesia con troppi rospi e anfibi, tra ciarlataneria, idiota volgarità e sciatteria indolente. “Amen”, commenta Manzi, “arriviamo almeno con un secolo di ritardo”.

Tuttavia, in Linguaglossa, questione etica e vis polemica non si risolvono in furia moralistica, ma hanno nessi forti col taglio critico e la sua concezione di buona poesia (o vera poesia, di cui ognuno ha la sua verità). E tale concezione non fa riferimento a un canone, improbabile o impossibile dopo il ‘900, ma rapportando il fare poesia all’orizzonte storicosociale che segna una fase di passaggio, più che da un secolo a un altro, da un’epoca a un’altra.

L’ideologia dominante della libertà consente di coltivare e dare conto dei peli del proprio ombelico, come di rinnovare forme di Arcadia e giardini riparati in cui secernere un lievito che nel tempolungo produrrà immancabili azioni rivoluzionarie. Fino a che si balla da soli, nessun problema e obiezione, si può anche dire e sognare qualunque cosa, persino di dare un senso sociale e civile al fare arte e letteratura. Che ciascuno persegua le utopie in cui crede, sembra irriderci la cultura dello spettacolo concessa dal grande fratello, non avete audience sotto il mio cielo, ormai un immenso imbuto senza uscita da questo crinale raggiunto.

Il dato positivo di buona parte degli interventi che seguono è, ciononostante, la ricerca attiva di margini di cambiamento, in una situazione che, dentro e fuori l’ambito letterario, presenta caratteri ormai noti, ma che interessano poco molti scriventi: da un lato, affollamento e ininfluenza, dall’altro mercantilizzazione di ogni aspetto della vita. Che fare?

Per chi si occupa di poesia, ripartire dalla buona poesia, che c’è ancora. La pars destruens di ogni azione critica ha senso in relazione alla buona poesia che pensa di difendere. Concordo perciò con chi – vedi gli interventi di Franco Romanò e Gianmario Lucini – valuta in Linguaglossa tale parte più condivisibile della pars construens. Ma a me pare inevitabile, perché la parte da salvare è decisamente più piccola. E poi ognuno ha la sua idea. Tuttavia, su questo, se è vana l’attesa di una “riforma strutturale del linguaggio poetico”, o è ardua (nella plaga di stili-non-stili contemporanea) l’ipotesi del ripristino della “linea centrale del modernismo europeo”, è utile il rilievo di linee laterali di rinnovamento e uscita che Linguaglossa fa, portando gli esempi degli autori per lui più convincenti ed analizzati in questo libro, spesso caratterizzanti (vedi tra gli altri, Maffia, Bertoldo, De Palchi) forme di una letteratura impura e vitale, che fa magari carezze con ortica o carta vetrata.

Conclusioni dunque aperte, che sollecitano domande come questa: se siamo pervenuti a una fase in cui non ci sono più canoni, è un caso che ciò accada in una desertificazione di pubblico? Canoni e pubblico sono, come ho già avuto modo di dire (vedi Nomadi e monadi – Convegno Canone e canoni – Pozzolo F. (AL), 23 giugno 2007), termini interconnessi. Senza una condivisione nel corpo sociale la poesia – anche quando è buona o vera – rimane sospesa e potenziale. Il pubblico, per quanto ridotto, è la carne e il sangue cercati dal testo, non per rincorrere i fasti della società mediatica o soddisfare narcisismi, ma semplicemente per essere.

Sono questi i motivi di fondo che penso abbiano sollecitato questi interventi e me a dare loro spazio nel sito di Milanocosa, con partecipanti, caratteri, contenuti e toni, anch’essi alquanto anomali rispetto a tanti scambi di e-mail collettive, che spesso producono solo equivoci e perdite di tempo.

Adam Vaccaro

24/7/2010

DILUVI E DERIVE

Di Franco Romanò

Partendo dalle tesi di Jameson e considerandole in questo contesto soltanto per quanto riguarda il mondo della cultura e delle arti, mi sembra si possano delineare, nello scenario italiano del secondo dopoguerra, alcuni punti di snodo.

1) L’esaurimento del Neorealismo, che aveva dato il meglio di sé nella cinematografia, lasciò sostanzialmente intatto il linguaggio poetico. Esso diede opere importanti anche in narrativa, ma non produsse alcuna vera cesura con la tradizione. L’incrinatura cominciò a palesarsi verso la fine degli anni ’50, con la rivista Officina, che nacque intorno a Pier Paolo Pasolini e Franco Fortini. Il primo dei due pose esplicitamente il problema di un rinnovamento linguistico della poesia italiana, parlò per primo di sperimentazione, ma sempre all’interno di un discorso che rimaneva fortemente legato alla tradizione. Infatti, quando avverrà la cesura vera, con il Gruppo ’63, Pasolini entrerà in polemica assai aspra con Edoardo Sanguineti e con l’insieme di quell’operazione culturale. Altre due opere di quegli anni, La ragazza Carla di Elio Pagliarani e La capitale del Nord di Giancarlo Majorino, si posero come libri laterali rispetto alla tradizione e anche rispetto al dibattito inaugurato da Pasolini. Si tratta di due libri importanti, ma non suscettibili di fondare una poetica diversa, che nascerà soltanto con il Gruppo 63 e la Neoavanguardia, alla quale verrà associato, seppure con qualche forzatura, lo stesso Pagliarani. Con il Convegno di Palermo avviene la vera cesura che Jameson colloca, per quanto riguarda gli Stati Uniti, alla fine degli anni ’50 e cioè con la morte di Wallace Stevens avvenuta nel 1957; anche se non va dimenticato che Marianne Moore (appartenente anche lei alla tradizione del moderno e per lungo tempo sodale con lo stesso Stevens), morirà quindici anni dopo, nel 1972. Con il Gruppo ’63 si apre una frattura nella tradizione italiana, nasce la prima generazione neoavanguardista che sarà seguita da una seconda, fino alla fondazione del Gruppo ’93. L’antologia I novissimi, la rivista Quindici, furono i momenti più felici e più rappresentativi della prima ondata. Varrà la pena di ricordare, tuttavia, che alcune fra le più significative esperienze rapportabili all’avanguardia, erano precedenti al Gruppo in questione, che si avvalse in quegli anni, e ancora di più successivamente, di un’esposizione mediatica e propagandistica ben maggiore di quanto ne ebbero, per esempio, Corrado Costa, oppure Emilio Villa. L’esperienza avanguardista coprì l’intero campo del dibattito di quegli anni, contestata di fatto solo dalla polemica pasoliniana. Relegati in seconda linea da quella discussione a volte inutilmente furiosa, i fautori della tradizione, compreso Quasimodo che ne pagò forse il prezzo più alto, fra coloro che erano sulla breccia. Montale, Caproni e Bertolucci fecero spallucce di quella furia iconoclasta, se ne stettero appartati a proseguire il loro cammino già ampiamente consolidato, mentre Umberto Bellintani si ritirò per scelta dalla scena proprio nel 1963, in polemica silenziosa con l’andazzo dei tempi. Il grande poeta mantovano, infatti, decise di non pubblicare più nulla e uscirà dal silenzio soltanto nel 1998, lo stesso anno della sua morte. Rimaneva Fortini il quale però, anche per altre ragioni, si dedicherà maggiormente e con grande costrutto alla critica, sia culturale sia strettamente letteraria. Si avvicinava il ’68, la presenza di Fortini interna al movimento politico nato in quegli anni e al dibattito che ne seguiva, fu un faro prezioso per tenere legati insieme tensione politica e culturale, ma i movimenti di quegli anni guardavano molto di più alla Beat Generation. Peraltro, la neovanguardia, ormai istituzionalizzata nelle università, ebbe un ruolo marginale nei movimenti (se si eccettua Balestrini), costruendo invece un pezzo significativo del potere editoriale, accademico e culturale della sinistra degli anni successivi. La Neoavanguardia, non sempre consapevolmente, anticipò fenomeni tipici del post moderno, cavalcò la nascente industria culturale, capì l’importanza del cinema (in questo d’accordo con Pasolini) e specialmente della televisione.

2) La reazione degli anni 80. Nel 1979, l’antologia poetica La parola innamorata si presentò (e così da molti fu considerata), come il tentativo di restaurare una visione alta della poesia, recuperando il valore del dettato poetico, soffocato dall’ondata rivoluzionaria e iconoclasta degli anni ‘60 e ‘70. Un’operazione, dunque, contro il cinismo e la disinvoltura prima criticate anche da me in questo saggio. Erano in molti anche coloro che dubitavano di questo, ma è importante ripercorrere tale esperienza. Pur nella sua oscurità un po’ magniloquente, l’introduzione di Giancarlo Pontiggia e Enzo Di Mauro all’antologia è interessante per capire quali bersagli i suoi estensori tenevano sotto tiro. Vorrei citarne qualche passaggio: “…Dunque no alla critica storicistica e alle sue diramazioni sociologizzanti, secondo la linea nazionale De Sanctis-Gramsci (con contaminazioni ora crociane, ora lukacsiane), che costituisce un avvicinamento tattico della poesia alla storia e al sociale e quella missione internamente etica e politica dell’arte……” Qualche riga più avanti un altro no importante:”…No all’imperialismo della semiologia, ma con due annotazioni: da una parte l’effetto parodistico che è implicito negli effetti di decostruzione del testo, nella rete parossistica di tabelle, gradini, classifiche, livelli ecc. che vengono ossessivamente indagati e che costituiscono un vero e proprio arsenale di ‘sapere separato’ dal testo, dall’altra, nei semiologi più attenti, un’aperta confessione di smarrimento e di oscurità, la coscienza che il testo sfugge, nonostante la tracotanza degli elaboratori, a un approccio che sia di tipo puramente linguistico.” Più avanti i tre sì: “…La parola poetica è dunque: innamorata e perciò impertinente e beffarda, indifferente ai conclami e ai conclavi della giustizia; colorata perché non traccia disegni e percorsi…..ma crea il disorientamento bruciante….; rapinosa, e per questo è in un movimento di seduzione e di allontanamento nel quale la cosa non è avvicinata o tolta alla-dalla vista, ma immette in un paesaggio dove improvvisamente si è colti da quello spazio e la cosa si è trasformata in altro, nell’altro che è la lingua dell’origine….”

Questi gli intenti, smentiti da gran parte dei testi antologizzati, tranne poche eccezioni. La parola innamorata fu criticata aspramente dalla cultura di sinistra, fu accusata di essere un’operazione sostanzialmente reazionaria. La difesa fu altrettanto decisa, ma entrambe le schiere, a mio avviso travisavano completamente il senso di quell’operazione che non andava tanto criticata per i contenuti dell’introduzione, condivisibili o meno che fossero, ma per l’eterogeneità degli antologizzati, molti dei quali del tutto estranei ai contenuti stessi di quell’introduzione e infatti alcuni di loro ne avrebbero preso le distanze molto presto: Maurizio Cucchi, per esempio.

Sotto l’ombrello generico di quella introduzione infatti, si raggruppava una nuova generazione di poeti che si auto eleggeva tale, occupando uno spazio editoriale lasciato vuoto dall’ondata rivoluzionaria degli anni ’60 e ’70, che in questo contesto non ci proponiamo per il momento di valutare, nelle sue ricadute più propriamente culturali e letterarie. In sostanza non erano tanto i contenuti quelli a dover preoccupare, bensì l’operazione in sé: con La parola innamorata finiscono le aggregazioni sulla base di poetiche e comunanza d’intenti e cominciano le cordate, cioè l’occupazione di tutti gli spazi editoriali possibili da parte di quella generazione di autori che si era eletta come tale, senza alcun supporto autonomo da parte della critica, peraltro in via di definitiva scomparsa. Che gli intenti fossero roboanti era cosa risibile: la parola innamorata inaugura la stagione della fungibilità di tutte le idee a seconda delle opportunità e a prescindere da ogni altra considerazione; fenomeno questo che connota proprio il postmoderno e la globalizzazione, come ben riassunto dal saggio precedente di Rabissi.

In narrativa le cose andarono un po’ diversamente, ma solo per uno spostamento di tempi. Esaurita presto la stagione neorealista e resistenziale, fu il secondo Calvino (successivo alla trilogia) a dominare la scena, mentre Fenoglio, si affermerà più tardi, quando si capirà meglio che il suo romanzo, scritto originariamente in inglese, non stava dentro i canoni piuttosto stretti della narrativa partigiana, ma aveva uno spessore diverso e più significativo. Calvino porterà in Italia le suggestioni francesi del Nouveau Roman, che andava di pari passo, nel pieno degli anni ’60 con l’Ecole du regard e il cinema di Godard e di Antonioni. Nel frattempo c’era stato il caso letterario del Gattopardo, mentre Horcynus Orca di D’Arrigo stentava a imporsi. Tutto questo però si muoveva all’interno di un gusto estetico e di istituzioni letterarie in cui la distinzione fra letteratura d’intrattenimento e prosa letteraria continuava a tenere e terrà fino agli anni ’80; per dirla con Jameson, siamo ancora all’interno delle tradizioni del Moderno.

È durante gli anni ’80 che trionfano definitivamente postmoderno e globalizzazione in Italia. Il venir meno delle distinzioni e il trionfo dell’indistinto non hanno dei veri e propri teorici alle loro spalle, se mai dei semplici omini di burro che gestiscono le operazioni. L’indistinto s’afferma come risultato di un radicale cambiamento del gusto estetico, effetto di trascinamento causato dall’apparire delle tv commerciali, che fanno trionfare anche in Italia il consumo del consumo, per ritornare a un’espressione di Jameson; cioè il raddoppiamento a livello simbolico, di ciò che avviene nel mondo dell’economia globalizzata. Uno degli effetti più abnormi di tale processo in narrativa e in letteratura in generale, sta nel fatto che, mentre in passato, erano stati la televisione e il cinema a saccheggiare (con effetti spesso positivi), la grande letteratura mondiale per farne soggetto di film, che spesso incentivava la lettura di quei capolavori, dagli anni ’80 in poi accade spesso il contrario. È la narrativa a imitare sempre più scopertamente il cinema. Molti romanzi nascono già come sceneggiature, non nel senso che Pasolini aveva sperimentato nella scrittura di Teorema o più tardi di Petrolio, ma nel senso di ricercare l’effetto speciale attraverso l’immagine. La scrittura non deve più aspirare alla letterarietà, lo stile non interessa più a nessuno, lo statuto autoriale passa in seconda linea. Forse non si affermano i gruppi di cui parla Jameson perché il mercato italiano non permette operazioni alla Stephen King o alla Dan Brown (quelle tentate da noi come i casi di Wu Ming o Luther Blisset non hanno avuto un vero impatto), se non come fenomeni di importazione. Nel contesto appena delineato i critici diventano dei recensori, oppure suonano la grancassa di questo o dell’altro potere editoriale. Solo l’università sembra risparmiata da tale deriva, ma con problemi altrettanto gravi e di altra natura, che tuttavia esulano dai compiti di questo saggio.

La situazione di caos indistinto che contraddistingue la narrativa contemporanea, non è il frutto di un dibattito, di uno scontro fra diverse opzioni, ma il risultato puro e semplice di un processo che nasce al di fuori delle istituzioni letterarie, ma a cui, queste ultime, si adeguano copiandone i modelli.

Dobbiamo essere per forza pessimisti a fronte dello scenario qui delineato?

Non necessariamente. Quello qui descritto è un processo più lineare di quanto non avvenga nella realtà: un modello interpretativo è necessario e a volte può sembrare rigido nelle sue linee di forza, ma anche nelle arti e nella cultura, il postmoderno determina anche reazioni positive, fenomeni di resistenza e di presa di coscienza. La soggettività, per quanto alienata, non è mai riducibile a un suo totale azzeramento. Nel suo saggio Paolo Rabissi ricorda un punto cruciale del pensiero di Jameson, quando lo studioso statunitense afferma che tutte le ideologie sono utopie, compresa quella del libero mercato. Mutatis mutandis, lo stesso si può dire che sono utopie e non solo processi in atto, anche il trionfo dell’indistinto e la piena fungibilità di ogni idea e opzione come raddoppiamento simbolico di una realtà, in cui l’economia finanziaria genera il mito della crescita indefinita della ricchezza dal nulla. Volevo in questo saggio delineare uno scenario e tradurre, per così dire, in italiano, il modello di Jameson. Esiste anche un’altra globalizzazione per quanto riguarda la cultura e le arti e non mancheremo di occuparcene.

***

“…In questa seconda tappa, mi occuperò maggiormente di narrativa, lasciata in ombra nel saggio precedente. È infatti in questo genere letterario, che, a mio modo di vedere, sono precipitati gli aspetti più negativi e le resistenze più efficaci (penso che ciò si possa dire anche per le arti grafiche), prima di tutto perché il suo impatto con il pubblico è più immediato.

Ciò che rischia gran parte della poesia italiana dalla fine degli anni ’60 in poi (parlo naturalmente degli autori che hanno esordito in quegli anni e non della generazione dei Montale, degli Ungaretti, dei Sereni, dei Ceronetti, che continuavano a pubblicare ancora in quegli anni e successivi), infatti, non è tanto quello di essere stata cattiva maestra, quanto piuttosto di essere alla lunga irrilevante. Da tale possibile destino si salvano soltanto poche voci, molte delle quali (anche se non tutte), hanno comunque i piedi saldamente piantati dentro un humus precedente il grande diluvio; oppure che non ne sono stati colpiti più di tanto grazie alle loro scelte di ritiro consapevole dalla scena, come fece per esempio, Umberto Bellintani; oppure ancora perché capaci di attraversare la tempesta senza subirne troppo i contraccolpi come Pagliarani.

Recentemente si sono presentate alla ribalta voci giovani e anche meno giovani, che sembrano finalmente poter uscire dalle pastoie in cui è precipitata larga parte della scrittura poetica contemporanea; proprio perché molto giovani (e anche coloro che non lo sono), meritano un’attenzione sobria e non troppo incombente. Inoltre, la redazione di Overleft, almeno per il momento, ha deciso di dedicarsi maggiormente alla riflessione critica sul ‘900, piuttosto che recensire e promuovere autori contemporanei e viventi, che molti redattori della rivista, peraltro, recensiscono e presentano in altri contesti…”

Alfredo De Palchi

Amiche e amici,

Più che di diluvi e derive si tratta di déluge. Incerto se la “polemica” sia stata suscitata dalla pubblicazione del volume di Giorgio Linguaglossa, La nuova poesia modernista italiana, mi sono obbligato al silenzio fino a oggi. Per mia incapacità di riuscire a entrare nei siti indicati da alcuni altri autori che annunciano i loro scritti, pazientemente ho atteso che mi arrivasse un allegato per rendermi conto della polemica.

Tuttavia, Franco Romanò con il suo scritto ricevuto in allegato, mi offre carta bianca. Reagisco o non, ma ecco che dopo qualche giorno mi permetto di ricordargli che non discute del libro di Linguaglossa, a meno che non si tratti di un volume diverso con lo stesso titolo, oppure si appropri del titolo aggiungendo un paio di date in modo di registrare il suo saggio. Perché allora ripetere quello che già si sa. Se la polemica proviene dal libro di Linguaglossa, si parla del suo libro, in favore, contro, con indifferenza. Invece Romanò, libero di parlare di quello che gli interessa, ripassa i soliti nomi quasi tutti noti per un solo titolo. Gli scritti degli autori non potuti leggere, probabilmente ripetono per abitudine gli stessi nomi e I loro unici titoli.

Quanto a nomi e testi esageratamente considerati niente di errato, sono “storicizzati”. Anche per Romanò ci sarebbero soltanto quelli. Di errato è discuterne ancora seriamente come apice della poesia degli anni di agenda politica dittatoriale. Sin dalle prime prove i menzionati provano di aver invaso di vuoto il vuoto del vuoto non con una valida esperienza e, quando sembrano concreti, sono falsi, hanno una cerebralità sorretta da una sfilza di aggettivi, come da secoli è in gran parte la poesia italiana.

Non scrivo critica, tuttavia ho la certezza di giudicare senza arzigogolare se la cosiddetta poesia modernista italiana è davvero poesia. Si chiederà cosa è  poesia. Credo che tutte le persone serie dicano:TUTTO, ma il tutto di quel tutto per necessità dovrebbe filtrare dalla esperienza personale. Poi, se realmente il tutto respira poesia, chi ha orecchio in tono, la sente. C’è o non c’è. Altrimenti il risultato è descrizione, raccontini paesani in versi. A questo punto è questione di gusti strettamente personali, non di poesia.

Vorrei dire quello che più volte dissi a voce e specificamente durante una intervista che Roberto Bertoldo pubblicò due anni fa. Non mi ripeto. Chi la lesse fece “orecchio da mercante” per uno dei due seguenti motivi: 1) questo de palchi non conta, lasciamolo in disparte; 2) questo de palchi centra sulla manchevole poesia, lasciamolo in disparte, ci condurrebbe a peggiori manovre inutili.

D’accordo. Pur essendo inutili, annuncio al megafono che tutti  (eccetto. . . . . .) gli autori legati e non alle superficiali avanguardie e avanguardiette, che Romanò menziona e non menziona, sono neanche di seconda fila; già tesserati, e ideologicamente obbligati alla scelta che fu la cuccagna letteraria (nessuna differenza tra quella del Duce e quella di Stalin); autoantoligizzatisi senza impallidire o arrossire di vergogna come continuano a autoantologizzarsi oggi; fra di loro non un pseudo Ungaretti Montale Quasimodo, tanto per menzionare i più noti maestri, al massimo sono da porre come note a piè di pagina.

Così sarà.

Alfredo de Palchi

Gentili Giorgio Linguaglossa, Gianmario Lucini, Luigi Manzi/ Gezim Hajdari, Franco Romanó, Anna Ventura, Antonella Zagaroli,

ci conosciamo di nome, ma grazie dei vostri disparati commenti. Mentre guardavo Germania annientare Inghilterra, pensavo come esprimervi lo shock della polemica illusoria. Eccolo:

purtroppo mi ostacolano a partecipare direttamente alla polemica, che sembra non esista, i soliti pusillanimi che si nascondino dietro coloro che si esprimono in un modo o in un altro. Soprattutto non partecipo per l’ovvia inclusione, giusta o ingiusta, nel volume La nuova poesia modernista italiana (1980-2010) di Giorgio Linguaglossa. Dovrei largamente spiegare che cominciai a scrivere nel 1947, e che quando saltò fuori il Gruppo’63, per esempio, io avevo già scritto opere tuttora fresche,  almeno quindici anni prima.

Invece di insistere a trovarmi tra l’incudine e la mazza, come lo sono già da decenni, dovrei fare il finto tonto e stare da tutte le parti. Non è nel mio carattere di fare il doppio gioco; sono da una sola parte, la mia, che fa gruppo a sé e allo stesso tempo di tanto in tanto faccio l’orso, e spesso il generoso dedicandomi alla poesia in generale come piccolo editore non venake, e alla poesia dei giovani in particolare. Queste mie indiscrezioni sono faccende concrete.

Tuttavia, la cosiddetta “polemica” mi spinse a scrivere una nota, giusta ma diretta ingiustamente a gruppi di “poeti” messi in discussione da Franco Romanó il quale in fondo, se leggiamo attentamente il suo saggio Diluvi e derive, mi dà ragione. Infatti, i finti “poeti” non hanno colpa di essere stati scelti da sordi e aridi critici. Non mi occorre conoscere i loro nomi, la sordità mentale e interiore è sonora e mi basta. Quindi, chiedo scusa per aver iniettato nella validità firmata da critici sordi il mio convincimento che dalla nullità quei finti “poeti”, vivi e morti, si facessero più mediocri e compensassero la sfortuna di coloro lasciati indietro. Non si può pretendere così tanta generosità da “poeti” con il supplemento d’innata mediocrità.

La polemica dovrebbe essere discussa tra le due classi di critici, quella sorda che sta dalla parte dei “poeti” sordi, e quella che in sordina parla con serietà. Scelte non facili, d’accordo, ma dò un paio di indizii:

1) quando i vari facironosi Franco Fortini facevano i critici, il simbolo della falce e martello era la guida per giudicare la poesia; oggi è la stessa cosa e magari è di persone provenienti dallo stesso simbolo ma che si promuovono in baciapile (i tempi si sono un po’ rimediati) però mantenendo l’animosità politica e editoriale;

2) quando Mengaldo escluse Bartolo Cattafi e Alfredo de Palchi dalla sua antologia commise due misteriose esecuzioni per dar risalto a minori o superflue preferenze.

Ai seguaci che compilano antologie in cui il primo scelto è il grande poeta compilatore, dico: “mi escludete, le antologie non valgono; inoltre siete disonesti, per dire poco, non leggete apposta certi autori, non leggete apposta le mie opere e nemmeno valuterete l’ultima raccolta, uscita un mese fa, che vi spazza via come pattume; in sostanza, siete semplicemente manigoldi”.

Mi sono intromesso, vero, come Paradigma, un indizio del malcostume letterario. E per continuare su questo tenore, si guardi il 99% di merda che la collana «Lo Specchio» sforna da anni, e i libretti bianchi da messa della Einaudi solo esagerati di prezzo. Chi sono gli editors? Poveretti poetucoli e pseudo criticuli che con le scelte a imagine dei propri versetti e frasi opache hanno già sbregato la poesia italiana. Vogliono far sentire il peso non la serietà del loro potere. Ma ricordino che, senza i sindacati protettori, chi va su lo vedremo andare giù a testa bassa.

A questo punto potrei nominare altri nomi, dire eventi concreti, se non altro per iniziare forse una vera polemica. Nessuno si permetterebbe di assalirmi, nessuno accusarmi di disonestà sociale e letteraria, nessuno che abbia da svelare trucchi nascosti; gli svergognerei come tarati bugiardi e disonesti in tutta Italia. Invece mi ritiro nella mia caverna, non per star zitto perché quando occorre parlo, e che tutti e tutte coloro degli indirizzi elettronici abbiano la volontà e il CORAGGIO di farsi sentire. Non a vanvera, Perché anche star zitti o fare i finti tonti mai si apriranno le porte che non ci sono. La guerra, perché si tratterebbe di guerra, sarebbe tra le due classi di critici. La verità è che la parte opposta, quella che io accuso, non abbocca. Capiscono che è meglio ricevere accuse in silenzio che rischiare la perdita della propria prosopopea. Alfredo de Palchi

Lettera di intenti di Linguaglossa

Gent.mo Alfredo de Palchi,

grazie a Roberto Bertoldo il quale mi ha fatto leggere la sua poesia sono diventato un convinto sostenitore del suo lavoro poetico. Io non gliene voglio a Luigi Fontanella (il quale non mi annovera tra i suoi “Amici” perché ho cessato di occuparmi della sua poesia dal 1994), perché ho capito benissimo fin dall’inizio come era fatto: lui è fatto come il 100% dei letterati italiani, i quali eleggono la propria cerchia di “Amici” e fanno gioco di sponda e scambi di coppia in un circolo onanistico-virtuoso (tranne Bertoldo, Pedota, Maria Rosaria Madonna, Maria Marchesi, Valentino Campo, Fabio Mastropietro, Luigi Manzi e pochissimi altri). Dunque, le eccezioni al do ut des sono pochissime e quasi inesistenti; la generalità degli addetti al comparto poesia accetta lo scambio di coppia e il lavoro di fronda come la cosa più naturale del mondo, e questo fa del territorio poetico italiano una via di mezzo tra un pantano maleodorante e a una mafia dilagante.

Pochi giorni fa ho proposto, in un articolo pubblicato sul sito Lietocolle, di introdurre nel corrotto (fino alle midolla) comparto della poesia un correttivo (piccolo) ma che sarebbe sufficiente: che ciascuno degli addetti al comparto della poesia che scriva su cose di poesia, esterni quello che pensa realmente intorno all’oggetto poesia e non quello che conviene (opportunisticamente) che si dica (per via degli scambi di relazioni e convenienze “politiche”). Ebbene, Lei non ci crederà, ma la mia proposta è caduta nel vuoto: non uno (dico uno) degli addetti ai lavori mi ha risposto dichiarandosi a favore della proposta, e neanche uno (dico uno) mi ha risposto per dichiararsi di essere contrario; il silenzio è stato generale.

In questa situazione, Lei ne converrà, è del tutto inutile continuare a scrivere (in Italia) di critica intorno alla cosa chiamata poesia; cionondimeno io andrò avanti da solo (come una mosca bianca dice Lei) e continuerò a dire quello che penso dei libri di poesia (ovviamente con educazione e rispettando i dettami del linguaggio critico-militante) – La cornice generale della situazione della cosa chiamata poesia in Italia è ormai questa. Lei mi chiederà: di chi la colpa? Credo che la risposta debba essere questa: di tutti e di nessuno. Ciascuno degli addetti al comparto poesia si assuma le proprie responsabilità. Così come del resto per quello che riguarda il mercato delle idee in Italia: ciascuno si assuma le proprie responsabilità. Finché non interverrà questo impegno (personale e individuale), tutto ciò che si farà in questo paese puzzerà di letamaio e di pantano.

Cordiali saluti Giorgio Linguaglossa

Roma, 10 luglio 2010

Gentile Giorgio Linguaglossa,

con la mia e-mail privata sono stato più che esplicito, ho ricalcato quello che lei aveva risposto privatamente a Luigi Fontanella. E sulla situazione generale. Le assicuro che credo tutto vero quello che lei dice; io non ho potuto darle il mio consenso perché solo oggi mi parla di un articolo in Lietocolle, e glielo dò adesso benché non sappia come leggerlo. Anche per altri articoli di settimane fa non riesco a trovarli, ma qui si tratta di mia ignoranza computeristica. So appena fare e-mails e qualche volta un allegato. Si sa che confessiamo cose vergognose ascoltate dai soliti quattro gatti; chi compra e vende è troppo coinvolto a comprare per vendersi.

Vede, sono convinto che i corrotti, perché si tratta di corruzione, i furbi, considerano noi “suckers”, “pip-squicks” (fessi, coglioni, stupidi, etc.). Nessuno risponde in favore o contro, sta zitto, si pensa furbo. Tutto questo fare strafare contro in favore cricche gruppi scambi di merce servirà ad alcuni per raggiungere notorietà, forse, ma non”grandezza”. Io che non faccio il critico, ma ho fiuto sicuro, numerosi pretendenti “poeti” qua e là posti in vetrina sono defunti prima di chiudere il libro. Se l’opera di maestri finisce in limbo per anni a morte avvenuta prima che il tempo decida di setacciarla, immagino che quella di braccianti della poesia a morte avvenuta riceva l’oblio totale. Ammetto

di aver perso tutte le cause, inclusa quest’ultima. Eppure, mi sento a posto, di coscienza pulita, spirituale, non sofferente, come quando smisi di mangiare animali. Uguale effetto e giustizia. Le auguro di arrivare più o meno alla stessa attitudine, alla stessa risoluzione. Lei sarà per sempre solo, seppure non abbandonato da chi è onesto, perché si tratta di onestà e non di chiacchere. Continui a scrivere sui poeti che le interessano e sulla poesia in generale, senza mai pensare di ricevere una risposta o di dover rispondere, a nessuno.

Privatamente a me può scrivere quanto desidera. Intanto la ringrazio della sua recente amicizia e le sono riconoscente per aver scritto sul mio lavoro.

Cordialità

Alfredo de Palchi

New YorK, NY, 10 luglio 2010

Caro Linguaglossa,

soffermandomi solo sulla tua lettera d’intenti, io credo che gran parte del letamaio e del pantano derivi da un’ipertrofia dell’io poetante (e non solo) che cerca, in un mondo di lustrini e portaborse, di emergere attraverso un consociativismo (fino alla mafia) di persone con intenti socialmente affini. E teniamo conto che il poeta non è un più un cortigiano, ovvero non credo che il primo mestiere di un individuo oggi sia fare il poeta, forse il correttore di bozze, il direttore editoriale, ecc. ma non il poeta. Ma proprio forse per questo, mancando il Signore che lo protegge, il “Poeta” cerca di proteggersi da sé.

Detto questo, accolgo con molto interesse la tua proposta: “, di introdurre nel corrotto (fino alle midolla) comparto della poesia un correttivo (piccolo) ma che sarebbe sufficiente: che ciascuno degli addetti al comparto della poesia che scriva su cose di poesia, esterni quello che pensa realmente intorno all’oggetto poesia e non quello che conviene (opportunisticamente) che si dica (per via degli scambi di relazioni e convenienze “politiche”).

Il sottoscritto, da scienziato non autoincensato, ne fa una ulteriore che ricalca ciò che succede nell’ambito del sistema “peer review” (rivisto da pari) delle riviste scientifiche: e cioè che le riviste sottopongano a dei referee esterni la pubblicazione dei testi e che tali referee siano capaci di dichiarare i loro conflitti di interesse nei riguardi di quel poeta che devono valutare (ossia se hanno già avuto a che fare con colui che devono refertare). un po’ troppo? Forse, però, si introduce un criterio un po’ diverso dal “do ut des”.

Scusami per questa intrusione di un “poeta” che vorrebbe un po’ più di obiettività e metodo anche nella poesia.

Cordiali saluti,

Massimo Conese

(MD, PhD, Associate Professor of General Pathology School of Medicine University of Foggia) 10/7/2010

Gezim Hjdari

Caro Giorgio, scusami per il ritardo con cui ti rispondo, ho attraversato un brutto periodo, inoltre in questi giorni dovrò partire per l’Albania per problemi familiari.

Che dire del dibattito sulla Poesia, condivido in pieno ciò che dice e ha scritto il nostro Luigi Manzi. Chi meglio di Luigi conosce la Poesia dei Mondi! Dico dei Mondi e non del paesino e dei clan. Se vuoi la verità sulla Poesia contemporanea italiana, devi scrivere un libro-intervista con lui. È da una vita che Luigi lotta in nome della legalità, della trasparenza, dell’onestà intellettuale e del Buon Verbo. Sono convinto che un tale libro passerà alla Storia della Letteratura Italiana e non solo. Anzi, penso che sia il momento giusto e storico, altrimenti, caro Giorgio, è inutile perdere altro tempo su questo tema.

I miei rapporti con la cultura ufficiale italiana assomigliano a quelli albanesi. Vengo visto come una pecora nera fra i letterati di corte del bel Paese. Il motivo? Sono tra quelli che hanno denunciato pubblicamente e senza mezzi termini la mafia letteraria. Basta pensare alla vecchia gestione del Centro Internazionale E. Montale, la quale aveva costituito una lettera circolare che promuoveva le iscrizioni all’Associazione, in cui si diceva esplicitamente che i “soci”, in regola con la quota associativa (lire trecentomila negli anni più recenti), che intendevano partecipare al premio, avrebbero potuto inviare i testi concorrenti in ogni momento, “specificando chiaramente sulla busta o sul pacchetto raccomandato: Riservato al Premio. In questo modo la Giuria potrà vagliare con maggiore attenzione le opere concorrenti”!!! Questo potrebbe portare rischi enormi al terreno poetico che è un terreno fragile, innocente e sacro, quindi deve essere sgombrato da ogni forma di apporto economico legato alla scrittura, perché i giovani autori potrebbero cadere nelle eventuali, facili lusinghe di chi ne sollecita le aspirazioni a pagamento. È così che si sono formate le gerarchie letterarie italiane, il sistema del sottobosco della cultura italiana di oggi. Tutto questo è conseguenza di una grave crisi politica ed etica che sta attraversando il suddetto paese e l’intero Occidente. Ovviamente, la cultura di un popolo non è altro che un riflesso della sua epoca. Ma la colpa principale penso che sia degli editori, meglio dell’industria culturale italiana che costruisce, come le bambole, raccolte e romanzetti nei laboratori.

Vi sono due tipi di poesia italiana: quella ufficiale e quella irregolare che viene scritta al di fuori delle gerarchie ufficiali. La prima, in generale, è una poesia minimalista, funerea, balbuziente, depressa, scritta dai malati patologici. La chiamerei una poesia eunuca e i suoi poeti santi e castrati. La poesia ufficiale italiana, dopo la scomparsa dei grandi, vive il suo momento più tragico; si trascina in un’agonia continua. Non dobbiamo dimenticare che l’Italia nasce come il paese della poesia, il romanzo nasce in Oriente e viene dai paesi del Le Mille e una notte. Si può dire che questo Paese è vissuto da sempre spiritualmente ed economicamente, grazie alla poesia nelle sue varie forme. Ma purtroppo questa tradizione straordinaria è andata persa. Che ne sapevano Dante o Petrarca che la loro Italia sarebbe diventata il paese del romanzetto della domenica e dei poeti timorosi di Dio! I nipoti di Dante oggi scrivono i testi per la Via

Crucis, dedicano poemi immacolati alla Madre Maria, scambiano l’utero per la vagina e fanno a gara per dichiararsi pubblicamente credenti cattolici fino al midollo. Vanno alla messa due volta al giorno. D’altronde tutto il paese è sotto la protezione della parola divina del Signore. Attori, onorevoli, senatori, presentatori, giornalisti, ministri si vantano di essere devoti ai santi e alle Madonne. I presidenti giurano in nome della Bibbia. Sono uomini di carriera e nessuno vuole rischiare. La colpa? la mancanza di una vera politica culturale laica da parte delle istituzioni, ma anche della grande industria culturale che manipola il consenso dei lettori.

L’editoria italiana, appoggiata dai mezzi dei mas media, è diventata una fabbrica orrenda che sforna romanzetti come ciambelle. All’interno di questa fabbrica diabolica e perversa lavorano impiegati (che si spacciano per poeti e scrittori, un tempo nelle loro poltrone si sedevano Pavese, Calvino e Caproni) ventiquattro ore su ventiquattro, che fanno editing, costruendo a tavolino capitoli e componimenti poetici secondo i gusti e le mode del giorno. Gli autori sono contenti e felici, basta che le loro operette vengano pubblicate con i grandi editori. Puoi essere il poeta più straordinario, ma se non hai pubblicato il romanzetto della domenica, in Italia non sei nulla. Puoi lavorare da una vita, creando dei grandi valori letterari per l’umanità, ma con un romanzetto puoi occupare tutte le pagine dei grandi quotidiani, che ti spianano la strada verso Marzullo, Vespa, Costanzo show, poi viene la valanga dei premi, traduzioni all’estero, soldi, tanti soldi. In fine il ricevimento al Quirinale. Ma non finisce qui, dopo il romanzetto si passa alla fiction, perché alla Rai attendono le veline… Infine si contano milioni di euro di guadagno. E’ tutto un giro e tutto un affare.

Insomma, lo scrittore diventa una merce del grande marketing per riempire le casse della fabbrica che non smette mai, purtroppo, di divorare impietosamente boschi enormi di alberi. Ma nessuno denuncia questo squallore, perché i giudici, gli avvocati, i presidenti dei tribunali, i giornalisti, i funzionari dello stato, i docenti universitari, i presidenti dei consigli comunali, anche i loro segretari, i sindaci, i ministri, i medici, si sono improvvisati poeti e scrittori, uomini di potere, quindi scambiano tra di loro favori, pubblicazioni e premi. Ma nessuno ha il coraggio di alzare la voce contro questo sistema perverso. C’è una corruzione spaventosa nel campo del sottobosco della cultura italiana, una mafia letteraria potente. Se non sei uno di loro, ti chiamano infedele, altro che integralisti islamici.

La bella poesia italiana abita al di fuori delle gerarchie ufficiali, perché i veri poeti sono dei profeti e vanno oltre la poesia e non accettano ricatti squallidi.

Dov’è l’onestà intellettuale? Quel che Montale chiamava “decenza quotidiana”. La vera poesia italiana, deve prendere le distanze da queste gerarchie basate sulla corruzione e sulla disonestà intellettuale di fronte alla pagina bianca. Essa si può salvare soltanto scoprendo e rivalutando la poesia “ribelle” al sistema – che in Italia non manca – ed aprendosi ai nuovi mondi, in nome della vera legalità e della vera trasparenza, ripristinando un nuovo legame fra testo e onestà intellettuale, fra parola e verità, fra Poesia e Vita. Ci vuole sangue nuovo nella poesia. E la linfa nuova la porteranno i mondi più offesi del globo, ai quali spetta l’avvenire della poesia. Ma per fare questo c’è bisogno di aprire dei dibattiti sulla poesia, sui premi letterari, sullo sperpero del denaro pubblico, sul ruolo della stampa e dei mezzi di comunicazione, sul ruolo della critica e dell’etica culturale. Ogni opera letteraria, prima di tutto, è un atto morale.

La poesia e la buona letteratura aiuta a sopravvivere in questo tempo di oggi, funesto e agonizzante. L’ermeneutica di Heidegger e Gadamer di Derrida e Steiner, ci ha insegnato a leggere l’opera d’arte come l’annuncio di un mondo in cui dobbiamo imparare ad abitare, invece che come un oggetto che possiamo mettere accanto ad altri in una collezione. La poesia è anche impegno, ma non solo sul verso, sul linguaggio, come predicano alcuni “grandi” letterati del Bel Paese, ma nella Vita.

Un caro saluto.

Gezim

28/6/2010

Gianmario Lucini

Ci sono due questioni, un po’ tartufe e scomode, che con l’onestà che gli riconosco, Giorgio Linguaglossa mette sulla tavola col suo ultimo intervento. La prima: “la generalità degli addetti al comparto poesia accetta lo scambio di coppia e il lavoro di fronda come la cosa più naturale del mondo, e questo fa del territorio poetico italiano una via di mezzo tra un pantano maleodorante e a una mafia dilagante”. E’ vero, in parte (non so se grande o piccola) le cose stanno così. Si ha come l’impressione, contattando certi nomi, di contattare un intero gruppo. Inconsciamente il pensiero ha davanti un gruppo, non una singola persona. Inconsciamente senti che questo o quello ti tira per la manica, ti vuole inglobare. O ti rifiuta, senza motivo esplicito (magari pensa che tu sia già affiliato a qualche altra congregazione). Ma è anche vero che l’essere umano vive di comunicazione, che in una relazione si creano simpatie ed antipatie di pelle o per motivi più profondi. È anche vero che ognuno ha i suoi criteri nel valutare le cose degli altri ed è anche vero che il nostro vizio è quello di lodare i nostri simili e ignorare quelli a noi lontani, come capita per gli stranieri, in altre dolorose circostanze. Il nostro errore (o tendenza inconscia) è sempre il manicheismo. Bisognerebbe essere tanto aperti da interessarsi di tutto e del contrario di tutto, ma il tempo è quello che è, non tutti i giorni e neppure tutti i mesi mi capita di passare sul sito di Lietocolle o su altri siti. Non sempre si ha voglia di dibattere, scontrarsi, scornarsi: per taluni ha senso, per me no, o non sempre. Ad alcuni dà forza: io mi dissipo e mi sconcentro. Lo scambio avviene senza chiederlo. Le aggregazioni, le collaborazioni, i gruppi, nascono perché siamo esseri sociali, che lavorano insieme e siamo portati ad aggregarci con coloro che la pensano come noi. Il potere nasce così, in democrazia come nei regimi totalitari.  Casomai è su questo che si dovrebbe ragionare.  E sull’uso che se ne fa, del potere.

Linguaglossa sembra che abbia in mente il cliché del libero pensatore che dice quello che gli pare in un ambiente razionale e intellettualmente onesto, con grande signorilità, e si aspetta che tutti siano così. Beh! io credo che sia una visione un po’ ingenua e romantica. Ingenua perché noi siamo la patria delle raccomandazioni, dei favori e delle loro proli, ossia le Mafie. Dunque siamo in una mentalità che è strutturalmente mafiosa, come sostrato culturale di tutto quello che capita in Italia, non esclusa la letteratura. Romantica perché il “libero pensatore” non è mai esistito, così come non esiste la “libera scienza” o cose del genere.  Noi siamo tutti “fatti” – e chiedo venia per il doppio o triplo senso – nonostante l’ipercriticismo che ci caratterizza.

Se poi non è così, e Giorgio intende soltanto sottolineare che bisognerebbe essere più obiettivi, certo ha ragione, per quanto si può essere “obiettivi”. E se vogliamo, anche un po’ distaccati e disincantati sin dai primi approcci culturali e insieme umani. Ma essere “veri”, questo conta. E stare attenti al sostrato culturale che ci impregna fin dalla nascita (altro che “liberi”), ripetersi sempre: etiamsi omnes, ego non.

La seconda cosa che mi colpisce del suo intervento: “che ciascuno degli addetti al comparto della poesia che scriva su cose di poesia, esterni quello che pensa realmente intorno all’oggetto poesia e non quello che conviene (opportunisticamente) che si dica (per via degli scambi di relazioni e convenienze “politiche”). Beh, pretendere questo in un intervento di risposta a una sollecitazione scritta su un sito letterario, ancorché cliccato come Lietocolle, mi sembra troppo. Dire che cosa sia la poesia è umanamente impossibile (lo spero, a lungo). Io credo che il critico debba limitarsi a dire che cosa scrivono i poeti al di là delle parole, dietro le parole; che il critico tenti una possibile interpretazione dell’opera: questo mi sembra il suo lavoro. Dire che cos’è la poesia è, credo, compito dei poeti ed è un dire che si fa scrivendo poesia, non dicendo cosa essa sia. Possiamo casomai meglio dire che cosa essa non sia (perché si tratta di qualcosa d’altro spacciato per poesia), ma anche qui non credo lo si possa fare con un semplice intervento.

Ora, anche in queste piccole battaglie in difesa della poesia: francamente io mi sono rotto le scatole, perché se argomenti criticamente un giudizio negativo (non la solita e vigliacca stroncatura che esprime la quintessenza nascisistica del critico) ti procuri a volte un nemico o ti sfianchi in mille discussioni con il poeta ferito nel suo narciso, che nelle migliori delle ipotesi di sommerge di mail di protesta e di spiegazione o di altre patetiche amenità di questo genere. Però trovi anche quello che ti ringrazia: pochi ma ci sono.  Uno, a un certo punto, decide che NON HA TEMPO, che la vita sono anche altre cose di maggiore interesse che un bla bla di lana caprina che non risolve niente. Io ho recensito molti libri controvoglia su Poiein, lo confesso, perché mi è stata chiesta la recensione. Circa 400 recensioni e note critiche. L’ho fatto perché anche nelle poesie più brutte c’è un impegno e mi piace riconoscerlo.

Ho rifiutato soltanto in pochi casi. Mi sono limitato, spesso, a sottolineare i pregi, tacendo i punti critici quando era il caso di non tacerli, anche se le mie recensioni non parlano mai soltanto dell’opera di un solo autore ma anche di aspetti della poesia in generale. E se uno legge attentamente si accorge quando ci sono silenzi che parlano. Sono un vigliacco? Non lo so, ma se non avessi fatto così avrei già smesso da tempo di recensire libri (peraltro di tutti quelli che posso, senza pensare ad appartenenze di parrocchia).  Quanto alla “convenienza”, oddio: che cos’è?  Non credo riuscirò mai a farmi una pizza con mia moglie con tutto quello che ho guadagnato, direttamete o indirettamente.  E certo l’interesse per la mia poesia da parte di altri (sarà anche scadente, ma non credo sia poi così schifosa) dimostra, almeno a me, che la convenienza proprio non esiste, in questo campo. E’ un gioco di comunicazione, che passa anche attraverso il saper chiedere, l’insistere, il sostrato culturale, come prima dicevo.  È vero, ci sono le lobbies anche in questo settore, ma non mi sento di dire che “tutto” o anche solo “in prevalenza” è così, che gli onesti sono mosche bianche, e così via…  Sì, certo, la questione è molto seria, non me lo nascondo. Ma è figlia della nostra cultura.

Gianmario Lucini

10/7/2010

Dante Maffia

Caro Giorgio,

sto seguendo con cinico e diffidente interesse il vespaio suscitato dalla pubblicazione de La nuova poesia modernista italiana 1980 – 2010 (Roma, Edilet, 2010). Il cinismo e la diffidenza nascono perché quasi tutti gli interventi sono improntati al fattore personale, all’essere stati inclusi o meno nel libro. Nessuno, o quasi, si è soffermato sul metodo, sulle argomentazioni, sui ragionamenti critici portati a supporto delle tue tesi; nessuno fa notare che tu non hai tentato soltanto di spezzare il filo d’acciaio teso tra potere costituito nelle case editrici, stampa assoldata e compiacenze che hanno per base scambi di favori che non tengono conto – trattandosi di poesia – del valore dei versi, ma di mettere sul tappeto il problema politico del «canone».

È ovvio che a partecipare liberamente al dialogo, alle polemiche, agli scontri, ai chiarimenti e agli eventuali sviluppi del discorso non scenderanno mai in campo i fautori che hanno generato la situazione attuale. Mica sono scemi. Il potere non si confronta con nessuno. Perché dovrebbe farlo? Il potere detiene la verità, anzi la confeziona e la vende imponendola, e guai a chi non si piega, non accetta, o si oppone seppure con un timido «ma». Comunque alla squagliata della neve…

Perché siamo arrivati a una situazione così vergognosa, così chiusa dalle regole imposte? Semplicemente perché alcuni errori di «gestione» hanno determinato il verminaio della mediocrità. Il resto è venuto da sé. Perché il potere dovrebbe riconoscere la bravura di poeti che diventerebbero la cartina di tornasole della loro pochezza? Meglio pascolare e far pascolare povere creature illuse…

Una volta, più di trent’anni fa, durante una passeggiata tra i boschi di Camigliatello Silano, in compagnia -grande privilegio!- di Vittore Branca e di Ezio Raimondi che erano in quei posti per il “Premio Verrina-Lorenzon per la Biografia e l’Autobiografia”, con l’ingenuità del ragazzo di provincia domandai ai due personaggi perchè si potevano incontrare sulle cattedre universitarie dei professori ignoranti, insomma, dei poveracci… Sorridendo risposero quasi all’unisono (ma la conferma mi è poi venuta con le stesse argomentazioni da Luigi Reina) che – tranne rare eccezioni – i professori si scelgono, come assistenti, degli studiosi meno in gamba di loro. Scendendo scendendo però si arriva allo zero, il quale è così zero che poi non si accorge di porgere la mano, per fortuna, a uno in gamba che ricomincia il ciclo.

Aneddoti a parte, in poesia ormai è diventato lo stesso. La catena di chi gestisce le scelte editoriali un tempo affidate a Bazlen, a Ravegnani, a Pavese, a Vittorini, a Bassani, a Sereni, a Vigorelli, si è sempre più sfilacciata ed eccoci arrivati alla pubblicazione di libri che non hanno né voce riconoscibile, né musica, né senso. La maggior parte dei testi dei poeti che oggi vengono osannati non trasmettono niente. Si tratta di pagine insipide, di rimuginii personali, di cronachette, di notiziole da quotidiani che non suscitano nessun sentimento positivo o negativo, nessuna emozione, nessun risentimento, e non fanno nemmeno arrabbiare, ridere, irritare. Provocano soltanto dispiacere: un dispiacere impotente che non sa arginarsi perché è la diretta conseguenza di una delusione.

La critica è innanzi tutto palestra di idee che devono circolare liberamente e accendere interessi, curiosità, spinte ad andare verso l’appropriazione della conoscenza di se stessi e del mondo in un confronto serrato e senza pregiudizi. Oggi è diventata soltanto vassallaggio nei confronti di chi prima o poi potrà ricambiare il favore. Un circolo chiuso, vizioso e viziato, che ha portato alla ribalta poeti che non sono tali, letterati che hanno voluto prendere la maschera dei poeti per ragioni che un giorno forse appureremo, finte avanguardie e riesumazioni di cadaveri con un po’ di belletto. In conseguenza di ciò sono cadute le coordinate del pudore e della dignità e i comportamenti di gente come Francesco Flora, Sergio Solmi, Giacinto Spagnoletti, Giuseppe Antonio Borgese sono diventati ricordi da museo. Faccio presente a tutti, semplicemente, che né Flora né Spagnoletti si sono mai permessi di includersi di una qualche antologia da loro curata ( e ad occuparsi in modo impegnativo della poesia di Spagnoletti sono stati, tra gli altri, Caproni e Pasolini), non lo fece neppure Titta Rosa che con Ravegnani, nel 1972, produsse un’antologia documentatissima della poesia italiana includendo anche i dialettali. Sei anni dopo uscì l’antologia di Mengaldo e gli amici disinformati gridarono al miracolo sulle inclusioni dei dialettali nell’antologia mondadoriana curata da Mengaldo.

L’Italia è diventato un paese buffo -per usare un eufemismo- e qualsiasi studioso investito di una ricerca può partire da se stesso senza una dovuta ricognizione sugli argomenti. C’è perfino, non è una barzelletta, chi ha dichiarato in una sua antologia (negli ultimi decenni ne sono uscite a centinaia,di vario genere) che le fonti delle sue scelte erano dovute ai volumi presenti nella sua libreria!

Che cosa voglio dire? Che mancano le letture adeguate, le attenzioni a ciò che è stato fatto prima di noi e che dunque la poesia attuale non nasce dopo confronti e valutazioni, innamoramenti e rifiuti, insomma, dopo un bagno in ciò che è accaduto durante i secoli precedenti. In un dizionario della letteratura diretto da Cucchi, per esempio, non fu registrato Lorenzo Calogero che pure era presente nell’antologia di Ravegnani-Titta Rosa e aveva all’attivo due grossi volumi stampati da Lerici nella collana che offriva i più grandi poeti del mondo da Mallarmé a Machado, da Pessoa a Auden a Hikmet.

Pressappochismo, superficialità, mancanza di conoscenze hanno determinato il gioco del “che cosa faccio faccio sarà discusso e storicizzato, perché io sono il potere e se mi ignoreranno, saranno cavoli amari”. Questa è la logica attuale, tanto è vero che libri insignificanti, sia sul piano formale e sia su quello contenutistico, hanno trovato consenso perché frutto della logica di chi “governa le lettere”. Questo però accade soltanto in letteratura, perché in pittura nessuno si sognerebbe di acquistare una crosta per migliaia di euro e in musica nessuno porterebbe alla Scala di Milano o al Metropolitan di New York chi stona o non sa leggere uno spartito.

Mi domando comunque se tanto rumore suscitato dal tuo libro finirà nel nulla o avrà un seguito, lascerà una piccola scia nell’immediato. È certo che il fuoco è stato acceso e quando cadranno le teste dei facinorosi, – sono certo che cadranno, la storia insegna -, degli uomini di parte e delle corazzate mafiose (altro che mafia in Sicilia e ‘ndrangheta in Calabria, qui, nel Centro-Sud c’è solo la manovalanza, i soldi e le industrie sono al Nord) in molti ti daranno ragione, perché la ragione della poesia non perisce soltanto a causa di uomini astiosi legati alle cricche che agiscono contromano. Sai quanti nomi ci sono nei cataloghi di poesia delle multinazionali che ormai nessuno più ricorda? È la fine che tocca a chi non sa guardare al di là del proprio naso, del proprio cieco interesse. Certi signori potranno soltanto dire di avere avuto ottime prebende economiche grazie alle loro qualità di «gregari» – ci pensi a un poeta «gregario»? -. Non dimenticare, caro Giorgio, che alcuni decenni addietro in Italia a essere considerati grandi poeti erano Renzo Laurano, Lionello Fiumi, Luigi Fallacara, Lino Curci, Antonio Manfredi, Mariagloria Sears, Corrado Pavolini, Gaetano Arcangeli, Antonino Attilio. Chi li ricorda più? E questi avevano delle qualità letterarie. Figuriamoci che fine faranno questi nuovi figuranti del teatrino del minimalismo radicalscic dell’asse Milano-Roma. Le pagine scritte senza dare alle parole un’anima sono tutte destinate a diventare mangime per i topi e per qualche lepisma stupido. Quelli intelligenti mangiano le pagine di Tasso o di Foscolo.

Con tanta stima per il tuo coraggio di saperti mettere in gioco. Ciao.

Dante.

Roma, 12 luglio 2010

Caro Giorgio,

mi piacerebbe intervenire sul tuo importante libro e dire anch’io delle belle parole contro il nostro mondo letterario, ma credo che prima sia bene che tutti noi ci facessimo un bell’esame di coscienza e aprissimo i nostri armadi, nei quali forse tutti – e dico ‘tutti’, chi più e chi meno – abbiamo qualche scheletro. Attaccare chi si prostituisce, si autopubblica, si auto incensa, ecc., può essere sacrosanto, ma l’attacco perde di credibilità se a farlo sono persone che in piccolo usano gli stessi metodi. Non sono un credente, ma non bisogna confessarsi prima di prendere la comunione?

A presto, a seconda di quanto dura il mio esame di coscienza (in base a questo, ci sono persone che non dovrebbero mai parlare) Roberto Bertoldo

13/7/2010

Caro Giorgio,

io ho letto e annotato con attenzione il tuo libro. Ho scritto una nota (vedi sotto), ma non vorrei entrare in polemiche antipatiche che vedo fiorire a vario titolo. Più che altro, vorrei sentire la tua opinione su quanto ho scritto (è una bozza e non completa). E comunque grazie per il bel pezzo su di me. Vorrei tornare su un paio di cose che mi toccano più da vicino, ma non so bene come. Ad es. In un mio editoriale su La clessidra, circa 8 anni fa, parlavo di Rifondazione dell’Io.

Mauro Ferrari

12/7/2010

Giorgio Linguaglossa, La nuova poesia modernista italiana, Edilet, Roma 2010, pp. 268, € 13,00

Raramente un libro di critica provoca tanto subbuglio quanto il recente di Giorgio Linguaglossa, La nuova poesia modernista italiana; sono di solito le antologie, con le loro scelte di inclusioni e (ancor più) esclusioni che hanno il potere di suscitare un immediato interesse – spesso più cronachistico e polemico che criticamente fattivo. Invece, a pochissimo dall’uscita, il ponderoso lavoro di Linguaglossa si è posto al centro dell’attenzione per avere affrontato, in maniera comunque informata e coraggiosa (con punte di non troppo velata idiosincrasia) la spinosa questione del Canone. Quello che propone lo studioso romano, infatti, è proprio un Contro Canone, con diversi spunti di grande interesse e qualche punto da chiarire.

Il libro di Linguaglossa, caso mai ce ne fosse ancora bisogno, è un peana per ogni velleità di “sperimentazione” ludica che parta da una fiducia nella techné della forma poetica in sé ma che al contempo autorizzi un Io responsabile, comunque, di tali scelte espressive; è un peana per qualunque riproposizione di una poetica degli oggetti – anche se la spiegazione secondo cui “è scomparso l’oggetto” (p. 172) ci sembra quantomeno meritevole di maggior analisi; è un peana per il “minimalismo autobiografico” (sintagma la cui definizione e più convincente analisi se non andiamo errati è dello stesso Linguaglossa, in Appunti critici, Scettro del re, Roma 2002); è un peana per ogni post-orfismo col mal del Tramonto e heideggerismo di accatto. Lo stesso parrebbe dirsi per una poetica che rimetta al centro un Io “poetante” o “ragionante” magari sulla scorta di un’eredità post-Romantica: ma qui Linguaglossa non manca di sorprendere, inserendo (magari con qualche distinguo) nomi inattesi fra cui Pontiggia, Scotto, Rondoni, Perilli, Puccini.

Mi soffermerei soprattutto su qualche punto da chiarire, non tanto per il gusto di evidenziare limiti e difetti, quanto perché sono proprio questi gli elementi che permettono di entrare più addentro ai meccanismi critici di Linguaglossa. Il libro, fornito da una breve Introduzione di Carmine Chiodo, mi sembra tuttavia mancare di una vera introduzione autoriale che illustri i criteri di fondo, il quadro critico e, alla fine, il termine stesso Modernista, una di quelle parole rischiosissime, soprattutto se usate, come fa Linguaglossa, in associazione con “Nuova poesia” e “Post poesia”. Si tratta, mi pare, più di un riferimento generico alla modernità (post-?) che di una precisa allusione al Modernismo storicizzato con tutto il suo portato letterario e critico; sotto questa etichetta Linguaglossa raccoglie comunque un’ampia scelta di poeti, suddivisi in modo un po’ eterogeneo per gruppi. La riflessione, ché Linguaglossa non manca certo di argomentazioni, è quindi un po’ disseminata all’interno del testo, in apertura dei paragrafi o in rapide intuizioni che dal contesto immediato giungono all’universale e che non di rado sono le cose migliori.

Il percorso critico del libro, in cui i capitoli sono suddivisi in paragrafi, parte da tre Padri a vario titolo esemplari (e per nulla ovvi: Zanzotto, Raboni e Pennati), affronta subito “Le linee laterali” per approdare al nucleo del libro (“La nuova poesia modernista”) e infine toccare “La «Nuova Poesia» verso la Post-Poesia”. All’interno di questo percorso apparentemente nitido il critico inserisce sottocategorie quali “La «Nuova poesia» modernista femminile” e “La linea meridionale”, che hanno tuttavia il compito e il merito di portare l’attenzione su aree spesso neglette.

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Un limite degno di rilievo ci pare l’assenza di un’Appendice bio-bibliografica che permetterebbe al libro di diventare uno strumento di lavoro ancora più efficace.

In buona fine, un inventario critico come questo si presta anch’esso a più di una critica per inclusioni, esclusioni e accostamenti. Detto che è impossibile presentare e raggruppare così tanti autori sotto raggruppamenti davvero omogenei, del tutto inattaccabili e senza forzature, alcuni elementi mi sembrano meno convincenti: tralasciamo i tre nomi su cui si apre il libro; è anche inutile – o forse meritevole di altra analisi – soffermarsi sull’esclusione di alcuni nomi: una volta accettate, per fare un esempio, Giovanna Sicari e Gabriella Sica, resta difficile lasciar fuori De Angelis e Mussapi. Mi pare però impossibile tralasciare almeno tre nomi: Magrelli, Pusterla e Fiori, anche perché come negare che quest’ultimo sia il poeta più “moderno” in più di una accezione? Si tratta comunque di tre fra le forze poetiche più vive ed importati, anche se Magrelli appare più una forza esauriota dopo lo splendido esordio, ormai trent’anni fa (e giustamente Merlin avanza gli stessi dubbi, nel recente Nel foco che li affina, Atelier, Borgomanero 2010).

Avanzo poi – senza entrare nella ambigua argomentazione sulle ultime generazioni, per cui mi pare manchino diversi nomi fondanti – due nomi che oggi mi sembrano, ognuno a suo modo, imprescindibili: Cristina Annino e Pierluigi Bacchini.

Risposta di Giorgio Linguaglossa

Chiarimenti intorno a «La nuova poesia modernista italiana»

Caro Mauro Ferrari

tu mi chiedi le ragioni di alcune esclusioni. Richiesta legittima, anzi doverosa. Dirò subito che ho tagliato fuori dall’ordine del mio discorso sia il minimalismo romano-milanese sia l’esistenzialismo milanese che fa capo a Cucchi, De Angelis e, da ultimo, ad un Antonio Riccardi, per due ordini di ragioni che cercherò di illustrare. Qui non si tratta di esclusioni ma di autori la cui produzione non rientrava nella cornice categoriale della «nuova poesia modernista». E ora veniamo al punto: con il termine «modernismo» ho inteso porre sotto il vigile occhio dei riflettori un fenomeno unico in ambito europeo. E cioè che mentre in Europa il modernismo si sviluppa e si diffonde nei primi trenta anni del Novecento, per affievolirsi nei venti anni successivi, in Italia, a causa della resistenza dell’idealismo filosofico, del canone ermetico, del successivo neorealismo (in poesia), dello sperimentalismo (officinesco) e del successivo sperimentalismo della neoavanguardia, il «modernismo» giungerà in ritardo di almeno un cinquantennio, mediante una lentissima opera di filtraggio e di penetrazione osmotica. Ma le condizioni dell’immediato dopoguerra non erano ancora favorevoli alla penetrazione e alla diffusione del «modernismo» (nonostante le traduzioni dei poeti dell’Est e russi del primo Novecento ad opera di Ettore Lo Gatto, di Ripellino e altri traduttori coraggiosi che fanno conoscere in Italia poeti di stampo schiettamente modernisti come Eliot, Machado, Halas, Holan etc.). Direi che in Italia le cose cominciano a cambiare (un lentissimo smottamento molecolare) a partire dalla metà degli anni Settanta. Se si guarda ai libri pubblicati durante questi anni da Ripellino a da un marxista come Franco Fortini, avremo chiara la visione di un ampio spettro, una forbice (di consapevolezza anche stilistica, di avversione al «nuovo» e una visione ostile e critica nei confronti del «progresso» delle forze produttive) stilistica (e non) che continuerà ad aprirsi, lentamente, molto lentamente, negli anni successivi, per via di una pressione culturale proveniente dalla imposizione e diffusione di un canone influenzato da posizioni di privilegio, di visibilità e di prestigio da parte di operatori culturali, poeti e intellettuali che ruotano intorno alle rendite culturali pretermesse. Un ruolo non trascurabile viene svolto anche da una sorta di miopia generalizzata, dall’inerzia intellettuale, dal conformismo sempre più pervasivo che si sviluppa nel piccolo recinto del comparto poesia, nonché dalla scomparsa di un libero confronto culturale e intellettuale che si stabilisce in Italia, diciamo, dalla metà degli anni Settanta, a far luogo dalla morte di Pasolini. Tutto il resto è storia recente. Io stesso ho faticato non poco a riconoscere le mie origini e le origini di un movimento (una sorta di lentissimo bradisismo culturale e stilistico) che affondano appunto a far luogo dalla metà degli anni Settanta.

Tu mi chiedi se io abbia inteso stabilire un «Contro Canone» di contro alla «spinosa questione del Canone»? – In verità, la verità è nei fatti, nella lettura delle opere e nella loro dislocazione spaziale e storica. Dinanzi alla questione «poesia» io mi comporto come un chimico dinanzi alle reazioni chimiche, in modo oggettivo, libero da ideologie e da rendite di posizione.

Riepilogando, e facendo un salto in avanti, in ambito milanese, nel 1976 appaiono Il disperso di Maurizio Cucchi e Somiglianze di Milo De Angelis, che inaugurano la stagione dell’esistenzialismo milanese. Come ho mostrato in un mio saggio entrambi si muovono nella direzione di una «defondamentalizzazione» del linguaggio poetico, il primo mediante una polverizzazione proposizionalistica e l’asintattismo; (insomma, spinge al massimo sull’acceleratore della distassia e della dismetria con il risultato che nei trenta anni che seguiranno cercherà di «ricomporre l’infranto» e ricostituire una procedura sintattica entro un orizzonte razionale-borghese); il secondo opera una serie impressionante di raccourci sintattici e semantici utilizzando anche lui la dismetria e la distassia, orientati però in direzione di una procedura di corti circuiti di senso e di collegamenti asintattici e metaforici; (opera insomma mediante metaforismi più che r mezzo di metafore). Una novità è che i soggetti che abitano questi libri sono proiezioni di un habitat urbano circoscritto e delimitato dalla rivoluzione industriale ormai portata a termine dalla borghesia del triangolo industriale. In ambito romano, nel 1974 Patrizia Cavalli inaugura la stagione del minimalismo romano con Le mie poesie non cambieranno il mondo, una sorta di manifesto di scetticismo poetico-urbano; nel medesimo anno esce Area di rigore di Valentino Zeichen, altro tipico esempio di ludismo auto assolutorio, di teatralizzazione ludica dell’io, una sorta di catechesi del ludismo post-critico e, nel 1980, Ora serrata retinae di Valerio Magrelli, il primo vero e compiuto progetto letterario del minimalismo romano. Opere tutte che si inseriscono in una sensiblerie e in un clima cultural-poetico di marca scettico-urbana che predilige le tematiche della rappresentazione delle periferie urbane e suburbane, le poetiche degli oggetti della nuova realtà post-industriale, nuovi modelli rappresentativi come il «giallo» applicato al discorso poetico, la ricomposizione dell’io lirico in un orizzonte scettico-privato, il ludismo dell’io, l’esibizione di un «io» disincantato e, questo sì, finalmente de-ideologizzato, la teatralizzazione delle proprie vicende private. Siamo già entrati in quel clima di scetticismo diffuso e «riduzionistico» che ha avallato e favorito l’affermarsi del minimalismo, dove al «riduzionismo» delle tematiche corrisponderà un riduzionismo stilistico e allo scetticismo gnoseologico corrisponderà un rifiuto, una neutralità verso il pensiero estetico del Novecento e una neutralità verso i contenuti stilistici della Tradizione. Rifiuto e neutralità verso ogni ipotesi di «poetica», considerata con sospetto dopo il diluvio di teorizzazioni del post-sperimentalismo della generazione del ’68. Siamo già entrati dietro la vetrina del «Grande fratello». La poesia insegue e mima il grande fenomeno televisivo del voyeurismo di massa, diventa essa stessa un fenomeno di voyeurismo di massa. La società televisiva e televisizzata richiede e reclama una poesia televisiva e televisizzata, orientata teleologicamente verso il video. Fenomeno questo che sarà pienamente visibile durante gli anni Ottanta: età di riflusso e di disseminazione epigonica della poesia.

Altri poeti minori, come Daria Menicanti, imboccheranno la via della poesia dell’anima e della passione amorosa, mero aggiornamento di tematiche logore e stereotipate. La poesia di Daria Menicanti in tale accezione rappresenta la tipica espressione di una poesia che rimane a rimorchio delle acquisizioni più smaliziate che in questi anni puntano più su una narratività diffusa e il piano catartico che non sulla stilizzazione e l’omogeneizzazione linguistica o sulla destrutturazione dell’impianto lirico. Il suo libro più importante: Poesie per un passante (1969-1976), pubblicato nel 1978 la rivela per una insufficiente consapevolezza delle questioni estetiche che si stanno delineando; la Menicanti non apre e non chiude, non retrocede ma non avanza neanche dentro le questioni di quale tematica e di quale stile, non entra, insomma, dentro alcuna delle problematiche della crisi del linguaggio poetico.

Ma sarà un giovane calabrese stabilitosi a Roma, Dante Maffìa (1946), con i libri: Il leone non mangia l’erba (1974), Le favole impudiche ( 1977) e Passeggiate romane (1979), che opera una decisa retromarcia e fa una sterzata all’indietro: ritorna ad una poesia di stampo lirico che si riallaccia al «traliccio» di Umberto Saba, saltando tamquam non esset il coevo sperimentalismo; riposiziona, arretrando, l’istituto stilistico su un fondamento più solido che darà i suoi frutti nel futuro. E sarà la siciliana Helle Busacca (che nasce a Sampietro Patti nel 1915 e muore a Firenze nel 1996), sebbene le prime due pubblicazioni di poesia: Giuoco nella memoria (1949), Ritmi (1965), passino completamente inosservate, che con la trilogia degli anni Settanta, si rivelerà uno degli esiti «laterali» di maggiore forza poetica ed originalità di stile: I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974), Niente poesia da Babele (1980) costituiscono l’atto di accusa più drastico che la poesia italiana sia stata in grado di confezionare in tutti gli anni Settanta. Un atto di accusa scritto con il linguaggio più personale e autentico, diretto, antiretorico per eccellenza, antiletterario.

Un poeta sconosciuto e disconosciuto come Salvatore Toma (1951, morto suicida nel 1987), che vive nella lontana provincia salentina, scrive invece i versi più acuti e dolorosi del decennio a cavallo tra gli anni Settanta-Ottanta. Recluso nell’isolamento della provincia, Toma scrive una poesia lontana anni luce dalla ideologizzazione neosperimentale e dalle poetiche che si andavano elaborando a Roma e a Milano; la poesia di Toma è quella di un ruminatore-visionario che accentra il discorso lirico, una sorta di primitivismo linguistico, intorno al problema della propria morte, con una versificazione basata sul verso libero, sulla percussione ritmica e su una imagery limitata e circoscritta a poche figurazioni di base dalle quali si diramano le variazioni ossessive della sua ruminazione interiore. Il discorso lirico diventa così la proiezione all’esterno delle sue ruminazioni interiori. Tra interno ed esterno non c’è distanza: l’interno diventa immediatamente esterno, pagina scritta. Fra le sue raccolte, prima della pubblicazione di una antologia da Einaudi nel 1999 con il titolo Canzoniere della morte, si ricordano Poesie (Prime rondini) (1970), Ad esempio una vacanza (1972), Un anno in sospeso (1979). Un percorso diverso ma parallelo è quello di un giovane studente che proviene dalla provincia calabrese trapiantato a Roma, Dante Maffìa, che pubblica Il leone non mangia l’erba (1974), Le favole impudiche (1977), e Passeggiate romane (1979), con un lirismo naif che sembra un meteorite caduto dalla luna, il contraltare del maledettismo di Salvatore Toma. Colpisce la serena estraneità di queste opere al clima culturale degli anni Settanta. I quanti del suicidio (1976) di Helle Busacca sembrano versi scritti da un reietto che cammina sulla terra dopo un terremoto, sono poesie di un sopravvissuto da un bombardamento. Nelle poesie che il poeta lucano Giuseppe Pedota scrive in questi anni e che pubblicherà soltanto venticinque anni dopo, nel 1996, Equazione dell’infinito (1996) e Dialogo con Einstein (1999); sembra di trovarci dinanzi ad un marziano che sia sbarcato sulla terra con la sua astronave. Pedota scrive come parla, parla con i terrestri in una lingua «privata», nella lingua dei marziani. Nel 2005 appare Acronico, che contiene anche le due precedenti raccolte. Pedota scrive ad una altissima concentrazione lirica, dove è la tensione tra un verso e l’altro che sostiene tutta l’impalcatura del discorso poetico in un susseguirsi di ponti tensioattivi che reggono l’infrastruttura dei versi e che si snodano da una metafora all’altra, da una iperbole all’altra, in un continuum immaginifico di rara felicità espressiva. In queste opere non c’è nulla che le ricolleghi alla comune ascendenza del «duopolio»: lo sperimentalismo e la ex linea lombarda. Pedota scrive in una lingua che abita una terra di nessuno, una specie di extralingua. È questo il segreto della sua forza. La ristrutturazione del linguaggio lirico operata da Pedota avviene mediante il riposizionamento del piano lirico sul «parlato» privato. Tutte le opere di questi autori sono opere «cieche», sono monadi condannate a restare «monadi», sono vasi incomunicanti. È la rivincita della provincia che produce i risultati più alti della poesia di questi anni. Ma tra queste opere si stabilisce la incomunicabilità di prodotti tra di loro incomunicanti: le opere di poesia non parlano, non colloquiano tra di loro, tantomeno gli autori. Anche se la poesia di un Toma non sfugge al giovanissimo Dante Maffia che la pubblicherà sulle pagine di uno dei primissimi numeri della rivista di poesia «Poetica». Dunque, già alla metà degli anni Ottanta qualcosa cambia nel clima culturale.

Il libro d’esordio di Giovanna Sicari Decisioni (1986), è assolutamente in controtendenza: si parla un idioma magmatico e metaforico, un discorso che sta implodendo in una panoplia di metafore militari e di fantasmi minacciosi, un discorso dello stato di latenza dove a prevalere è la irragione dell’idioma «privato», scisso da ogni legame con il «pubblico».

Tu dici che se parlo di Giovanna Sicari «resta difficile lasciar fuori De Angelis e Mussapi» e «impossibile tralasciare almeno tre nomi: Magrelli, Pusterla e Fiori». Credo invece che le cose debbano esser viste all’incontrario: per tanto tempo è stato messo su un piedestallo De Angelis e retrocessa la moglie Giovanna Sicari; proviamo un po’ a cambiare l’ordine che ci è stato imposto dall’alto, e vedremo che cambia il panorama e il profilo dei valori. Merito di De Angelis è stato quello di aver prodotto uno «sperimentalismo interiorizzato» con il metodo del copia e incolla (trafugando versi da poeti minori come Armando Patti e Tavilla, come dimostrò un critico come Giacinto Spagnoletti in un famoso articolo su “Il Messaggero” di Roma). L’importanza del libro di esordio (Somiglianze del 1976) di De Angelis (che rappresenta il punto più alto della sua produzione), deve essere circoscritta alla poesia degli anni Settanta. Direi però che con il senno degli anni trascorsi tale importanza appare oggi molto ridimensionata.

Per quanto riguarda la poesia di Umberto Fiori (Voi Milano, Mondadori, 2009), qui prendo le distanze da un libro che si inserisce nel declivio del minimalismo misantropico. E poi, i minimalisti ci dicano finalmente: che cos’è il quotidiano? Siamo sicuri che il «quotidiano» sia quella «cosa» che perimetra il raggio d’azione dell’io nella vita quotidiana? E che cos’è l’io per i minimalisti? E che cos’è la vita quotidiana? È quella dei minimalisti? O è qualcosa di più sottile, sfuggente e complesso? E inafferrabile? Qualcosa che sfugge alla logica indagatoria di ogni filosofia positiva (e/o negativa)? In realtà, Umberto Fiori, e questo è il paradosso, tenta di bucare l’utopia (la falsa coscienza) del quotidiano adottando una poesia del quotidiano che impiega sì parassitariamente il quotidiano come avveniva presso i minimalisti ingenui degli anni Ottanta e Novanta, ma con una significativa correzione: lo utilizza come atto d’accusa moralistica contro il tempo presente.

Voi che siete così

umani, così miti e comprensivi,

voi che capite il canto dei canarini

e il fischio dei criceti, voi

che baciate in bocca gli alani,

perdonate i discorsi

dell’altra sera…

È già un passo in avanti questa stoccata piccolo-borghese ai vicini piccolo-borghesi. Ma innocua perché dettata e motivata da una opzione moralistica, supponente, saccente. Personalmente, non trovo nulla di riprovevole (in sé) nell’ascoltare il canto dei canarini o il fischio dei criceti, non è quello il problema, non è quello il bersaglio che bisogna colpire. E Fiori manca il bersaglio perché sta troppo vicino, tallona troppo dappresso il suo nemico. La condanna del poeta Umberto Fiori alla società borghese impersonata in un «Voi» indifferenziato e indistinto, è una condanna che periclita nel vuoto e nell’insipienza, è elitaria e moralistica e riposa sul presupposto che chi scrive sia migliore di chi ascolta e legge. E questo aspetto lo considero davvero imperdonabile. Quello che non comprendono i micrologisti (che sono tutti piccolo-borghesi non più soltanto per estrazione ma per formazione culturale), è che tanto più ti avvicini all’oggetto da condannare o da emendare tanto più cresce il risentimento e i bassi istinti nei confronti degli altri visti come «Voi». I micrologisti detestano la piccola borghesia perché detestano se stessi, così simili e affini alla vituperata e detestata entità sociale. C’è in ogni pagina del libro di Fiori il risentimento, l’astio, l’ostilità per il «Voi» indifferenziato e indistinto. L’astio per tutti. Quanto di più piccolo-borghese il novecento abbia prodotto lo ritroviamo di sana pianta trapiantato in questo libro. La poesia di Fiori sta a metà del guado: tra la chatpoetry e la moral suasion. Dopo tutto questo risentimento e ribollimento contro la piccola borghesia dove va a finire la battaglia privata di Umberto Fiori?

Se vi ubbidisco

parola per parola,

se ballo e canto a modo vostro,

se mastico bene il plancton che mi servite

e vuoto tutto il bicchiere di vino acido

poi mi lasciate in pace,

mi lasciate solo?

Ecco, tutto quello cui mira il poeta è di essere lasciato in pace, da solo. Indubbiamente un po’ poco, tanto rumore per nulla, il poeta vuole rimanere solo a meditare? O a scrivere poesie? Magari contro la piccola borghesia filistea? In verità, quella di Fiori è una filosofia spicciola, è il conto della spesa, la sua richiesta di preventivo per starsene buono buono in un angolo a lanciare le sue maldicenze poetiche.

Discorso analogo va fatto per la produzione di Fabio Pusterla, e non vorrei ripetermi rischiando di annoiare il lettore.

Discorso diverso per Mussapi. Possiamo leggere la poesia di Roberto Mussapi come il tentativo (forse più riuscito) di costruire una poesia-ponte che ha saputo trarre profitto da entrambe le petizioni di poetica sopra citate mediante l’apprestamento di un discorso lirico sospeso tra il piano conservativo e quello innovativo, tra il senso spaziale-fisico e quello spaziale-mitico mediante un impianto di enunciati dichiarativi che fondono la struttura spaziale e la finestra mitica in una narratività diffusa e pervasiva, un uso concettuale topologico del quotidiano non distinto dal carattere mitico-quotidiano, con impiego di una vasta gamma di tonalità e di retorizzazioni: direi un impianto di poesia modernistica opportunamente truccata e mascherata, tanto da renderla non immediatamente riconoscibile.

Risulta consono a questa procedura l’abbassamento del registro linguistico al piano pseudo-narrativo, nonché l’enfatizzazione in direzione di una prosaicizzazione ed eroicizzazione del quotidiano. La Storia è «la stoffa dell’ombra delle cose», è un amalgama, un composto di «sublime» e «quotidiano», lirismo e discorsività. Discorsività, piano mitico e piano simbolico sono i tre binari sui quali il discorso poetico di Roberto Mussapi poggia i propri fondamenti, in sottile equilibrio tra la poesia che attira la prosa, con i suoi detriti, e la poesia che va verso la prosa, che viene attirata, fagocitata entro il campo di tensione linguistico del modello-prosastico.

È noto che la poesia di Magrelli, nella sua tensione verso l’oggettività, diventa asettica ed asessuata: gli oggetti diventano combinabili e manipolabili. Nel 1980 appare Ora serrata retinae. Il libro è fresco, dalla sintassi essenziale, leggibile, immediatamente decodificabile, estraneo sia alla linea dello sperimentalismo sia a quella dell’opposta sponda di chi tentava una ristrutturazione del genere lirico in chiave simbolista rimodernata. È subito un successo di critica e lettori. La spiegazione del successo è da attribuire, da un lato all’abbandono della scatola acustica del post-simbolismo, dall’altro alla riduzione della gamma delle tematiche a quella dello spazio-corpo e dello spazio-psiche. È una riforma per riduzione che privilegia il primato della figuralità ideativo-visiva rispetto a quella concettuale-spaziale.

La poesia di Magrelli diventa subito emblematica, oggetto da subito di culto e di epigonismo, produce una schiera di adepti e di imitatori, coniuga una gradevole leggibilità alla essenzialità stilistica e lessicale. Opera una «riduzione», è questa la ragione del suo successo. Vero è che la poesia di Magrelli favorisce l’emergere di una linea di gusto che vedrà il minimalismo romano accorrere in aiuto al minimalismo milanese ormai boccheggiante, getta le basi di una impostazione «neoriformista» che si muove su un duplice binario: la riflessione psiche-corpo e la forma-commento che opta per la micrologia.

La poesia del primo Magrelli si situa sull’orlo di questa crisi interna della forma-poesia.

La poesia di Pierluigi Bacchini appartiene al genere «tematico». Una volta stabilita una «tematica», Bacchini procede per «tematismi», mediante lo sfruttamento intensivo di tutti i «materiali linguistici» che quella tematica può offrire. È questo il modo di procedere di Bacchini. Fatto sta che la sua scrittura, da Distanze e fioriture (1981), Visi e foglie (1993), Scritture vegetali (1999), Cerchi d’acqua (2003), fino a Contemplazioni meccaniche e pneumatiche (2005) e Canti territoriali (2009), altro non è che lo sfruttamento intensivo di un demanio linguistico e metaforico; ma così facendo la poesia di Bacchini non accenna al minimo mutamento interno, non ha sviluppo, risulta priva di prospettive stilistiche interne; è scrittura vegetale, di cerchi d’acqua, territoriale (nella misura in cui è de-territorializzata), e quindi sempre eguale a se medesima, può continuare all’infinito ripetendo la medesima falsariga della propria petizione di poetica «vegetale», naturista con stile naturalistico. Si tratta, appunto, di «contemplazioni» di una tematica «naturista», di considerazioni contemplative (sulla natura martoriata). Voglio dire che questa scrittura è priva di un risvolto «pubblico» perché la «natura» di cui parla Bacchini esiste soltanto nella sua immaginazione privata, è esercizio di decorazione; il lettore è avvertito come «esterno», «estraneo», come un «intruso» al quale è sbarrato l’ingresso dentro il proprio hortus conclusus, frutto di esperienze de-realizzanti e de-realizzate, prodotto di contemplazione di «piccoli erbari», piccoli «quadretti» separati dallo svolgimento storico del mondo «di fuori». La poesia di Bacchini è «irresponsabile» nella misura in cui non deve nulla al lettore, non riconosce il ruolo del lettore, gode del privilegio di essere astorica e atopica per mancanza di consapevolezza critico-culturale intorno al ruolo del discorso poetico nel Dopo il Moderno; è una nuova modalità di petrarchismo e di evasione dalla Storia e dalle responsabilità della scrittura letteraria, innocua rivolta contro il mostro del Moderno e i suoi tentacoli. Ne deriva una poesia di protesta piccolo-borghese e adamitica contro lo sfruttamento della natura, ma si tratta di una motivazione moralistico-strumentale che lascia intatti i rapporti di produzione (come i rapporti delle istituzioni letterarie) e la logica dell’accumulo del capitale così come lascia sopravvivere (stilisticamente) nella propria poesia la logica dell’accumulo del significante, immunizzato ed eternizzato da una petizione di poetica acritica e moralizzatrice. Poesia che vive (parassitariamente) all’interno di una finta segnaletica simbolico-iconica, un novello adamismo che grida e gesticola per la natura incorrotta e avverso lo sviluppo tecnologico. Ma si tratta, appunto, del prodotto di una finzione. Poesia fiction appunto perché de-realizzata e de-territorializzata, che rappresenta (e ripresenta di continuo) la propria immutabilità istituzionale e stilistica.

Della poesia di Cristina Annino me ne sono occupato nel lontano 1995. Da allora la sua poesia non ha avuto sviluppi: elegante e piccolo-borghese fin nel midollo, non è interessata al pubblico, è un decotto (elegante e stilizzato) di un’Arcadia femminile che, paradossalmente, si presenta nella pagina scritta con un coté super virile, sofisticato ed elitario. È un autore che mi annoia. Preferisco poeti meno dotati ma più autentici.

Ma mi chiedo (e lo chiedo agli studiosi di poesia contemporanea), come si fa a non menzionare poeti di sicura qualità come Maria Rosaria Madonna, Maria Marchesi, Roberto Bertoldo e Luigi Manzi? – nessuno fa i loro nomi per il semplice fatto che non hanno pubblicato con editori a diffusione nazionale! – ma un critico serio non può tacere su ciò di cui non si deve tacere, sui valori che ritiene più autentici. È suo dovere non tacere.

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