Le domande e risposte aperte della canoscenza poetica
Adam Vaccaro
Sandro Pecchiari, Alle spalle delle cose, Vita Activa Nuova, 2022
C’è, nel nondetto di questo libro di Sandro Pecchiari, una domanda: da dove partire? Da quale luogo avviarsi, se la poesia è intesa come moto verso una maggiore conoscenza che aggiunge e va oltre le acquisizioni delle altre discipline? Se rifiuta di rimanere esercizio supponente quanto illusorio e patetico, separato dal mondo?
Una lampada è offerta dalla dedica dell’Autore, in esergo del libro, “A tutti i ‘genius loci’ della mia vita”, che coniugata col titolo compone un ossimoro. Il primo è nucleo centrale di matericità e sacralità che, al pari del poièin, produce ed è al tempo stesso prodotto da uno stato modificato di coscienza, recalcitrante e impossibile da prenderne l’essenza con qualunque metodo scientifico o semplicemente raziocinante. Le supponenze dell’Io sono messe alla porta, ma ecco che da qui resiste nel rientrare in gioco, alle spalle delle cose, o meglio della Cosa, Casa della complessità e della sua (im)possibile canoscenza.
Questo libro risponde perciò con una sua specifica declinazione di Adiacenza tra i linguaggi costitutivi dell’umano, dai segni algoritmici dell’Io, necessari ma insufficienti a conoscere l’infinito ignoto, agli invisibili segni di umori e amori di radici e foglie, dentro e fuori di noi.
Concordo perciò con quanto conclude nella nota in postfazione Giuseppe Vetromile: “Sono versi che denotano la grande capacità di Pecchiari del suo profondo scrutare attraverso i muri e le stanze del mondo…grazie proprio alla sua poesia”. L’ardua, interminabile scommessa di aggiungere, attraverso questa cosa indefinibile e necessaria che chiamiamo poesia, è qui esposta tra squarci di luce, briciole di pane, pietre mancanti nella fabbrica della casa-mondo, alla ricerca di una bellezza che va oltre la meraviglia, sul crinale tra simbolico e reale. È da qui che la fame di umanità continua ad accendere foreste, mari e giardini della vivificante immaginazione, tradotta in versi tesi a un infinito perseguito, che non smette di voler trasmettere e condividere la sua passione di conoscenza.
Il libro è strutturato in IV Parti, ciascuna di 10 poesie, per un totale di 40 testi. La sua architettura poggia dunque sul piede progettuale del quattro, di chi cerca un terreno solido per radici e foglie dell’invisibile: concretezza operativa da artigiano, di quell’Io, seppure messo fuori dalla porta. Per cui questo libro risponde a suo modo a chi alza le mani nell’ignavia felice e arresa alle sinfonie concertanti di questo punto della storia che canta lo zero e il nulla, e ridicolizza ogni resistenza alla perdita di senso umano.
Una risposta a svolazzi eterei e ininfluenti, quanto assisi su cattedre inesistenti, è già nella metafora dagli aloni metonimici del primo testo, immagine (re)attiva di sé che disegna la propria identità e lancia appelli, minacce, relazioni – “sono un uomo per la sera/…/ ti strapperò le tende/ e sporcherò il tappeto/…/ mi avvolgerò rugoso su di te” –, con un tu che al termine si vuole acquisire, ma con sensi amorosi e non di dominio: “terrò anche te dentro i miei rami/ non ne sarai scontento” (1. Larice spogliante, Timavo, p.13).
Il moto è nel sogno di 2.Resurrezioni, anche se “l’oblò borbotta cieli di apocalisse” (p.14), e 3.Caccia di sera, “ognuno nel proprio posto adatto” sa “crearsi inferni in proporzione” (p.15), ancor più bisognoso di quel “amico mio che mi proteggi dalle spalle/ dietro è terra di nessuno/sei tu che sai vedermi da lontano/ tu nella mia interezza/ e io nella tua” (6. Hamam di quartiere, p.19). Per cui “soffermati dove la realtà/ non si fa vedere”, “qui si manifesta questo stare al mondo/ sentendo le giunture/ guardandosi alla spalle per capire/ dove saremmo veri” (7. Cattedrale, Venezia, p.22), tra “uomini, cavalli e religioni” (8. Caesarea Marittima, Giudea p.24), “d’un dio ebbro di ventate” su una “terra che verde/ sostiene il tuo sguardo” (10. Israel / Azrael, Galilea, p.27).
Nel moto che percorre Giudea, Tunisi e Galilea, Trieste e Venezia, tra i termini che ricorrono come mantra e ribattuti dalla volontà del proprio Karma, risaltano terra e spalle. Proiettano immagini di un moto che cerca carponi “la terra tra le dita” (p.24), l’invisibile genius loci, cruna in cui infilare il refe dell’ardua tessitura di una trama capace di offrirci senso e tensione alla totalità.
I testi disegnano traiettorie che paiono ricreare quelle dei “moscerini” che “volano a scarabocchio” (p.15), cercando ognuno il posto adatto a evitare lo “inconoscibile” e “la strage dell’impatto” con l’affamato “stridere delle rondini” (p.15). Sono traiettorie che aprono finestre sul mondo, dalla sete di un “territorio conosciuto”, anche se diventato “un posto non più mio” (11. Genius loci, Conegliano Veneto, p.33).
È il primo testo della II Parte, in cui il nostos e ritorno nel proprio giardino, ripartono dal centro motore del testo, inizialmente evidenziato. Il quale continua a svilupparsi in un moto elicoide, che cerca luci, tra possibili abbagli di uno “sguardo che entra all’incontrario” (15. Padiglione, p.38) indagando tra presente, passato e futuro, perdite e rovine, dove “i tetti si arrendono per primi/ al vento che viene// la pioggia infradicia le statue“ e “nel legno che si spacca/ la vernice non resiste” (16. Futura rovina, p.39), in cui il Soggetto Scrivente riafferma il proprio alito etico resistente: “raccolgo il respiro aspro delle albe/ il raspare ostile dei gabbiani/ l’imprendibile sfuggire delle sabbie/ scabre tra le dita// e storie antiche da calcare ancora/ ricordarsi di cullare tutti i morti” (20. Mar nero, p. 44). Risalta in questi versi il continuo alternarsi di suoni liquidi in elle e ruvidi con erre, temperati da esse alonanti eros e pietas. Intrecci che sono il frutto, sia del lavorio artigianale dell’Io, sia del ritorno del rimosso emozionale dell’Es.
È un viaggio che “parte e va dove vuole e però non resta dove vuole”, citazione in esergo della III Parte, da Medicina Carnale, Le molestie della mente, di Jolanda Insana, di sintesi della complessità della nostra ricerca, tra volontà e limiti imposti dall’Altro. Viene così disegnata l’indefinibilità con cui si misura un’ansia di conoscenza, irredenta e irridente chiusure e pretese di assoluto, conscia che “definire l’esterno/ (noi stessi nell’esterno)/ è imprigionarlo nello zoo” (38. Lo zoo, p. 81). Per cui “sono tornato a stare qui/ con gli anni alle spalle/…/ ma mi ostino a vivere/ sperando se ne sciolga il senso/ o mi riveli il vero” (39. Ennesimo trasloco, p.83).
Chiusura dunque aperta, che come sottolineato anche nella postfazione da Monica Guerra, parte da quel nucleo di senso del Genius Loci, e si esplica coerente in tutto il suo percorso, nonostante “un corpo insicuro/ i garbugli delle cose/ che dimentichi e non ami” (40. Lo specchio, p.84). Versi donati dalla fragile confessione della sapienza accumulata, che sul crinale di autoironia e umiltà di verità aperta, non smette la sua caccia interminabile, in una forma di intreccio adiacente tra etica ed estetica.
Adam Vaccaro
Una gioia questa recensione.
Qualche suggerimento sul backstage del libro:
È nato dalla sovrapposizione del concetto di Infrasottile di Grazioli, dalla Bellezza Collaterale di quello splendido film di qualche anno fa e dell’impermanenza del Komorebi.
Il tutto distillato con affetto e rilassatezza.
Mi compiaccio di questo e altri riscontri entusiasti e più articolati, ricevuti da Sandro personalmente. Libro complesso e affascinante.
Come definire la gioia che ho provato per questa recensione?
Quando viene dato alle stampe, un libro comincia a percorrere tanti itinerari quante le interpretazioni dei lettori. Una specie di figlio che cresce e esperimenta, a volte percorsi affatto nuovi.
Questa è gioia, ma più grande è la gioia quando una recensione come questa intensa di Adam Vaccaro vibra all’unisono con il mio sentire e percepire/percepirsi.
È sentirsi a casa, è costruire amicizia oltre le pagine
Sì, Sandro, dico sempre che la poesia è un albero, di cui i lettori possone essere linfa e co-autori della sua crescita e cammino. E anche se l’Autore non è più presente, il suo albero continua a crescere (o a deperire) se ha (o non ha) lettori che lo alimentano. E se questo suo viaggio di “albero alato” (come l’ho chiamato, occupandomi di Antonio Porta) continua, diventa “Genius loci” di intensità affettiva umana, donata dai versi di quella cosa che chiamiamo poesia, cui non bastano recinti di righe spezzate, nella sua tensione di essere parte del moondo, e non mondo a parte. Ed è questo processo gioioso che si è avviato tra noi, attraverso i rami del tuo albero.
Grazie ad Adam anche per questa recensione, splendido “il volo a scarabocchio”, non unica bellezza della raccolta come traspare.