Nyaungshwe (Lago Inle, Myanmar), 16 dicembre 09 – Diario di viaggio di Luciano Troisio
Ho passato una settimana a Nyaungshwe, cittadina del Myanmar, fresca, a 900 metri di altezza, punto di partenza per visitare il Lago Inle, lungo 22 chilometri e largo circa 10. Ci sono molti monasteri e pagode, i villaggi su palafitte sono 17, le coltivazioni di ortaggi e fiori galleggiano su un’acqua piuttosto bassa.
[Nota: Nyaung significa banano, forse anche bananeto; Shwe significa oro. Ecco perché molte pagode hanno un nome che inizia così. Credo che Shwe sia collegato al prefisso thai Suv che significa oro. Il nuovo aeroporto di Bangkok si chiama (traslitterato secondo le regole italiane) Suvannabumi che significa letteralmente “Terra d’oro”. (Le uniche nazioni asiatiche che usano l’alfabeto latino sono: Turchia, Vietnam e Indonesia. In tutti gli altri casi bisogna traslitterare alla meglio da altri alfabeti o ideogrammi).]
Una delle principali seccature in Myanmar, specie per chi deve scrivere al computer, è la continua mancanza di corrente, come in questo momento. Bisogna confidare sulle batterie. Ma se c’è corrente è meglio precipitarsi a fare una doccia mentre l’acqua è calda. Tremendo poi di notte inoltrarsi in una tenebrosa toilette semisconosciuta. Anche ricaricare le batterie è un calvario.
Oggi sono andato a Taunggyi, lontana solo 40 chilometri. La guida consiglia di evitare questa città, che si trova nello Stato Shan, (regione di nord-est che confina con la Tailandia), e infatti durante tutta la giornata, per la prima volta da quando mi trovo in Birmania, non ho visto nemmeno un bianco. Questa è la zona dei ribelli, dei banditi, del contrabbando.
[Shan è la stessa parola di Siam; infatti la gente, almeno l’etnia prevalente, si considera tailandese, parla un dialetto thai, ha la stessa cultura.]
Alcune considerazioni, partendo dal fatto che qui è molto difficile documentarsi anche su cose semplici, come ad es. ottenere una carta geografica con alfabeto latino. Io me ne sono procurato un paio di decenti per turisti. Le suddivisioni e i confini amministrativi tra i vari stati/regione non coincidono; le cartine della decantata guida Lonely fanno pena e sono talmente minute da richiedere una vista perfetta, che non ho.
Concludendo: vorrei sapere dove mi trovo. Già in Bagan, anche parlando con garbate studentesse/cameriere indigene di 20 anni, mi rispondevano soltanto che eravamo a Nyaung U, (altro Bananeto) cioè il nome del villaggio. Inutile chiedere il nome del capoluogo o dello “stato”. Un’ulteriore complicazione deriva dal fatto che alcune zone sono definite Division e altre (probabilmente le più turbolente) State. È anche sconsigliato parlare di politica, per non mettere in difficoltà i locali. Mi pare di poter dedurre che la giunta militare tirannica ha “fatto degli accordi di massima”, usiamo questo eufemismo al posto del manzoniano “calato le braghe”, con alcune vivaci zone del paese, abitate da etnie diverse dai Bamar (o Birmani, che sono circa il 68%). In realtà non c’è più controllo su queste zone che si sono organizzate con veri potenti eserciti ribelli al comando di generali locali (la guida usa il termine di “signori della guerra” storicamente riferito alla sfasciata situazione cinese del 1930). Probabilmente il governo centrale (che pare pensi soprattutto a succhiare denaro da chiunque) è dovuto scendere a compromessi e abbandonare, per fare solo un paio di esempi, all’etnia Wa (forte di un esercito di 20.000 uomini al comando di Bao Youxiang, detto il presidente Bao), il commercio dell’oppio e delle anfetamine, e a quella Shan tutto il rimanente lucroso contrabbando di merci, ma anche di droga, con la Tailandia e la Cina, attraverso confini misteriosi e montuosi viottoli. Gli scontri a fuoco e le scaramucce di confine sono faccenda quotidiana cui non si fa pubblicità. Con la Cina esiste una antichissima “via” attraverso la quale gli Han sono sempre scesi a commerciare da millenni con i principati indo-cinesi. Inoltre lo Stato Shan, facendosi bello del suo lungo confine con la Cina, è pragmaticamente riuscito ad accordarsi con Pechino (che pure sponsorizza contraddicendosi la giunta di Yangon); tanto che nella città di confine di Mong La, la moneta ufficiale non è il Kiàt del Myanmar, ma lo Yuàn Renminbì cinese, e 19 aerei cinesi atterrano ogni giorno a pochi km. dal confine scaricando frotte di cinesi (i cinesi sono notoriamente accaniti giocatori d’azzardo), che entrano nello Stato Shan gonfi di soldi soprattutto per giocare negli appositi casinò, ma anche per commerciare. Sarebbe interessante sapere quanto denaro arriva a Yangon e quanto ne resta nello Stato Shan; e anche riuscire a capire di che colore è la dittatura birmana. Pare che autorevoli membri della giunta militare ora si orientino verso posizioni moderate, che vedano con simpatia alcuni aspetti del capitalismo (come del resto l’ingombrante vicino comunista cinese, loro sponsor). Come si spiega, per non dire di altro, il rigido controllo dei media, la schermatura di internet e il cupo atteggiamento repressivo? Bisogna però riconoscere che tutto ciò non pesa molto sul turista straniero, che si accorge di poco, anche perché le pratiche burocratiche e doganali sono rapide e gentili, e i protagonisti del potere appaiono di rado (se non sui loro media).
L’unico mezzo pubblico che va da Nyaungshwe a Taunggyi è il pick up, naturalmente affollatissimo all’inverosimile. Ho pensato che per 40 km. ce l’avrei fatta. Sono salito tra i primi pensando di proteggermi dal freddo (dovevamo salire da 900 a 1500 metri d’altezza) stando accanto all’abitacolo; nel vano posteriore che ospita su panche i passeggeri, le fessure erano molte. La popolazione locale si veste con giacche di cuoio, a vento, maglioni, io ho solo magliette tropicali. Comunque il freddo non è stato così pungente. Accanto a me c’era una giovane signora sorridente e simpatica che si è mangiata una dozzina di enormi frittelle dolci (ci sono alcuni locali che si chiamano Pankake Kingdom) e me ne ha gentilmente offerto. Quando lo spazio era già esaurito sono salite tre ragazze con la solita gonna lunga e giacchettini grigiobianchi quasi eleganti. Hanno dovuto accontentarsi dei minimi sgabelli centrali. Quella che è finita accanto a me era la più alta, teneva in mano un grosso tubo di cartone dentro al quale c’era una eliografia. Ho evinto che fosse una studentessa delle teniche. Altra gente si ammassava, la ragazza era pressata contro di me, la sua coscia lunga e morbida aderiva completamente alla mia di brevilineo. Non si trattava di ancipite coscia morta, ma di legge della fisica, cui penso nel terzo mondo siano abituati. Dopo il mio lungo soggiorno a Shanghai soffro molto per la prossemica con altri umani estranei (cioè se non li conosco da prima). Come sappiamo, gli asiatici non hanno lo stesso concetto della prossemica, trovano l’eccessiva vicinanza e il contatto normali; invece gli europei, se proprio non sono costretti, rifiutano di avvicinarsi a meno di 70 cm.). Ma in questo caso ero anzi felice: da molti anni non vedevo per un tempo così lungo una ragazza, avvinto a meno di 10 cm. Il suo collo era di una bellezza degna di Simonetta Vespucci; assenti al solito le attrattive mammarie (il Myanmar è una vera amazzonia. Mai alfa fu più privativo. Si spera che almeno le balie…). Lei si è dimostrata timida ma riservata e soprattutto non ostile. Nel frattempo tonnellate di bagagli e ceste alla rinfusa venivano sistemate e legate sul tetto. Infine cinque ragazzacci sono montati sul predellino esterno posteriore tenendosi in piedi a varie maniglie, e siamo partiti. Eravamo 35. A un certo punto, iniziata in lentissima coda una tremenda salita con sbuffi di smog irrespirabile, abbiamo incrociato un posto di blocco con sbarra alzata, nessuno ci ha fermato, abbiamo oltrepassato un grande arco che augurava: benvenuti nello Stato Shan (ma secondo la cartina anche il Lago Inle da cui eravamo partiti fa parte, sebbene per un pelo, dello stato Shan! Mah! Può darsi che ci siano diverse interpretazioni o controversie di confine amministrativo: certo il Lago Inle con tutti i suoi turisti fa gola a molti e specie ai molti banditi). Giunti alla periferia della città abbiamo preso una stradina secondaria sterrata, ci siamo fermati di fronte a un edificio con portico. Le tre ragazze sono scese, sono corse a controllare col dito probabilmente il risultato di esami, poi tutte allegre sono tornate. Abbiamo proseguito attraversando un parco alla fine del quale c’erano due grandi casamenti (universitari?) completamente ricoperti da grosse inferriate (e in caso di incendio?). Qui le ragazze sono scese con tutti i loro bagagli che contemplavano anche un’enorme cassa d’ordinanza in metallo verniciato verde ciascuna; amiche erano ad attenderle, si sono abbracciate ridendo, uscendo dalla nostra vita. Siamo alfine giunti al capolinea da dove i pick up ripartono per il lago. Mi sono fatto spiegare dov’era la via principale e come si faceva a tornare lì.
La guida dice che la città è influenzata dallo stile cinese negli edifici e nella fisionomia degli abitanti. Per la bruttezza degli edifici forse sì, per le fisionomie non mi sembra più di tanto. La grande vitalità di questo centro dipende dalla sua posizione che ne fa il fulcro del transito del contrabbando perfino dall’India, cioè dal confine nord. Non è da tutti avere confini con Cina, Tailandia, Laos e India insieme. C’è un’enclave cinese dove vivono molti immigrati clandestini (che hanno mutato dittatura). Oltre agli shan ci sono bamar, sikh, indiani del Punjab, nepalesi, più altri 36 affascinanti gruppi etnici minori dagli abiti diversissimi, alcuni tutti neri, altri molto colorati. Credo vivano sulle montagne (con questo freddo, e con riscaldamento autonomo delle capanne di paglia dev’essere una vita grama). Culture diverse, persone e fisionomie diversissime, voci molto acute, alcune ragazze con baffetti (sebbene la razza mongolica tenda al glabro anche nei maschi), altre con macchie di lupus sul volto come vedevo spesso in Cina, ma non ho mai visto prima in Indocina.
Alcuni giovani uomini con bambinetti erano vestiti di nero e avevano i capelli raccolti in un lunghissimo codino come i cinesi sotto la dinastia Manciù. Uso rimasto da allora? Gente in generale non bella. Ci sarebbe da vedere il mercato delle gemme dove si contrattano anche pietre grezze. È probabile che parte dei rubini e zaffiri esposti nelle eleganti vetrine di Silom Road a Bangkok provengano da qui. Questo mercato si trova in periferia, piuttosto lontano e nessun tassista ha voluto accompagnarmi. Forse è stato meglio così, anche perché non me n’intendo affatto. Mi è stato più che sufficiente il solito mercato di frutta e verdura, fiori, dolci, pollame, pesce anche secco, carne sbranata in condizioni igieniche discutibili, bilance e pesi arcaici. Soprattutto la gente: un tripudio, un labirinto da capogiro, in un paio di ore si è ubriachi. Non ho comprato nulla.
L’altezza mi dava un po’ di ansimo al minimo scalino. A mezzogiorno ho cercato un ristorante cinese nella main street Aung [si tratta di un importante eroe nazionale, padre del premio Nobel Aung San Su Ci] dove giganteggiavano rossi slogan del regime, suppongo ottimistici, lunghi una cinquantina di metri. A Mandalay erano scritti anche in inglese. Qui nessuno parla una parola di inglese; ho dovuto riesumare le mie sbiadite conoscenze di mandarino per ottenere del pollo fritto e riso bollito. Tornando dalla toilette un centauro aborigeno con bambino aveva già posato due caschi di forma teutonica sul mio tavolo, che avevo in precedenza occupato con vari segnali territoriali (e ce n’erano molti altri di liberi). Ho preferito non dire nulla, avendo letto della pericolosità di questo posto. Loro hanno preso dei noodles, il bambino non mi ha mai guardato. Ha mangiato educatamente con le bacchette. Uscito da lì ho ripreso a vagare nel labirintico mercato fino ad esaurimento batteria, poi mi sono diretto al capolinea, ho bevuto un istant-coffee e mangiato due pasticcini nel lercio affollato locale d’angolo, in posizione strategica credo di lusso, del mercato.
Siamo ripartiti alle tre. La compagnia ora era meno piacevole, però c’era anche un’anziana affascinante signora di una tribù che veste di nero con un turbante coloratissimo fatto magistralmente con un asciugamano. Nessuno la guardava. Alcune seriose occhialute signore forse d’alto lignaggio magistrale, hanno parlato ininterrottamente come trapani che neanche la Marcegaglia; lei è rimasta muta e aristocratica, indifferente alle mie foto trafelate. All’arrivo hanno tentato di farmi pagare la tassa d’entrata (nell’area del Lago, n. d. r.) di tre dollari una seconda volta. Ero l’unico bianco. Ma la bigliettaia è stata gentile e mi ha chiesto soltanto il nome del mio albergo.
Tutto sommato la città non mi è parsa così pericolosa, sebbene sappia benissimo che per gli stranieri è un finisterre, e più avanti non si va, se non a proprio rischio e pericolo serio, in un territorio privo di leggi e decreti attuativi. Di là c’è il mondo del nero, della filibusta, dei rubini, delle bande di delinquenti, degli eserciti ribelli: il favoloso regno estremo dell’oppio, fino al lontano Triangolo d’Oro.