Crampi – romanzo di Fausta Squatriti

Pubblicato il 1 ottobre 2015 su Saggi Prosa da Adam Vaccaro

Malati terminali

La realtà de-scritta nei Crampi di Fausta Squatriti

Adam Vaccaro

La protagonista principale di questo romanzo di Fausta Squatriti – Crampi, Abramo Editore, Catanzaro 2006, pp. 230, 18 € – è una “antropologa fané”, così la definisce nell’articolata e acuta Prefazione Mauro F. Minervino, che cura con Mario Desiati la collana Onde, in cui l’opera è inserita. Antropologa di città, di una realtà metropolitana che pare senza centro nel suo dilatarsi da Milano a Parigi alla Finlandia alle metropoli sudamericane. Ma il centro c’è ed è Milano, anche se per “un vezzo di nomenclatura” non è nominata, come (con poche eccezioni) tutti i personaggi schizzati o adombrati; a cominciare dalla figura, centro del centro, di questa “Antropologa virtuale” (dice la stessa Autrice) o naïf, di cui il prefatore specifica ulteriori connotati che condivido e riporto perché utili a questa lettura: “sobria Bukowsky alla milanese, altoborghese, assolutamente egoista ed elegantemente dissoluta, autodistruttiva e lievemente feroce”, ma anche “belloccia sessantenne, intellettuale, libera, sessualmente disinibita e ostinatamente praticante, madre fallita, mancata suicida”.

Siffatta Antropologa si fa Volontaria, trasferendo ovviamente in essa il suo bagaglio di esperienze, tratti psicologici, caratteri socioculturali e fallimenti, compreso un matrimonio finito. Anche se la narrazione non risale o non approfondisce, opportunamente, dettagli di sapore psicoanalitico, gli elementi forniti consentono di capire la geometria dell’abisso che genera sia l’Antropologa che la Volontaria. Geometria schizofrenica che strazia a più livelli e senza soluzione la protagonista. Sul piano personale il tentato suicidio nasce dall’incapacità di costruire una relazione col figlio e di reggere il ruolo di madre. Perché? Possiamo solo rilevare dal testo che l’occhio ferito comanda all’occhio lucido un’acribia descrittiva ossessiva: di ambienti interni ed esterni, di ricette e pietanze, di inventari di oggetti e orrori ordinari, che non dicono qual è il trauma originario, il buco nero intorno al quale si scatena tutto il vorticante turbinio di questo libro.

Alla scena del (tentato) delitto assiste il figlio, la figura più umana e lucida tra quelle delineate, perché capisce l’intreccio perverso e insanabile tra midollo borghese e incapacità di relazioni d’amore della madre, e ne trae l’unica soluzione possibile: fuggire e tagliare ogni rapporto, rendendosi nomade nel Sud del mondo.

Con l’Antropologa, in particolare nella sua versione di Volontaria, la madre trova modo di fiancheggiare non solo la sua pulsione di morte, visto che la esplica in luoghi che ospitano malati terminali; in essa soddisfa anche l’incrocio tra impossibile rincorsa e tentativo di riempire il vuoto dell’Assenza carnefice, nonostante l’appartenenza della protagonista a “un certo mondo che vive sempre autoreferenziandosi, impermeabile a ogni critica e contaminazione…nella sua ovvia separatezza…dal tempo comune”. Mondo di “anodina normalità ultraborghese”, di cui lei è prototipo che “si autoassolve per la sua vanità tenera e folle” e “si salva sempre”. In effetti alla fine “resta in piedi solo lei”, benché tutto intorno crolli e vada verso la morte e non possa evitare lame di sensi di colpa nelle crepe della sua rigida corazza.

Diventa in tal modo personaggio che incarna la resistenza tragica e patetica del mondo borghese, fatto di “solitudine patinata”, di “vicinanza alle cose ostentata e vissuta come unica appartenenza al reale”, con “l’orrore per il vacuo riempito di un flusso di parole, di riti formali, di viaggi all’estero ‘shop and biz’…(abitudini molto alto-milanesi)”. Il vuoto personale è dunque atomo e metafora metonimica di un vuoto ben più ampio. Ed è l’orrore del vacuo ad agire da sollecitazione pneumatica, prima ancora degli aghi di coscienza, alla creazione di Antropologa e Volontaria.

La rinuncia ai nomi (per la protagonista e per il Professore, l’altro personaggio principale che vedremo), sostituiti con i ruoli sociali indicati con le maiuscole, è una ulteriore spia di connotazioni e visioni borghesi. Più che gli intenti consci del Soggetto Scrivente (SS), conta il dato oggettivo del testo, che denuncia a suo modo l’alienazione ‘da’ lavoro (ben più totalizzante di quella ‘nel’ lavoro indicata da Marx) della fase attuale/finale del capitalismo, che spinge al “completo appiattimento dell’uomo nella sua attività lavorativa (o ruolo sociale, ndr), come se questa fosse…l’unico indicatore della riconoscibilità” umana, (Umberto Galimberti su Repubblica del 29/7/2006). Le esigenze compresse di cura e relazioni interpersonali della soggettività riemergono poi in molti modi, non ultimo quello dei tanti che si dedicano al volontariato.

La nostra Volontaria sembrerebbe dunque essere la contestazione radicale (come la fuga del figlio) degli orrori e del vuoto generati dal mondo che la costituisce e la intrappola. Ma la trappola è scattata da troppo tempo, con effetti non modificabili –  se nell’ambito di una vita. L’incessante processo di rinnovamento della vita necessità di molteplicità, nel tempo e nello spazio. La morte ne è parte e non è uno scandalo o un’oscenità in sé, come vista dall’ipertrofico io occidentale. Lo scandalo e l’oscenità sono nella violenza e nel dolore che la causano o l’accompagnano.

Il carceriere implacabile è questo io, del quale bisognerebbe dire “egli va e non sa di essere morto”, morto che genera morte. La povera Antropologa ne è frutto ormai irrimediabile, anche se la sua intelligenza lo sa, proprio dalle parole di una illuminante lettera del figlio – che diventa voce dell’occhio sano materno, lucida punta e intenso intreccio adiacente di pathos, pietas e levità ironica, boccata di ossigeno che insieme alle scene erotiche salvano dalla cupa grevità del resto del libro – recuperata dalla madre: “non posso essere antropologo, ma neppure tu, mamma, hai saputo capire niente della gente…adesso non so cosa tu faccia per placare la fame di condivisione” (pp.174-176). Il figlio coglie il punto. Ma alla condivisione non basta la parte alta, cerebrale, della mente. Perché essa si realizzi, Io e Superìo devono essere anzi ridotti a favore della parte bassa, riferibile all’Es, che agisce con gesti e pratiche del corpo più che con concetti e parole.

La lettera fa così riemergere nell’Antropologa le sue violente e irrisolte contraddizioni: “Il dolore sale dal basso, dall’intestino sconvolto dai crampi, dai conati di vomito che le rumoreggiano in gola” (p.178); e le evidenzia i limiti e l’impotenza del suo Io: “non basta più indagare il peso del rimorso, reggendosi sul precario orlino…che divide passato e futuro”. Ma è il dolore cocente di queste somatizzazioni ritornanti,   rivissuto in scambi sia pure traslati nello spazio della scrittura, che riapre a una molteplicità più umana la sua identità ed esistenza: “la Donna e la Madre, l’Antropologa e la Volontaria, la Donna e l’Amante, vorrebbe affrontare il tempo rimasto senza doversene vergognare”. E  “l’autorizza a violare il segreto” di una sorta di vaso di Pandora di plichi, quaderni e libri rimasti chiusi per anni in una “scatola di cartone”(p.184).

La madre trova così un altro scritto-lettera molto bello, che tra l’altro dice: “Con la mente si sbaglia sempre, quando non la sappiamo porre a confronto con l’istinto, che è la maggiore salvaguardia che abbiamo, che avevamo, adesso non sappiamo più riconoscere l’odore, troppo corporeo, sterilizzato dalla finzione.”, “E lo sai mamma che prima della legge Basaglia i malati li tenevano legati al letto per sei mesi di fila…Ospedali, manicomi, caserme, cimiteri, istituzioni frutto dell’illuminismo, razionali.”(p.185-186). È un processo che smentisce la stessa Autrice quando (rispondendo a Minervino) dice di voler trasferire nei personaggi il suo “dolore freddo”, compre(s)so a livello cerebrale; il dolore come l’amore tocca il sangue e   il metallo fuso va lavorato in tale stato per essere trasformato. La scrittura, se è vera e profonda, va sempre al di là degli intenti e delle architetture del SS.

Il figlio, dalla sua posizione senza dimora, è voce di sapienza e poesia note eppure ignorate dalla madre; che invece di recepire le tensione affettiva, intenerirsi e inorgoglirsi, reagisce con le chiusure del suo ego ipertrofico che non accetta lezioni se non da una Autorità, per cui trasforma i crampi e i conati in urlo: “sei stronzo, ecco cosa sei!, lo so anch’io dei manicomi, lo so anch’io, mi farai finire pazza davvero e così ti sarai vendicato una volta per tutte”, urlo comunque liberatorio che la spinge a ricacciare indietro la pulsione di morte e a dire: “tra un figlio sparito per troppa intelligenza, un amante che muore d’infarto se mi scopa, ho pagato, e adesso di suicidarmi proprio non ne ho voglia.” (p.187).

L’amante in questione è il Professore, clinico dal quale era andata (sollecitata dalla madre, pronuba involontaria) per cercare una cura ai crampi. È definito giustamente dal prefatore “essere agghiacciante e spaventosamente derelitto”, dall’Io, se possibile, ancora più algido, rigido e borghese. Esemplare Morto che cammina, rinserrato e appiattito nel suo ruolo, monumento cariato non solo perché più avanti negli anni e cardiopatico, sposato con moglie-ombra e figli che commisera perché non rampanti come lui, di umili origini ora socialmente affermato. È destinato a sgretolarsi, non a cambiare. Frappone distanza con rigetto di ogni giudizio critico e coinvolgimento affettivo: alla domanda di lei, sempre più coinvolta: “Amore, ti piace se ti chiamo così?”, risponde “No, l’amore non esiste”. E lei, anziché fuggire ne è affascinata, rivelando una sudditanza che è la radice primaria del suo coinvolgimento. Anche se ribatte con delusione “Scherzavo”, tra sé ne è compiaciuta: “il Professore ha recuperato la voce forte di chi sa farsi ascoltare”(p.107).

Tra consonanze psichiche e orizzonti chiusi di speranza, la scintilla dell’eros accende tra due remote profondità una alchimia psicofisica complementare, che entrambi vivono come autentica vendetta e boccata di ossigeno della vita. In lei il vuoto e l’incapacità di essere madre rivela un nodo forse mai risolto col padre (di cui non parla, mentre della madre, che scopre essere stata molti anni prima amante occasionale del Professore, dice “è sempre stata bugiarda”, p.194,). Dunque, due similari immaturità affettive si incontrano e inventano uno spazio di condivisione, grazie al miraggio di un surrogato di Autorità e Potere paterno che soggioga ed erotizza lei. E lui, specularmente, viene sessualmente esaltato proprio da tale parte infantile, adorante (se non masochista), che non vede e non mette in discussione la sua terribile aridità umana, e accetta passivamente ogni limite che impone: è lui che decide quando e come farsi vivo per rendez-vous frettolosi quanto accesi, sul letto o al telefono: “l’erotismo è trasformare l’imperfezione in modello”(p.197), ulteriori parole del figlio a suggello perfetto.

L’unico spazio di condivisione consentito è perciò una relazione erotico-sessuale, che a tratti funziona da vera cura dei sintomi da lei accusati. La storia bloccata o non-storia tragica si connota di tratti grotteschi per i caratteri dell’amante, che somatizza ovviamente al cuore. Per lui il pericolo massimo è l’amore, ma “Si è mai vista un’anima senza il suo corpo?”(p.197), altra domanda del figlio, cui lei pare rispondere parlando con l’amante: “La tremenda malattia che si chiama anima sta incuneata nei corpi malati che anche tu curi, e poi i ferormoni, quelli garantiscono la felicità, non è così?”(p.194).

Insomma, procedendo, lei sviluppa, un colloquio, sia pure a distanza, più con il figlio che con l’amante, che rivela sempre più la sua consistenza di creme-caramelle, per cui l’incapacità di sentimenti d’amore si traduce a livello fisico in tachicardie che lo terrorizzano e rendono pericoloso anche ogni crampo di orgasmo e di gioia sessuale. Povero Tantalo che cura sempre meno il vuoto e i crampi lasciati dal figlio. Tanto che lei cerca di riempirlo con qualche altro partner, altri mezzi succedanei – come il volontariato e la stessa relazione col Professore – mai cure radicali e definitive di quei crampi. Tanto che lei arriva a dire: “Se tornasse mio figlio il Professore sparirebbe del tutto”(p.180).

Lei l’ha sempre saputo: “lavorare in questo posto…per non crepare di dolore”, diventando “ancora più egocentrica di quanto io non sia, così propensa ad assolvermi nel vero crimine che ho commesso”; che “benestante, educata e indagatrice, mi ha condotta comunque, alle soglie della vecchiaia, ad avere come ultima spiaggia, per sopportare il rimorso di una madre disonorevole, l’amore estremo di un uomo malato, col quale facciamo solo sesso elevandolo al sublime…mai un progetto che non sia l’abbraccio disperato e pericoloso, al limite della morte…alla fine delle speranze e delle attese, mi ritrovo romantica, tutto quello che ho sempre detestato”(p.110). Così, la parabola d’amore col Professore degrada e tende a morire prima ancora che arrivi la stretta fatale dei suoi crampi cardiaci, che coincide con la restituzione – guarda caso – di nome e cognome. Come dire, il disvelamento è un brutto segno e porta male, a chi è solo una maschera di sé.

Tuttavia, pur nelle povertà umane evidenziate, le pagine dedicate a questa vicenda sono tra le più belle e vivide e, come detto, contribuiscono in maniera decisiva alla ricchezza di sensi, alla leggibilità e alla levità del libro. Ma non è solo questione di levità, è che l’arte, la poesia, nascono nel momento in cui si riduce il controllo dell’Io e si dà voce a ciò che normalmente non ha parola o parla con altre lingue. Per questo sono proprio queste parti che elevano la qualità di questo libro e ne fanno un’opera di poesia in senso ampio.

Parlare di sesso, soprattutto se in maniera aperta e cruda, trasmettendo eros, gioia e senso di liberazione senza scadere nella sguaiataggine, è tra le cose più difficili. Riesce solo se viene inserita in una complessità che riguarda tutti. Complessità, diritto e difficoltà di toccare la gioia per lambire e ritrovare il senso di stare qui, contro ogni ottusità, singola o collettiva, che ogni momento storico frappone: “felicità come nozione teorica…cui la mancanza di argomenti, propria e altrui, confina con la gioia, fino al momento in cui si ribella e si va a cercare, da sola, la trasgressione, e la studiosa è convinta che per trasgredire occorra il massimo di rigore” (p.69). Ci sono, ci devono essere, le regole e ci sono passaggi e momenti in cui la vita è talmente disperata e minacciata dalla non-vita che acquisisce il diritto di travalicare quelle regole.

Ma la trasgressione massima oggi non è certo quella di carattere sessuale, anche se l’Antropologa pare si riferisca (solo) a essa, quando dice all’amante: “Bravo, trasgredire è l’unico condimento rimasto”(p.195). È vero solo in parte. Il senso più ampio riguarda la speranza, “morta con il nostro secolo”(p.203). La protagonista è schizoide, stato lacerante per chi lo vive, ma utile alla complessità di un testo: fa riaprire porte che sembrano chiuse e vedere l’altro versante: “Secondo te la speranza è morta del tutto, ma no, anche se trovo di pessimo gusto sperare non riesco a farne a meno neppure io”, “antropologicamente parlando…significa non appartenere alla classe dominante”. L’eros, liberato da moralismi vetero-cattolici e non riferito al solo ambito sessuale, è una delle porte che apre capacità e pratica di relazioni gioiose, ricostituisce energia e diventa azione primaria per non arrendersi a essere malati terminali entro una civiltà terminale. Per ritrovare un contatto col “mare magnum della speranza”.(p.202).

Questi libro (ci) parla di tutto questo, da un versante laico e materialista. E non sono molti i testi, oggi, che lo fanno.

Avrei voluto occuparmi da tempo del multiforme percorso espressivo di Fausta Squatriti, ma forse ero frenato dall’eccesso (dal punto di vista delle mie ricerche di Adiacenza) di concettualizzazione e razionalismo. Le resistenze sono state vinte da questo suo (primo) romanzo, per le ragioni che ho cercato di mostrare attraverso la lettura. Certo, è quasi inevitabile leggerlo con un occhio laterale agli altri campi e forme espressive in cui si è articolata e svolta la sua fame di creare relazioni tra le proprie ossessioni e il mondo. Forme e c(r)ampi sviluppati in arti visive (pittura, scultura e fotografia) e scrittura (saggistica e poesia). E di cui si avverte la presenza nelle anse e nella struttura e di questo testo, sia in innesti o evidenze (vedi la serie di fotografie inserite, seppure con risultati tipografici non adeguati alle attese somme di sensi e senso), che nell’impasto fine del lessico o in insenature che aprono squarci saggistici, meticolose descrizioni, sintesi folgoranti.

Non so (e probabilmente non lo sa nemmeno l’Autrice) se questo rimarrà il primo e ultimo tentativo di misura con tale forma specifica o se avrà seguiti e ulteriori cantieri. E uso questo termine non a caso. Perché il libro appare come un cantiere a cielo aperto, immagine che corrisponde ai caratteri del suo fare: di torrente fermo e in-concluso, di vulcano irrisolto tra brontolii, lapilli e conati. Che in tale paradosso tende ovviamente a esaltare moti di vortice verso il basso, di una immobilità furente che tra scavi ed emersioni a tratti pare ampliare i bordi ma resta prigioniera di sé, statica e implodente all’infinito nelle ossessioni che la generano.

È persino superfluo dire che siamo ai moti di una scrittura che riduce o azzera il plot narrativo per espandersi in senso verticale o, meglio, vorticale, tra ellissi, flussi di coscienza, esasperazioni concettuali e agglutinamenti barocchi. La ricerca letteraria del ‘900 ha sperimentato forme nuove di narrazione e reinventato canoni di non-romanzo, pur continuando a usare il nome originario di una forma che dopo l’800 non poteva non entrare in crisi.

Chi ha una visione materialistica e non spiritualistica di ogni fare espressivo sa che i suoi percorsi non si sviluppano nel vuoto o in astratto, ma risiedono in cause che congiungono genialità singola e contesti storicosociali. E nel ‘900 c’è una catena interminabile di mutamenti trionfanti, derive e disastri epocali prodotti dalla fase estrema del capitalismo globalizzato che, quanto più è gestito da una borghesia e un pensiero unico ai più invisibili o senza alternative, genera l’angoscia di un treno privo di controllo. Quanto più l’oltre appare inimmaginabile e gli unici obiettivi possibili sembrano nient’altro che repliche dell’esistente, fino a far teorizzare la fine (o il nulla) della Storia, tanto più tale fine assume contorni, ambientali e sociali, sempre più violenti e apocalittici.

Per misurarsi con tale capovolgimento e perdita di senso, dopo secoli di storicismi ed escatologie laiche e religiose, occorrerebbero robusti garretti di opposizione sociale e potenti leve di rielaborazione di pensiero. Allo stato non ci sono né gli uni né le altre e non si può pensare di far fronte a tali vuoti con le varie forme di espressione. Si può però capire perché queste ultime tendano, in prevalenza, a certi esiti: ignorare o rimuovere i grandi cambiamenti intervenuti nel quadro, inventare maschere che replicano rarefazione o perdita di senso, giocare con parole e altri segni in prossimità del proprio ombelico, ossessionati dalla morte quanto più ci si sente al posto di Dio, sia pure in un’arte che fa sempre più rima con (mondo) a parte. Ora c’è uno iato, tra pensare di salvare la vita con le proprie distillazioni e l’avallo di una parnassiana quarta dimensione che trasmette resa e sostanziale indifferenza.

Questo (non)romanzo di Fausta Squatriti si colloca in tale iato. E assume valore nella misura in cui riesce a far acquisire ai personaggi e alle vicende narrate senso metonimico rispetto ai contorni e al degrado di condizione umana (fisico-mentale e relazionale) che essi favoriscono. La sua tessitura incorpora, con “eleganza di forme …e…ricchezza del lessico”, “la scrittura sperimentale” (dalla prefazione di Mauro F. Minervino) prodotta dal ‘900. Tendenze formali e teoriche elaborate nei vari ambiti (arti visive e scrittura) dalle avanguardie, in particolare della seconda metà del secolo scorso; che, con i loro pregi e limiti, sono state referenti e alimento formativo nella ricerca di percorso e sviluppo autonomi di Fausta Squatriti.

Lo sviluppo narrativo è affidato preminentemente a una voce esterna, quale deus-ex-machina e SS ineffabile di cui Minervino (si) chiede: “Chi scrive una storia simile dove sta? Si chiama fuori? O partecipa al nonsenso, lo attraversa insieme al dramatis personae di individui che come lei galleggiano sulla vita come fosse l’eterno presente, un sempre senza spessore e svuotato di responsabilità?”. Domande giustificate quanto più si concepisce il fare artistico in genere, come azione conoscitiva di un eros che vuole creare spazi di condivisione umana. Il che implica evidenziare orli, limiti e livelli di senso, rapportandoli al contesto storicosociale. In questo sono stato facilitato dai caratteri del testo, cantiere a cielo aperto e cupo, che rispecchia con la sua “dialettica cinica e tuttavia intensamente partecipata del suo narrare per paradossi” l’orizzonte in cui viviamo.

Ma alle domande del prefatore può essere data anche un’altra risposta, più semplice e nota: ogni opera di narrativa è sempre una “biografia contraffatta” (come è detto in quarta di copertina del recente romanzo di Walter Siti, Troppi paradisi, Einaudi). Per dirlo basta leggere le risposte date dall’Autrice in coda alla prefazione, dalle quali emerge con chiarezza che in primo luogo la protagonista, ma anche il figlio, il Professore ecc, sono in sostanza tutte figure e voci dell’universo mentale di chi scrive.

E voglio chiudere con questo brano tra i più intensi e felici, spicchio di tale universo appuntato tra resistenti capacità di stupore e sguardo critico, di Bianca, nome alla fine dato all’Antropologa: “intanto i legni a debita distanza inquadrano pezzi di cielo che così demarcato diventa artificiale, squadrato ed esaltato dal suo stesso limite appena trasecolato in quello successivo, e in quell’altro ancora, mentre rimane protetta dall’oscurità che ingloba il mondo ogni sera, come divinità azteca la collina di speci mediterranee protette, e la vista del castello con poche feritoie illuminate, e la donna si chiede che gusto ci sia, per i suoi ricchi abitatori, ad essere in uno dei luoghi più belli del mondo per vederne il fulgore da minuscoli tagli nelle spesse mura.”(p.216). Sguardo del terzo occhio, da cui scaturisce la complessità della poesia, che trova anche da una stretta feritoia bordi di sé e del mondo per inventare, al centro del vortice che non si placa, momenti di pace sospesa.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *