Sulla poesia di Cristina Annino
Nadia Agustoni
A chi scrive dall’esilio o dalla solitudine, da un’esperienza del margine vissuta a tratti collettivamente e quasi sempre individualmente, l’incontro con chi è già di là del margine, forse senza averne toccato l’alterità, è un arduo confronto. Uso parole come esilio, margine e alterità perché ognuna racchiude uno dei significati che hanno investito scrittura e vita di alcune generazioni negli ultimi decenni. Ci siamo affidati alle parole perché sono il luogo in cui immaginare l’utopia diventa possibile, ma l’utopia è ciò che non è mai presente, più simile al riattraversare il confine da parte a parte ogni volta, che a una concretezza. Qualcuno, dopo averle amate, ha rifiutato le parole, da principio con la forza del grido e in seguito facendo suo il diniego di un “Bartleby”, ma nonostante tutto quel “di là” utopico ci è rimasto precluso. Per questo è difficile sentire nostro questo tempo, ma cosa voglia dire scoprire un altro tempo, cosa compiono le parole quando hanno la presenza della propria tragicità e ci portano un’esperienza completa dell’umano, noi possiamo saperlo da altri.
Quando la libertà ha profondo significato noi siamo liberi nel luogo di noi stessi e nostro è l’esperire dalla vita una poetica. Le landmarks dell’opera di Cristina Annino sono degli incroci in cui confluiscono i temi a cui lavora con la “selvaggia pazienza” del poeta per le parole.(1)
L’interrogazione poetica di Annino ha come forte momento di conoscenza l’amore. Ma questo amore va pensato in senso dantesco, quell’interrogare le cose con “intelletto d’amore” che nulla concede al sentimento assai più facile che usa l’amore come pretesto, ma senza la simpatia di chi vuole conoscere per ciò su cui indaga. Se per Keats il poeta è la “più impoetica di tutte le creature”(2), Cristina Annino sembra credere che anche la materia con cui il poeta lavora è o deve essere impoetica. Pertanto vediamo agire in tutta la sua opera quell’attingere al “deposito di immagini cieche – che si tratta appunto per il poeta di risvegliare”(3), quell’incredibilità dei versi che ci colpiscono con figure e discorso mentre aprono crepe nel nostro presente e ricreano il reale. Lo ricreano con parole precise, con una esattezza chirurgica che ad Annino è data dall’attenzione a ciò che descrive, ma nello stesso tempo si coglie l’intera gamma dei colori sulla tavolozza (non a caso è anche pittrice) e un significato che dal particolare sa astrarsi fino a comporre un intero universo, complesso ma non indecifrabile, piuttosto sorprendente nel costringerci a seguirla intuendone i movimenti, gli scarti, le asperità. Tuttavia e forse proprio per questo, l’autrice ci restituisce il senso di una tenerezza per ciò che è, come è; ci parli di animali (il cane miracoloso, il gatto Koko, la scimmia ecc.) o della madre, Lina, a cui deve quella libertà di dire le cose, di raccontare con immagini mai superflue, toccando i nervi scoperti del lettore.(4)
Dopo libri importanti, di cui Sereni e Fortini tra gli altri intuirono il valore e che ci fanno scorgere il mondo personale dell’autrice, ricreato con intelligenza di scrittore che ne preserva l’autenticità, il nucleo più alto della sua opera, che ne rivela la coerenza, ci arriva con “Casa d’aquila”, Levante Editori 2008, dove Annino continua idealmente un discorso su presenze molto amate e imprescindibili del suo fare poetico. “Ottetto per madre” apre la raccolta con versi che subito ci danno il significato di una perdita incolmabile: “Senza pace, con pena e senza girarmi / mai, pestando / mica pepe o caffè ma gardenie, io amo / la mamma e i topi; li metto insieme chissà / perché.”(5) Quindi immediatamente intuiamo che il poeta è come sospeso tra dire troppo e quel dolore che è anche inquietudine e non gli dà pace e fa si che pesti gardenie. Immagini di una potenza controllata, che ci raggiungono e ci portano a pensare a quell’esergo di Céline in calce alla pagina: “Cristo madonna! a chi può importare se uno ama la propria madre o no!” (6) Ma è l’amore della madre per la figlia che attira l’attenzione in quel dare libertà dentro gli affetti, in un sentire partecipe. “Lina” dà alla figlia bambina l’ascolto e non la mortificazione; la incoraggia trasmettendole il senso della propria forza che nel poeta diviene l’unicità consapevole e perseguita di una voce che non si rifà che a se stessa. Annino, non leggendo poesia, non ha debiti verso alcuno. Non ha somiglianti. Né si può ricondurla a genealogie che possono aiutarci a capire altri percorsi di autrici del novecento. Gli scrittori che conosce e di cui parla, poco del resto, appartengono alla letteratura americana o del nord Europa (Miller, Edgar Lee Masters, la Beat Generation, Hamsun). In una mail del 9 febbraio 2010 mi scrive di “Martin Eden” libro letto nell’adolescenza fino a rompere l’intelaiatura delle pagine. Lettura condivisa dalla madre, a cui, a un certo punto, dovette toglierlo di mano.
Quarant’anni di poesia hanno lasciato traccia durevole nonostante per due volte l’autrice abbia scelto un quasi ritiro dalla letteratura. La riscoperta di questi anni, dovuta all’accortezza critica di Stefano Guglielmin ce la riporta con accresciuto interesse per quanto ha raggiunto in maturità.(7)
Pur rimandando nelle note a una mia precedente recensione del “Magnificat” ne riprendo qui lo spunto per continuare il discorso sulla libertà, aggiungendo che se alcuni autori, con le loro parole, sono parte integrante della nostra libertà, è nella capacità di incontrarli e nel trovarci spaesati rispetto alla loro diversità, i cui caratteri ci sfuggono, che noi guardiamo con più lucidità alla fatica del nostro percorso il cui rischio non è tanto una perdita di riferimenti, ma un ancorarci a luoghi comuni che possono portare alla normalizzazione dentro l’assurdo del presente o all’eccedere sotto la spinta della rabbia esistenziale dissipando o non vedendo altre possibilità di cambiamento.
Cristina Annino scrive con un io maschile, da sempre presente nella sua poesia. Poesia antilirica e lontana da ogni compiacimento, pur usando la vicenda autobiografica come materia prima. La capacità di trascendere il personale, apre però squarci che rivelano la cosmologia interiore. Monica Farnetti(*) pensando a certe scritture dice che: ”[…] si nutrono – né potrebbero rinunciarvi – dei molteplici legami con l’umano e il non-umano, il vivente e l’inorganico, che si danno letteralmente come altrettante cosmologie, e che non sono mai dimentiche di costituire il tramite grazie al quale la vita tutta diventa pensabile e diventa vivibile”.(8)
Il tempo interiore nella poesia di Cristina Annino si accompagna alla tragedia dello sguardo. In “Gemello carnivoro” 1998, lo avvertiamo con l’urgenza che sembrano avere alcuni versi, mentre l’impatto di certe poesie, ne cito alcuni titoli “Andante pesante con abbandono”, “L’arte di ricomporre cose connesse”, “Indiano al fiume” e “Anatomia in fuga”, ci ricorda con Keats che: “Il genio della poesia deve giungere da solo alla propria salvezza in un uomo: non può maturare a forza di regali e precetti, soltanto grazie ai sensi e a un’attenzione vigile – Ciò che è creativo deve creare se stesso –“ […].( 9)
La fuga dalla realtà dell’autrice è più apparente che di sostanza. Annino sceglie il privato come luogo d’indagine per giungere al mondo e l’ombra come luogo di osservazione, ma dicendoci subito che il riparo è solo una parentesi, perché il poeta è sempre esposto alla realtà a cui l’autrice chiede quasi l’impossibile: lasciarsi ricreare per trovare un centro nella creazione, nell’insensato che nel quotidiano traspare, mentre cerca parole che non sono solo flusso di coscienza, ma un tentativo di serbare un ordine interiore che sia la verità delle stesse parole.
Cristina Annino in poesia sembra non riconoscere l’immoralità. E’ l’attenzione a cui i suoi versi ci conducono che ci fa scorgere cosa portino con sé il male e il bene nelle persone. Senza giudizio, se non nell’implacabilità della voce, ci mostra la misura dell’umano e ci dice che la sola innocenza è nel dolore animale: quel dolore a cui non è concessa parola. Ma è lo stupore che la sua poesia ci suscita a rivelarci che quanto la lingua unisce, è il poeta stesso, nel suo discorrere a trovarlo terribile e ricordo qui dei versi dall’antologia “Nuovi poeti italiani”, Einaudi 1984: “C’è gente/ che si sdraia negli altri uccidendoli di parole […]”(10)
Annino non “si sdraia negli altri” e non usa le parole fingendo un’innocenza cui non crede; adopera le parole come clave e se con Ryszard Kapuściński sappiamo che un albero può essere un bastone per torturare e uccidere così impariamo che: “Piantando/ un albero certo/ si pensa all’uomo più esattamente.”(11)
Quanto esattamente possiamo solo congetturarlo. Annino ci fa intuire bassezza e grandezza dell’umano, ma non ci consola con un’ideologia che ci dica come dovremmo essere.
Infine un’immagine, unica per bellezza, di quello che un io non identitario può dischiuderci, con le parole di Virginia Woolf, un’autrice a cui non smettiamo di tornare:
“…Orlando respirò sollevata, accese una sigaretta, e per un paio di minuti mandò buffate in silenzio. Poi, esitante, come se la persona che nominava potesse trovarsi assente, chiamò: “Orlando?”. Perché se ci sono, mettiamo, settantasei ritmi diversi che battono all’unisono nello spirito umano, quante diverse persone – Dio ci aiuti – non albergano in un momento o nell’altro nello spirito umano? Duemila e cinquantadue, dicono alcuni. Una volta che è così, è la cosa più naturale del mondo che una persona, non appena si trova sola, si chiami “Orlando?” (se si chiama così) e, con ciò intende “Andiamo, su! Sono arcistufa del mio io presente. ne voglio un altro”. Donde gli stupefacenti cambiamenti che osserviamo nei nostri amici”.(12)
Quante convenzioni Cristina Annino riesca ad eludere, senza quasi ce ne accorgiamo, rimane questione aperta. Non posso tuttavia pensare alla sua opera che collocandola nel futuro. Appartiene al luogo dove stiamo andando. Chiudo con un piccolo discorso-poesia di Czeslaw Milosz:
“Sono un piccolo uccello su un enorme albero felice. / Albero che non cresce nel bosco, poiché esso stesso è il bosco intero /. In lui le mie origini, la memoria e l’afasia, / perché non vuole che gli si dia alcun nome.”(13)
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Fonte: http://rebstein.wordpress.com/2010/08/30/le-parole-che-dobbiamo-imparare/#more-29676
Note
(1) Da un discorso di Adrienne Rich sul fare poesia.
(2) John Keats, Lettere sulla poesia, Mondadori, 2005, pag. 130.
(3) Nadia Fusini, Il libro dell’interrogazione poetica, introduzione a John Keats, op. cit., pag. XXI.
(4) Rimando a un mio precedente intervento in Nazione Indiana del 15 febbraio 2010. In particolare: “Già in una raccolta precedente “Gemello carnivoro” l’autrice le rende l’omaggio della trasmutazione alchemica, un’eucarestia in cui il poeta (Annino in poesia usa l’io maschile) è corpo e vita di Lina, costantemente sentita indivisa dalla propria mente e fisicità: “Vivo / doppiamente com’è un gemello carnivoro. / Non ho altro / scoppio nell’aldiquà che questo / tornarle addosso, essendo io il suo / io primitivo”. Un amore assoluto e dichiarato con parole che disarmano anche chi con l’assolutezza dell’amore filiale ha conti aperti”.
(5) Cristina Annino, Casa d’aquila, Levante Editori, 2008, pag. 11.
(6) Ibidem, pag. 11; esergo da Céline, Viaggio al termine della notte.
(7) Stefano Guglielmin, Prefazione, in Magnificat. Poesie 1969-2009, Puntoacapo Edizioni, 2009.
(8) Monica Farnetti, Tutte signore di mio gusto, La Tartaruga Edizioni, 2008, pag. 8.
(9) John Keats, Lettere sulla poesia, op. cit., pag. 129.
(10) Cristina Annino, L’essere e la morte, in Nuovi poeti italiani, Einaudi, 1984, pag. 23.
(11) Cristina Annino, Hamsun, in Nuovi poeti italiani, op. cit., pag. 6.
Per quanto riguarda Ryszard Kapuściński il riferimento è ai versi di “Quando si progettano i modi di uccidere”: “finché sulla superficie della terra / rimarrà un solo albero / gli uomini moriranno assassinati da randelli”. In Taccuino d’appunti, sezione Notes, Forum, 2006.
(12) Virginia Woolf, Orlando, Mondadori, 1982.
Rimando anche all’intervento in Nazione Indiana segnalato sopra, in particolare: “Abolito da subito l’io lirico, con un balzo di cui nemmeno ci accorgiamo tanto è presenza, Annino si situa in quella scrittura che Virginia Woolf auspicava. Orlando in lingua italiana, Annino ci dice che la libertà è essere subito quello che si è. Nessun segno è più autentico di questo”.
(13) Czeslaw Milosz, L’albero, in Il cagnolino lungo la strada, Adelphi, 2002, pag. 183.
(*) Ringrazio per i preziosi suggerimenti Monica Farnetti, alle cui riflessioni devo alcuni significativi passaggi di questo scritto.