NEL POST-MODERNO, NELLA SUA FASE DI STAGNAZIONE

Pubblicato il 4 luglio 2011 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

OGGI, NEL POST-MODERNO, NELLA SUA FASE DI STAGNAZIONE

Antonio Spagnuolo, Misure del timore, Kairos, Napoli 2011

Erminia Passannanti, Mistici, Ripostes, Salerno 2003

Giorgio Linguaglossa

Oggi, nel post-moderno (nella sua fase di stagnazione), la democrazia dell’«esperienza vissuta» ha portato dritto al minimalismo, inteso come campionario denaturato di esperienze significative, al trionfo del «privato», della «cronaca», del «quotidiano» (il pronto-fatto) assunti acriticamente in quanto considerati esperienze non reificate che si possono travasare nella pagina scritta come oggetti del ready made. Il discorso poetico, rimasto privo di un pubblico e di interlocutori accreditati, si è trasformato in un repertorio di chatpoetry e di talqualismo, di buonismi, di crudelismi e di banalismi.

Nel museo immaginario di una cultura divenuta globale alla «poesia» viene accreditato un immenso simulacro di immagini, uno sterminato album fotografico di figuralità al quale attingere liberamente. È una situazione paradossale: la poesia (leggi l’arte) ha soltanto un campo smisurato di «crediti» cui attingere e nessun «debito» da garantire. La poesia si trova così in mezzo al mare magnum della propria «irresponsabilità»: è irresponsabile in quanto non «deve» niente a nessuno, la poesia è «libera», finalmente, perché è stata liberata dal Moderno, cioè da quel sistema della comunicazione universale (leggi mediatica) che ha prodotto il «museo» del pronto-fatto universale. Infatti, la neoavanguardia, l’ultima post-avanguardia che ha teorizzato e praticato il «museo», è poi caduta ingenuamente nelle sue spire, non potendo prevedere che una pratica luddistica e ludica del linguaggio poetico avrebbe portato acqua al mulino del Moderno.

La poesia contemporanea si trova così davanti uno sterminato campo di possibilità espressive: una sterminata galleria di figuralità, una infinita serie di simulacri, di fantasmi, di lapidi che attendono una convocazione. Una storia delle immagini priva di genealogia storica, priva di uno storicismo è, di fatto, una preistoria, un qualcosa che sta al di qua della «nostra» storia e che non ci riguarda più. Gran parte della poesia contemporanea parla di qualcosa che non ci riguarda più, che non fa parte della «nostra» storia ma di questioni meramente «private»; di fatto, non si affrontano più «tematiche» ma tematismi; non si ha affatto alcuna cognizione del «discorso poetico»; al suo posto si hanno «discorsivismi» e «poeticismi» (nel migliore dei casi opportunamente desublimati); in luogo della «narratività» si hanno «prosasticismi» e decorativismi; in luogo dei formalisti abbiamo neomanieristi e neometrici: una schiera epigonica noiosa quanto stucchevole.

Questa antologia (1985-2010) di Antonio Spagnuolo dal titolo Misure del timore (Kairos, Napoli 2011) ci consegna un autore significativo della poesia contemporanea (nella versione a sud del Garigliano). A ragion veduta, oggi, possiamo affermare che nella poesia di Spagnuolo si rinviene una sterminata gamma di figuralità e di possibilità espressive, lessicali e semantiche come quasi presso nessun altro autore. L’inquietudine stilistica del poeta napoletano è la spia di una inquietudine (e di una instabilità) più generale che ha attraversato e attraversa tuttora la poesia italiana almeno da trent’anni in qua, è la spia che non c’è nulla di stabile nel Dopo il Moderno, men che mai lo sperimentalismo, diventato una attività desultoria che ciascuno si fabbrica in casa secondo le proprie personali esigenze e inclinazioni. Spagnuolo sconta sulla propria pelle la caduta tendenziale del saggio di profitto della cultura dello sperimentalismo adottando, in sua vece, uno sperimentalismo privato, cinetico, magmatico, che ruota attorno al feticcio dell’«io» proprio come una danza tribale ruota attorno al sacro fuoco delle vestali. Allo stato attuale delle cose poetiche, lo sperimentalismo privato sembra essere quel terreno ex demaniale privatizzato per usucapione e per fideiussione bancaria. Alla fine, lo stile, ma più che parlare di stile io direi la stilematica di Antonio Spagnuolo, viaggia, intrisa di dubbi, breakfast e di aperitivi, in direzione del «Nuovo» un po’ come un palombaro può viaggiare nell’empireo degli spazi galattici con quella ingombrante tuta adatta alle profondità delle vertigini marine.

Erminia Passannanti Mistici Salerno, Ripostes, 2003

L’aspetto più evidente della scrittura poetica di Erminia Passannanti è la cifra dell’ironia («sotto le direttive di Morfeo/ mi comporto benissimo. Nessun dislivello»), messa bene in luce, nella Prefazione, di Pietro Castaldi. Sarà bene dire subito che il principio ironico della Passannanti risiede soprattutto nell’impiego calibrato della «ipotassi» che, insieme all’uso equilibrato e misurato del sintagma nome-aggettivo, ne denuncia non la natura «innica» quanto quella antifrastica, quella dell’impossibilità del genere innico, quella direzione che la poesia del Novecento non è riuscita ad imboccare (su una linea Campana-Rebora-Luzi-Zanzotto di stampo «orfico-sapienzale» – letta recentemente da Giorgio Agamben in opposizione a quella «esistenziale» riassumibile, schematicamente, nell’opera di Montale – ). Ecco per esempio, la poesia di apertura:

Volevo scrivere una lirica …/Volevo scrivere una lirica sugli organici passi / Sulle prassi ufficiali delle poetiche moderne / Volevo narrare dei generi delle insignificanze / Nel lembo religioso dell’esotica rima // Dell’allitterazione e della metafora / Nell’epoca prima volevo descrivere / La torta confraternita senza trascurare / L’impatto del ritmo che batte sull’uscio // Volevo osteggiare il veto a inchinarsi /Dinanzi al sepolcro del candido Lazzaro / L’infelice appestato che chiamano verso / Non è errato il suo tanfo perverso / Ne apprezzo l’olezzo / Sposto io il masso

È il resoconto della presa d’atto dell’impossibilità, dopo il congedo del Novecento, di proseguire il genere innico. E allora non resta altro da fare alla Passannanti che spostare «il masso», perché «nessun chiodo penetrerà in queste pareti di calcestruzzo (…) la mia richiesta d’identità non è istanza di libertà» e andare «contro la folla di spettri alla mia porta».

Le parole della Passannanti, che vengono dopo quelle pronunciate dal Montale che parlava come un «ectoplasma», indicano la distanza invalicabile che separa il discorso poetico dal mare dei linguaggi funzionali e funzionalizzati dell’universo mediatico. Dal lago della interiorità infirmata e ammutinata le parole sortiscono deformi, gibbose e parole simili alla preghiera (vedi «La Sacra Famiglia»

fammi essere vera Signore / per la santità del tuo cuore / per la beltà della piaga / che s’apre nel tuo petto / per il rispetto / che porto a Mio Padre // molte lacere ore e sudati consessi / questi affanni han reso poesia / non ritenermi ria / chiedon venia i miei versi…

In questa raccolta della Passannanti abbiamo una sorta di diario intellettuale della smobilitazione dell’«io» che vuole sì autoconservarsi e si aggrappa alla Temporalità ma che vorrebbe anche andare al di là del canto lirico (e antilirico); l’alienazione del piano del linguaggio è la replica dell’autrice alla progressiva perdita di luogo (e perdita di status) del discorso poetico, dinanzi al quale la scrittura poetica tende a perdere le caratteristiche di «chiusura» per assumere quelle delle scritture «liquide» e «superficiarie» del Moderno:

nessun chiodo penetrerà in queste pareti di calcestruzzo / l’intimo perimetro delle mie occasionali / corrispondenze e assonanze, esperienze / che solidificano ed erigono le loro metafore. (…) piuttosto sogno di reclusione, speranza / di coesione tra sabbia e cemento, / ingenua aspettativa / che la struttura regga…

C’è ancora purtuttavia la tendenza all’hilarotragoedia ma c’è anche la consapevolezza della accettazione di una stilematica esistenziale a pendenza dichiarativa: «La vita – questa che vedi – / è il male / posto / ai limiti comuni».

Così, questa poesia si consuma, ed è il suo punto di maggiore energia, tra una «eresia» e una «profezia», tra la tendenza alla contabilità salmodiante della «preghiera» e la consapevolezza dell’alienazione (per un massimo di criticità) dei linguaggi poetici contemporanei.

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