Alla Poesia di Annamaria De Pietro
Riprendo due, tra i miei saggi critici, dedicati alla poesia di Annamaria: quello che segue, sul suo Primo Libro delle Quartine, del 2015, e in fondo (link ) Il labirinto, in Sotto la Superficie, letture di poeti italiani contemporanei, (Milano, 2004).
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Lo scrigno salvato di Annamaria De Pietro
In “Rettangoli in cerca di un pi greco – Il Primo Libro delle Quartine”
Marco Saya Edizioni, Milano 2015.
Adam Vaccaro
Sono due le aree di esperienza, quali possibili fonti di una forma e di una espressione letteraria: quella vissuta al di fuori di ogni contesto letterario, e quella alimentata da quest’ultimo. Sono due ipotesi estreme e astratte, che non possono essere mai esclusive. L’esperienza col mondo della prassi non può non esserci, come l’esperienza con quanto la scrittura ha accumulato nei secoli. Ma è questione di misure. Nel caso di Annamaria De Pietro, anche non conoscendola o non frequentandola, i suoi testi non lasciano dubbi sulla preponderanza della fonte letteraria.
Ho seguito sin dall’inizio la produzione di Annamaria, sviluppata in forme e rami diluviali e variegati, ma sempre connotati dal timbro di un incrocio mobile tra ricerca ossessiva di precisione, fascinazione sonora e ricchezza barocca. I pregi della sua scrittura si sono articolati e sviluppati nell’arco ormai ventennale della sua ampia produzione poetica, entro tale preponderanza e quadro esperienziale, e entro tale inesausta ricerca creativa.
Scrissi, a proposito di Venti fusioni a cera persa (Manni, Lecce 2002) che in particolare con quel libro Annamaria trasmetteva l’immagine di “uno strano incrocio tra un altare e un banco da lavoro di artigiano, di falegname o di faber”, e se “Il fautore, fattore, dell’altare è naturalmente figura sacerdotale, che pretende di incarnare i segreti dell’ignoto…, l’artigiano è colui che si muove qui, nelle fatiche del quotidiano, tra lampi del corpo e pietre del cuore, e per questo sa dare forma concreta all’evocazione, controllandone/ garantendone l’accuratezza esecutoria”. Termine che, sottolineavo, aveva anche un “carattere omicida, anzi di ‘matricidio’ e/o ‘parricidio’ del gesto della scrittura”, di cui De Pietro “sottolinea il re-inizio e l’iniziazione ai misteri più profondi della vita”; e “per questo la scrittura è ‘superba, assassina per buon diritto’, che nel processo generativo agisce ‘a tutto imponendo, violentemente, il suo patrimonio genetico, la sua serie formale’”.
“Dunque, accento posto sull’arte che nasce dalla morte, dalla perdita irreparabile (come la cera del modello da cui emerge l’oggetto fuso con tale tecnica) di ciò che ne è fondo epifanico…Arte del resto omologa a ogni spietata fenomenologia del processo vitale”: il “seme deve essere distrutto perché nasca la nuova pianta” e “milioni di spermatozoi devono morire per salvarne uno solo, uno solo alla volta. È la radice biologica della perentoria esclusività dell’amore…almeno, così come si è costituita nella nostra cultura. Allo stesso modo, la scrittura procede e costruisce le sue forme, uccidendo e scartando milioni di possibili parole per sceglierne e salvarne una, una sola alla volta.”
Chiosavo, però, che “sono gli accenti che contano. Cioè il punto di vista. Dello stesso processo possono essere ostensi i cardini (gli stessi) sul versante della vita o della morte”. E se “il sacerdote tende a illuminare lo scacco di ciò che precede”, per mostrarne “tutta la riduzione a residuo e nulla”, per “esaltare…la suprema e definitiva nascita, che si innalza autonoma e (quasi) sprezzante su ciò che c’era prima e ciò che ci sarà dopo”, salva dal “rischio della deriva di onnipotenza la presenza dell’artigiano, del faber. Che conosce l’umiltà e i segreti della materia. Che sa come ogni materia, anche quella fatta di semi neri sulla pagina, non viene dal nulla, viene da un immane calco ignoto, irraggiungibile e indimenticabile, cui la sua opera non può smettere di continuare a tendere…. Pena una perdita totale di misura di sé e/o di totalizzazione e ideologia del testo.”
Ecco, ho avuto bisogno di un passo indietro, lungo il percorso di Annamaria De Pietro, per tentare di proseguire su questi ugualmente impietosi sassi aguzzi e pietre preziose, accumulate nello scrigno costituito dalle 310 Quartine (accompagnate da glosse in prosa) di questo ultimo libro. Che peraltro annuncia minaccioso di essere solo il Primo.
Anche in queste, la forma e la ricerca continua e cambia. Con una interessante novità. E non mi riferisco tanto, o non solo, all’abbinamento di versi e chiose in prosa (pur sempre di impasto poetico). C’è sempre il sacerdote che dispensa esercizi spirituali volti alla perdita e al nulla, ma viene spesso relegato ai margini di arzigogoli barocchi e castoni che resistono come rivendicando la loro necessità di trono di pietre scolpite, non solo chiuse in quartine, a volte caudate. Che comunque non rinunciano a lampi di brillio altezzoso, dopo il lavorio del togliere del faber. Il quale sa l’arte di mettere al primo posto l’accento su ciò che resta qui, sulla bellezza che ci alimenta, non fuori dal mondo, ma nella nostra precarietà insolubile, quasi rivendicando essere unica vivida nostra speranza.
Ciò detto, anche l’artigiano è ricco di sapienza e segreti materici che non è disposto a cedere facilmente, ancora più geloso, forse, delle pantomime e dei vortici sacerdotali: lima e offre la sfida di una esattezza che pare a portata di mano, ma è una “rosa libera e contraria” (p.105), un ologramma che non puoi afferrare né tantomeno trovarvi mai il quid o pi greco degli abissi del suo cuore, che sa tuttavia trafiggere il tuo col suo lampo e mistero, mentre ti sorride e consola. Molto altro ci sarebbe naturalmente da dire dispiegando le scaglie e i mattoncini di lego, richiamati dall’immagine in copertina, che compongono ognuna di queste pagine, divise tra due forme simili e diverse nella loro inesausta ricerca di ciò che va oltre ciò che c’è. Ma i passi vanno fatti uno alla volta. E di quello che segue nessuno-ulisse sa dire.
Non posso tuttavia evitare rilievi su specifici aspetti formali che sembrano superficie, ma sono invece materia del corpo profondo della struttura complessiva del libro. Detto in altri termini: se parli di Cesare e ambisci toccare il suo cuore, o se cerchi il fondo di una bottiglia di vino, non puoi non diventare (un po’) anima di Cesare o di vino, un po’ divino, direbbe il sacerdote di cui sopra, prima vittima della sua arte di rovesciare e scivolare all’insù.
Soccorre quel diavolo di artigiano che lo riporta in giù per comporre una danza che tra vertici, vortici e palidonie, afferma, per poi ruotare e vedere cosa dice il rovescio, e alla fine rimanere magari senza fiato da non poter dire e fare se non l’orlo dell’indicibile, e quindi una domanda. È infatti con una domanda che si chiude il libro. E come poteva essere diversamente, se il postulato era la quadratura del cerchio? Il cerchio si chiude perciò…aperto alla vita. Per fortuna, nostra e del Soggetto Scrivente (SS). Altrimenti la struttura del libro avrebbe contraddetto il suo senso, di combattimento e resistenza alla morte (come esplicita l’ultima glossa di pagina 160). Una contraddizione che ovviamente l’artigiano non avrebbe concesso, alla hybris e ai deliri di assoluto e di onnipotenza sacerdotali. È questo il cuore aperto, la caldera scissa, schizoide e insieme pedaggio inevitabile della fonte liberante che sa, come detto, aprirsi trovare e godere di momenti di adiacenza, da cui sgorga la “palidonia” (p.160) esplicita ed implicita di due verità che non potranno mai comporre la Verità.
A tale proposito, riprendo sinteticamente in una nota alcuni nodi di senso analizzati nel mio saggio Corpi d’amore, in La Poesia e la carne (A.A.V.V., La Vita Felice, Milano 2009). (1)
Puntualizzazioni che trovo rispondenti alla struttura, non solo di questo libro, di Annamaria De Pietro, che a suo modo dà forma al paradosso di una chiusura aperta, sorretta da cardini e (s)nodi che smentiscono il nitore formale della quartina o dell’apparente chiusura del cerchio, quale sembra suggerire il corsivo che contraddistingue sia la prima che l’ultima quartina. Rispetto alle quali tutte le altre sono scolpite in caratteri normali, lasciando il corsivo alle glosse e agli arzigogoli in prosa, in intrecci intenti come a sorreggerle (le quartine), arricchirle, integrarle, ma anche a farsi fuoco amico che ne sminuisce l’autonomia. Il SS, nato e immerso nel letterario, cammina dunque su due gambe operatrici, una delle quali è tenera fame d’amore, terreno che salva, resistente radice che succhia linfa dal Soggetto Storicoreale, con ricerca di una “prosa amica di glosse che guardano indietro, rivolte avanti, a vivere…persone e libri e figure, e compleanni, e viaggi, e cinema, e grammatiche, fiancheggiatori elastici di quei rettangoli…sono forse loro …il pi greco?” (p. 160)
Il SS lo dice del resto apertamente, sin dalla glossa della prima quartina. La “quadratura del cerchio” si fa “laboratorio malcerto” (p.7) di quartine, che a tratti si fanno “caudate scodinzolanti alla speranza” con due versi in più che “smarginano il frattale” (ibidem); e tentano l’apertura con rettangoli che, “nella mano tesa di un pi greco”, fanno il verso consonante “all’imprecisa geometria del mondo”.
In tutta evidenza, siamo in un territorio mobile che sollecita umiltà e coscienza del limite, del precario nostro stare qui, del bisogno di relazioni e della necessità di sbeffeggiare le nostre supponenze. Ne nasce l’impossibilità di punti fermi, e una forma che declina più verso un flusso liberante e fenomenologico, che verso una chiusura parmenidea.
Il panta rei eracliteo soccorre e non scorre solo nelle volute e svolte in prosa. E nel suo flusso, operano di faglia in faglia le molecole di entrambi i due operatori sintetizzati nelle figure del sacerdote e dell’artigiano. Che dunque non sono collocabili in questa o quella area della struttura compositiva. L’una e l’altra si negano, si integrano e a tratti danzano insieme, sia nelle quartine che nelle glosse, alla ricerca di un oltre, di cui anche quello sulla carta è anello che brilla prezioso e necessario, che tutta la letteratura non potrà mai prendere e dire interamente, quanto più reca segni e si fa materia di pietas o di tensione alla vita, sostanza del quid o del pi greco del nostro destino umano.
(1) La mancanza cui i versi (e tutta l’arte) tendono a porre rimedio sta nella frattura, inscritta nel nostro corpo con il taglio del cordone ombelicale. La nascita e ogni passo successivo sono una sequenza di esperienze, connotate da paradossi insuperabili intessuti di gioia e dolore, per la compresenza di perdita e desiderio di ri-unione col corpo materno. L’arte e la poesia, con i loro segni, parole, suoni e immagini traggono energia da tale inesausta ricerca/pulsione, nata nella carne e tendente a tornarvi anche attraverso le lingue che utilizza. Per cui Lacan può dire: “In questa aporia incarnata, il desiderio si afferma come condizione assoluta” di ricerca dell’Altro, che riguarda sia il rimosso dell’inconscio freudiano, sia il padre e la madre, sia l’insieme di oggetti e relazioni, che consentono di costituire un Io.
L’Io e l’inconscio sono entità psichiche deducibili da manifestazioni e sintomi. E l’Io, anticipato da Platone e definito da Cartesio, è strutturato esattamente come un sintomo, sintomo umano per eccellenza, che nelle vicende della cultura occidentale è diventata illusione di essere centro ordinatore del mondo, fonte di verità assolute, malattia mentale vestita di arroganza (hybris) e ricerca di dominio.
Illusioni e arroganze smascherate da Schopenhauer, che ci ricorda il doppio di cui siamo costituiti: la soggettività della specie e la soggettività dell’individuo, tra le quali il linguaggio è ponte e fondamento costitutivo della globalità psichica umana. Ma se parliamo di totalità corpomentale il linguaggio è in realtà una pluralità di linguaggi, con e in cui il corpo vivente si esprime.
Lo dico, non per mera acribia, ma perché credo stia solo nelle dinamiche fenomenologiche tra totalità e molteplicità la possibilità di interrompere per sia pur brevi momenti, la condizione normale che fa dire a U. Galimberti: “la parola è schizofrenia, la mente (phren) scissa (schizo) in due mondi, dove l’uno si rifrange nell’altro, per cui è indecidibile quale sia il mondo vero”. Sta allora solo nella pato-logia, nel “patire (páthos) che si fa parola (loghia)” fino alla “profondità dell’abisso (Ab-grund)”, l’unico sbocco concesso? All’arte e alla filosofia non resta che la “proclamazione di questa lacerazione”?
Se tutto ciò è vero e, come dice Jaspers: “La nostra forza è la scissione, abbiamo perduto l’ingenuità”, credo pure che ciò non contraddica il paradosso costitutivo dell’arte in tutte le sue forme: il piacere della sua prassi poetica, di uscita precaria dalla distanza scissa in cui siamo, incarna quella dell’amore, della sua forza e verità di momenti di unione della molteplicità intra e inter soggettiva, dove verità qui ha un senso fenomenologico, significa che in esso riusciamo a vivere. Fenomenologia antropologica della poesia che se tende a farsi carne coinvolgendo la totalità delle lingue del corpo, risponde di più a ciò che intendo col termine Adiacenza. (A.A.V.V., La Vita Felice, Milano 2009).
Adam Vaccaro
Approvo più di ogni altra considerazione l’immagine del Labirinto riferita in questo caso alla poesia di Annamaria, alla quale si riconducono anche i riferimenti alla scissione originaria agli albori della vita e la ricerca profonda di una chiave o di un filo di Arianna che conduca fuori nel mondo. Labirintica anche la scrittura della nostra cara che ci ha lasciati, all’interno dell’ossessione della forma perfetta.
Con tanto affetto per lei e anche per te, che hai voluto sondare una non facile scrittura.
[…] di Milanocosa, Associazione Culturale nella quale Annamaria è stata attiva già tra i primi soci, https://www.milanocosa.it/saggi-poesia/lo-scrigno-e-il-labirinto-di-annamaria-de-pietro . Il labirinto come vertigine e complessità è certamente una della immagini che possono […]
Grazie a Laura e a chi ha offerto echi alla mia lettura e alla corrispondente proposta critica.
Adam