LETTURA DI CINQUE POETI DELLA STAGNAZIONE
«ANDIAMO VERSO LA CATASTROFE SENZA PAROLE»
Giorgio Linguaglossa
«Andiamo verso la catastrofe senza parole. Già le rivoluzioni di domani si faranno in marsina e con tutte le comodità. I Re avranno da temere soprattutto dai loro segretari». Era l’aprile del 1919 quando Vincenzo Cardarelli scriveva queste parole. Era iniziata la rivoluzione della società di massa. La rivoluzione industriale era ancora di là da venire, e l’epoca delle avanguardie era già alle spalle. Il ritorno all’ordine era una strada in discesa segnata da un annunzio che sembrava indiscutibile.
Oggi, a distanza di quasi un secolo dalle parole di Cardarelli, è avvenuto esattamente il contrario di quanto preconizzato dal poeta de «La Ronda»: oggi andiamo verso la catastrofe con un eccesso di parole. Il ritorno all’ordine è un fatto compiuto. Le rivoluzioni di domani non si faranno né in marsina né in canottiera, né con tutte le comodità né con tutti gli incomodi: non si faranno affatto. L’unica rivoluzione possibile non è neanche più quella innocua e formale dei formalisti.
È l’epoca della stagnazione definitiva che si profila.
Una poesia come questa di Pasquale Di Palmo, Massimo Morasso, Cristina Alziati, Daniela Raimondi e Annalisa Comes non poteva che nascere in un’epoca in cui, in Occidente, parlare di «rivoluzione» è come parlare di ircocervi in scatola. La poesia che vorrebbe sopravvivere tende a sottrarsi al suo télos che la definisce per la sua funzione decorativa e finzionale ma, appunto, essa presa nel rischio di questo frangente è costretta ad allentare il passo, a distanziare l’oggetto del contendere, ad apparire anacronistica e inattuale, a parlare una sua lingua impenetrabile.
Pasquale Di Palmo Marine e altri sortilegi Rovigo, Il Ponte del Sale 2006
La poesia del veneziano Pasquale Di Palmo nasce nel contesto culturale di una rivoluzione, ad un tempo, «mancata» e «avvenuta»: il cosiddetto Dopo il Moderno: lo spazio atopico del «sortilegio» delle merci e dei segni in libera circolazione. Ma che cos’è il «sortilegio»? Tento di rispondere in modo indiretto: diciamo che un’epoca che non conosce il futuro come tempo dell’attesa non può che partorire un’arte che si esaurisce nel flusso del presente, nella presentificazione di tutte le cose sulla superficie del presente.
La didattica poetica di Di Palmo ha l’aspetto di una navigazione in un acquario («come bandiere/ le lenzuola che spuntano dalle feritoie/ di contrafforti…»; «Si cammina leggeri come nuvole/ in testa soltanto/ questo inquieto zigzagare di aquiloni»). Oltre che la declinazione dei verbi al presente («Cammino lungo la strada»; «Cammino lungo l’arenile biancazzurro»), coniugati in forma riflessiva o all’infinito (perdersi, muoversi, scendi, scrivo, andarsene, si abbarbica, camminare, pensare etc.), sono le esperienze significative rappresentate che risultano come «de-naturate», prive di ogni azione verbale; non sono più poesie di movimento, dove avviene qualcosa che muta la situazione antecedente ma poesie di inazione, dove le esperienze significative si accavallano e si susseguono senza che tra l’una e l’altra vi si rintracci alcuna evoluzione o tragitto interiore: «Andarsene d’inverno lungo il molo/ semideserto, fiero/ di questa luce che si arrampica». Qua e là sono gli scorci sghembi delle periferie che appaiono all’improvviso: «Perdersi tra le officine come in un incubo/ camminare sotto un cielo di lavagna». Oppure, è la natura che appare nella sua crudità e nella sua nudità, in modo frontale, asettico. Per lo più è il sole, quest’astro malato e ingombrante, che ingolfa il passo: «Ecco il sole lebbroso che dispensa/ i moncherini dei rami/ in quest’aria di acquamarina»; «Mulina il sole azzurro nella retina»; «Il sole ostenta lo scheletro/ calafatato di una barca capovolta». Altre volte, è la natura che si anima, dall’interno, in metafore complesse e squillanti dove si nota l’assimilazione della lezione della metafora cinetica di un Pasternak e della poesia russa del Novecento:
Neve, cattivo vetraio, sui merli
di un castello d’ossa disponi
i tuoi campanelli,
diffondi una leggera cartilagine
contro il solicello novembrino
; (…) Dentro ci sono pesci
che nuotano felici,
uomini che vanno in bici.
La poesia di Di Palmo annuncia, con il panneggio del suo algido stile, la catastrofe già avvenuta (e posticipata) come un dato di fatto inconcusso, indiscutibile; parla di ciò che è seguito alla catastrofe mettendo in silenzio tutto ciò che esula da essa. Si ciba della catastrofe. Parla come può parlare un salterio di un’altra più fortunata epoca, con frasari nobili d’una nobiltà decaduta ma che ancora possiede la nobiltà denominativa d’un tempo che fu: «…che sciaborda dalla polena/ dell’occipite alla chiglia/ capovolta del perone». Ma è nella sezione «Esercizi di esorcismo», che ospita delle poesie in prosa, che l’aspetto tonale e il lessico raggiungono una equidistanza, una equilibrata consonanza, accordati su un pentagramma onirico e surreale di sofisticata ascendenza culturale:
La Musa ha l’alitosi, i denti cariati. Si sorregge a un albero rachitico con le manine viola, osserva inebetita i cani che volano sui cornicioni…»; «Nel sole desolato di un’acquaforte ce ne andiamo con l’andatura di una piccola volpe nella sua fuga azzurra. Piovono foglie dal cielo di faesite (…) Tu dormi con due monetine sugli occhi.
Insensibilmente, la poesia del dopo la catastrofe di Pasquale Di Palmo si trasforma in una prosa poetica, o meglio, in una narrazione senza narratum che racconta di vicende così estranee alla familiarità dei contemporanei da ingenerare un senso di ripulsa, di rimozione e, direi, di esorcismo.
Cristina Alziati A compimento Lecce, Manni, 2005
Nelle poesie di Cristina Alziati c’è un progetto, e il progetto di un discorso poetico degno di questo nome contiene sempre, en raccourci, il racconto della parola originaria e del suo immancabile dissolversi, dileguarsi. Ecco la ragione fondante del ricorso alla perifrasi elicoidale e l’abbondanza degli avverbi di tempo e di luogo, dove la costruzione ellittica assume un ruolo preponderante, come per afferrare e fermare le «cose», le «parole» nelle maglie strettissime della versificazione con quel caratteristico richiudersi ed aprirsi delle spire sintattiche, con l’abbondanza delle sospensioni, delle riprese e dei rimandi che obbligano il lettore a tornare indietro, a ripercorrere la strada della costruzione ma in senso inverso. Così, questa poesia tenta di uscire dal caos primigenio e di dare nomi, ordine alle cose che non sanno più chiamarsi «proprio dentro al silenzio, proprio mentre/ ci si scioglieva fra i denti il silenzio/ e amica, di acqua adunandosi un coro,/ mea surge salutava».
Mi tornano in mente le parole di Hegel alla fine della Scienza della logica che definisce l’«idea assoluta» come «la parola originaria, che è un proferimento, ma tale che, come proferimento, è immediatamente di nuovo dileguato, mentre è».
C’è qui tutta la compostezza di un discorso poetico che si libra appena al di sopra della de-territorializzazione dei linguaggi dell’epoca mediatica, tentando una cicatrizzazione stilistica di ciò che non è più suturabile con i punti di una chirurgia soltanto estetica. Al di là della parola poetica c’è sempre e soltanto il silenzio che lambisce le parole, tutte le parole. Ma non è qui la retorica del silenzio che mi sta a cuore mostrare ma al contrario lo svelamento delle retoriche delle parole vuote e insipide che la poesia della Alziati mostra con la sua intima eleganza e il suo ritrarsi pudico.
Daniela Raimondi Diario della Luce Faenza, Mobydick 2011
Una sorta di desublimata epopea del quotidiano-memoriale, ed insieme diario post-lirico della pacificazione memoriale, canzoniere di una materia non più cantabile e neanche più orientabile: il principio memoriale come inveramento del dispositivo iconico mi pare ben calmierato e stilizzato. Per quanto concerne il rapporto contraddittorio dell’occhio con il reale (con tutto ciò che ne consegue in termini di prevalenza del dispositivo ottico e di visioni in plein air, come dall’alto di un balcone, rispetto al dispositivo fonetico e fonematico, dove la raffinata lectio dei classici del Novecento risulta adeguatamente digerita), direi che risulta fruttuosamente ricco ed ambiguo. Soluzioni iconiche si giustappongono a lemmi di ascendenza post-montaliana, il tutto in un liquido di contrasto tipicamente post-moderno: un post-modernismo memoriale e iconico con un dettato di alta ascendenza classica e mediante una prosaicizzazione del lessico e della sintassi, così da avere una risultanza stilistica che congiunge le due antinomiche polarità: l’alto e il basso, il prosaico con l’elitario, il memoriale e l’attualismo. In questa operazione di ripescaggio memoriale ciò che è significativo non è più la tradizionale orchestrazione sonora, la colonna sonora ma ciò che decolora e sbiadisce i vistosi panni novecenteschi. C’è una attenta messa a fuoco della visione. Direi poesia che si affida interamente alla visione ottica per perenzione di ciò che rimane della colonna sonora novecentesca.
Luce macerata da questa pioggia sottile,
sciolta sui campi tiepidi di ottobre.
Il sole fatica a spandersi sui tetti,
scende piano nel verdecupo degli alberi.
Fili d’argento colano nel buio della pineta.
Un angelo del Mantenga abbassa gli occhi.
La sua voce resta sull’azzurro pallido dell’acqua…
Massimo Morasso Viatico Rimini, Raffaelli, 2011
«Il Dire originario è mostrare. (…) Questo dischiude ciò che è presente nel suo esser presente, lascia ciò che è assente disparire nella sua assenza. Il Dire originario domina e compone in unità la libera distesa di quella radura luminosa, cui quanto appare deve – per apparire – ricondursi, da cui quanto dispare deve – per disparire – allontanarsi, in cui è scritto che l’esser presente e l’esser assente – quale che sia il modo della presenza o dell’assenza – manifesti e dica se stesso.» M. Heidegger In cammino verso il linguaggio, 1973 trad. it. Milano, Mursia).
Il filosofo cinese Sung Lin nel suo saggio sull’origine della pittura sostiene che l’unica via per uscire dal caos sia il nominare le cose: «Quando all’inizio il cielo e la terra si disgiunsero, si originarono le cose, … ma tutto era confuso perché non c’erano i nomi. Anche il cielo e la terra non sapevano come chiamarsi, finché si levò un uomo illuminato che diede un nome a tutte le cose, cosicché il Basso e l’Alto, gli esseri che si muovono e le piante che germogliano furono separati l’uno dall’altro».
C’è nel concetto di tradizione del Moderno di Massimo Morasso una idea di poesia come ponte tra le due sponde contigue ma divise da quel fiume incessante e impetuoso che corre in Occidente da almeno due secoli in qua e che noi siamo soliti chiamare il Moderno. Da una parte gli «eroi», i grandi poeti che hanno accompagnato la edificazione della modernità (Rilke, Yeats, Andrej Tarkovskij, Cristina Campo, Eliot etc.), dall’altra i reduci, gli esponenti postumi della modernità, gli epigoni costretti a ripercorrere i sentieri tracciati, un tempo lontano, nel bosco, ma adesso cancellati dalle distruttive ruspe della società del mercato globale-mediatico. Del resto, l’ultima estetica che aveva tentato di regolare i conti con il Moderno, facendo finta di ignorarlo, quella del Croce, era finita nella teorizzazione della lirica=intuizione, come equazione tra intuizione ed espressione che relegava la lirica nell’atto magico, monadico, monarchico ed elitario. La teorizzazione della poesia come intuizione lirica si rivelò ben presto un vicolo cieco. Nel frattempo, la poesia italiana ed occidentale, dopo la fine della seconda guerra mondiale, aveva decisamente imboccato la via della commistione tra il discorso lirico e i linguaggi del contemporaneo, i linguaggi narratologici e della pubblicità. Spezzatosi, dissoltosi quel patto formale tra autori, pubblico e ambiente sociale veniva meno anche la legittimazione di uno stile. Così, una pluralità stilistica e linguistica prendeva lentamente il posto lasciato vuoto dalla lirica vista come espressione di una immediatezza stilistica.
C’è nella poesia di Massimo Morasso il dèmone della inadeguatezza del nome a nominare le cose e, al contempo, l’illusione che il discorso poetico possa ancora nominare le cose ma in un diverso ordine di un discorso che prenda atto e tragga le dovute conseguenze di quell’impossibilità. Morasso continua l’idea di fondo già formulata da Pound secondo il quale il culto della poesia e della letteratura ha qualcosa in comune con «il culto degli eroi», ovvero, con quei padri che hanno costruito la grande poesia del Novecento. Un’idea eroicizzante della poesia che non dissimula il concetto dell’atto poetico come di un gesto arcaico che presuppone il «sacro», con tanto di sacerdote e del poeta come custode e inventore di «miti» e di «eroi». Il poeta tende così a confondersi con il mitografo e il discorso poetico con il discorso del «sacro», con il culto degli eroi e dei morti, in attesa (senza mai perorare esplicitamente questa idea), di una loro resurrezione.
La poesia come atto di devozione e culto delle reliquie raccolte nel sudario del discorso lirico. Il discorso lirico come discorso sul «dolore». Del resto, anche il titolo del libro, «Viatico», vuole sottintendere proprio questo percorso valoriale del «dolore» quale atto dovuto, sottoposizione al dolore, accettazione orgogliosa della dimensione purgatoriale quale «viatico» al fine di ottenere la restituzione della poesia alla sua dimensione sublimale e sublimata: promozione dell’atto lirico in atto poetico, devoluzione e transvalutazione del «dolore« in «gioia», transvalutazione del genere innico-elegiaco in discorso poetico restaurativo.
È questo il perimetro e il pregio di questa operazione, tutta sospesa tra le opposte sponde di una tradizione («il dire originario») da continuare senza tradirla (la «nominazione»), della continuazione/transvalutazione del genere innico-elegiaco in discorso prosaico-diseroicizzante.
Questa appassionata visione nostalgico-purgatoriale pervade ogni fibra del discorso lirico di Morasso, che vuole essere atto di resistenza lirica (umanistica) ad un mondo che della lirica non sa più che farsene, nemmeno come orpello o suppellettile del modernariato. Di qui quel certo pathos della nominazione e della rievocazione e della impossibilità di un nuovo concepimento del «nome» nelle condizioni della nostra epoca:
Tenti di dire e intanto arretri verso il buio.
Ma di fronte al dolore – ecco:
di fronte all’anima in lotta per la vita
negli occhi di chi s’ama – non si parla.
Nessun linguaggio, Rainer, può comprendere
il senso del non-essere, dar nome
alle divine dismisure…..
A ragionarci bene non c’è scampo…
Anche nelle splendide traduzioni della sezione finale del libro si può rintracciare l’educazione estetica di Morasso, la sua nobile fucina letteraria, la melanconia della nominazione impossibile.
Annalisa Comes Fuori dalla terraferma Firenze, Gazebo, 2011-07-25
Il problema della responsabilità del rapporto che intercorre tra autore e destinatario è una costante dell’opera di Annalisa Comes, la quale predilige una versificazione analitica, che abbonda di correlativi, e realistica, elementi tipici di un temperamento modernista che non intende modernizzare alcunché tranne la forma. Equilibratissime le fraseologie che rispondono ai richiami mnestici di una tradizione che non può essere messa tra parentesi, né utilizzata come canto delle sirene…Direi che due sono le componenti costitutive del dialogo tra l’io e il destinatario ignoto (ma la poesia della Comes è esattamente il contrario di qualsiasi «dialogo»): quegli elementi che nel testo rispondono al piano dei contenuti e quelli che rispondono alle esigenze della forma, in una rete di relazioni necessariamente dis-oggettive, dis-armoniche, distanzianti:
Rotte, paure, naufragi,
eppure siamo ancora in Europa.
Il ponte ricorda il parquet della cucina
con gli orli neri come feritoie.
Da nord-est un vento di porcellana.
E soffiano fischiando alberi e corde,
battono insieme al fiato che si stringe al viso.
Dis-armonie criticamente consapevoli e teleologicamente orientate che rispondono al punto di vista dell’io situato in una posizione critica rispetto al «paesaggio». L’atto interpretativo qui non è dissimile dall’ascolto, e quest’ultimo è legato indissolubilmente alla posizione dell’«io». Di qui il ribaltamento (sottilmente ironico) del codice convenzionale di scambio tra il concreto e l’astratto, tra l’io e il paesaggio: «eppure siamo ancora in Europa» e «un vento di porcellana» sono sintagmi iconici distanzianti dell’esperienza dell’«io» nel mondo come rapporto geografico-turistico, non più metafisico conoscitivo. La percezione dell’uomo della post-massa è quella del turista: «E soffiano fischiando alberi e corde». È la gelida e oggettiva constatazione della Comes del punto di estrema crisi della posizione soggettiva nell’ambito delle possibilità di mutamento della situazione oggettiva (ovvero, della «forma») che il poeta non può ignorare, pena lo scadimento della sua poesia ad un ruolo decorativo, nostalgico e suppletivo. Nel testo citato, poesia e metapoesia, poesia dell’io e riflessione sulla poesia corrono entro lo stesso binario. La poesia diventa meditazione sopra le condizioni della propria precaria sopravvivenza
Buio. Una boa enorme in secca.
Chiusi gli ultimi bar e la biglietteria e un
taxi acquatico dal corpo giallo e stanco.
Buio anche per i pochi passanti
e le loro orme a crocicchio. Il vento
sbatte la cenere al bavero del cappotto.
“Le rivoluzioni di domani non si faranno né in marsina né in canottiera, né con tutte le comodità né con tutti gli incomodi: non si faranno affatto. L’unica rivoluzione possibile non è neanche più quella innocua e formale dei formalisti.
È l’epoca della stagnazione definitiva che si profila.”
Eppur si muove…
Del futur non v’è certezza…
Giorgio Linguaglossa deve tentare di spiegarci:
1)qual è il rapporto che passa tra “l’epoca della stagnazione” e la “stagnazione stilistica” (utilizziamo qui le sue categorie);
2) e se ancora la «poiesis» è da considerarsi come uno dei terreni privilegiati (o il più privilegiato) per la manifestazione dell«essere», o del «bello» (come alcuni indicano);
3) se è ancora valida l’impostazione ontologico-ermeneutica dinanzi ad un testo della «poiesis»;
4) se c’è qualche altra chiave di lettura per avvicinarsi ad un testo della «poiesis»…
… io credo che quando un lettore di riviste letterarie legge una rivista che si occupa di poesia, la prima cosa che lo interessa e va a leggere sono le recensioni dei libri di poesia. Almeno, una volta, negli anni Settanta era così. Certo, ormai ne sono passati di anni, le riviste cosiddette di poesia come “Kamen”, “Anterem”, “Testuale” etc. di tutto si occupano tranne che di parlare dei libri di poesia che sono usciti. Anche questo è un segno dei tempi. Del degrado dei tempi.
Ormai non mi meraviglio più di niente. I letterati che si occupano di poesia si sono screditati da soli, anzi, fanno a gara a screditarsi reciprocamente. Ha ragione la Lucchini quando denuncia questo degrado, ed ha ragione un critico solitario come Giorgio Linguaglossa a parlare nel deserto.
Ed ora che si fa? Niente, si va avanti così con gli Annuari (quelli di Manacorda e di Mauro Ferrari) e gli Almanacchi (di Cucchi e della Mondadori) destituiti di qualsiasi credibilità critica. Soltanto i bonzi e i gonzi possono dare un qualsiasi credito ad operazioni così anodine…
Massimiliano Testa
Mi corre l’obbligo di rispondere in qualche modo alle questioni sollevate. Direi, molto semplicemente, che nel lontano Novecento, fino a prima degli anni Settanta, c’erano un tempo opere che trovavano in altre precedenti i propri punti di riferimento, oppure che trovavano la propria giustificazione stilistica all’interno di una «scuola», di una linea di gusto, di una regione geografica; c’erano opere che trovavano la propria giustificazione stilistica all’interno di una tradizione. Ciò aiutava l’interprete a collocare un’opera all’interno di un orizzonte di attesa, di un quadro di riconoscibilità, di un paradigma, di una visione condivisa del fatto letterario. La riconoscibilità era un fattore importante del fatto letterario. Un tempo, nel lontano Novecento, c’erano opere che fuoriuscivano, in tutto o in parte, da questo schema, che mettevano in discussione la normatività dello schema e delle tradizioni stilistiche. Oggi tutto ciò è scomparso, si naviga in un mare di scritture instabili, desultorie, accadimentali, estranee al concetto di tradizione stilistica, dove l’accadimento letterario non ignorava una linea di continuità e/o di discontinuità con una tradizione o un modello. Quello che un tempo costituiva la «norma», oggi si è mutato in «potere normativo», quello che un tempo era il «canone», oggi è diventato la «riconoscibilità» delle scritture instabili. La «comunicazione» letteraria e poetica teorizzata e praticata durante gli anni Novanta dal gruppo di poeti firmatari a Milano del manifesto Truglia (dal nome del promotore) adottava acriticamente il concetto mediatico di «comunicazione». Era una conseguenza del fatto macro culturale della reciproca riconoscibilità (una sorta di vassallaggio: io riconosco te perché tu riconosci me) che tendeva a sostituire il confronto di poetiche e di stili di scrittura poetica. Siamo negli anni Novanta. Con gli anni Novanta qualcosa si è definitivamente frantumato in questo quadro macro culturale: si è entrati in quella che io chiamo la vetrina universale della riconoscibilità. O, con il termine di Roberto Bertoldo, il post-contemporaneo. Una sorta di terra di nessuno delle scritture instabili stabilizzate dalla universale riconoscibilità dei linguaggi mediatici. Con il che si giunge ad un fatto straordinario: è la vetrina dei linguaggi mediatici che presta la propria riconoscibilità ai linguaggi narrativi e poetici, che adesso diventano indistinguibili e sovrapponibili. Un vero e proprio capovolgimento dei ruoli. Siamo al paradosso: i linguaggi narrativi e poetici dell’ultimo decennio si assemblano da sé sulla falsariga dei linguaggi mediatici del post-contemporaneo.
Adesso mi sembra che le opere che trovano riconoscibilità sono quelle che si rivolgono (con astuzia) agli interlocutori della vetrina universale della riconoscibilità…
Giorgio Linguaglossa
– Senza un’articolata e profonda concezione delle tradizioni in gioco e talora in lotta anche in ciascun autore;
– con una concezione ancora lineare delle «magnifiche sorti progressive» o del loro contrario, esemplificate su un modello di critica ancora di ascendenza ottocentesca, con un tempo lineare, nonostante gli enormi progressi delle scienze dell’uomo e della natura;
– senza concrete analisi degli atti dell’enunciazione e dei gradi dei saperi;
– senza una comprensione profonda e motivata del testo, tale da dire: «Ecco dove vuole parare e ciò che indica»; oppure: «E’ una vera fesseria, ho capito e vi spiego perché»;
– con le proprie sole ideologie ed idiosincrasie,
Non si uscirà da una “critica” di gusto e da analoghi della formula crociana “Qui c’è poesia, qui non c’è poesia”, con tutte le succedanee mis-interpretazioni di finta matrice francofortese e relative derive rizomatiche.
Il cuore della critica è l’argomentazione e la documentazione, non “l’ideografia” o le parole in libertà, ossia una scrittura di cattiva neoretorica priva di riscontri e verifiche testuali.
Si rischia altrimenti solo la chiacchiera e un’acritica accettazione dell’esistente in quanto esistente, si rischia di scambiare l’epigonalità diffusa di un gruppo (di non sempre valenti poeti lirici: ad esempio, per la maggiore, Dopo la lirica, Einaudi 2005) per l’impossibilità storica di un certo cursus della lirica, si rischia di credere inoltre nell’esistenza della linea lombarda, o del pensiero poetante o del minimalismo (in pittura sappiamo cos’è, nel romanzo anche, ma in poesia è spesso solo una falsificazione: ciò che è ritenuto minimale o è semplicemente epigonale oppure non è minimale per niente, per lo spessore culturale che sta sotto un linguaggio a dominante osservativa) ed altre innumerevoli deboli teorizzazioni od etichette puramente commerciali.
Grazie degli interventi, sia delle condivisioni che delle contrapposizioni e prese di distanza, di amici di cui conosco bene le diverse posizioni e le linee di ricerca.
Con questo post e altri collaterali volevo proprio favorire, se possibile, questo: sintetiche prese di posizione degli addetti che sollecitassero interesse anche di lettori non addetti.
Mi auguro che qualcuno sia stato coinvolto.
Adam Vaccaro
…vorrei sapere da Amedeo Anelli se lui ha letto il libro di Giorgio Linguaglossa «Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana (1945-2010)», e che cosa ne pensa. Mi sembra che lì ci siano un bel po’ di cose (pietre!) che sono state sollevate, a cominciare dalla «riforma moderata» del linguaggio poetico della seconda metà del Novecento; dalla introduzione della categoria del «modernismo» nella poesia italiana; dalla strutturazione in decenni della «Storia» con correlativa analisi delle contraddizioni e delle ipocrisie di quei decenni, sull’uso (analitico e documentato) di concetti come «minimalismo romano-milanese» e su quello di «esistenzialismo milanese»; dalla «crisi del discorso poetico» del secondo Novecento al concetto di «scritture epigoniche» ai grandi sconfitti della poesia: Fortini e Ripellino, ai dimenticati e sotterrati (come Helle Busacca, Salvatore Toma, Maria Marchesi, Maria Rosaria Madonna, Luigi Manzi…), insomma ce n’è un bel po’ di carne al fuoco… ma mi accorgo che non interessa a nessuno degli addetti ai lavori osare di andare in profondità: si rischierebbe di farsi dei nemici e attirarsi delle antipatie. È questa la povera verità, meglio parlare di altro… Ma se guardiamo la rivista di cui è direttore Amedeo Anelli “Kamen”, vediamo che i poeti proposti sono Elio Pecora, Edgardo Abbozzo, Guido Oldani e altri autori del tutto trascurabili: e Fortini, e Ripellino, e Ennio Flaiano? e Dante Maffìa? dove li mettiamo? nello sgabuzzino dei dimenticati e rimossi?
Nella critica, così come nella poesia bisogna essere seri e ponderati e chi è innocente scagli la prima pietra…
Laura Canciani
Gentile Laura Canciani alla sua domanda e alla serie di nomi che Lei fa senza motivare le ragioni culturali delle sue scelte, mi pregio di risponderLe così: la invito a leggere cosa i redattori di «Kamen’» hanno scritto negli ultimi trent’anni- avendone il tempo e la pazienza -; ed anche a rivedersi l’indice internazionale della rivista: Birgitta Trotzig è una delle scrittrici più importanti del Novecento, così la Boye, la Christensen, la Koschel, la Lainà, Brines, Gatto, Noventa, Quadrelli e via così…
La rivista si occupa delle tradizioni dell’Europa e quindi solo di quelli che ritiene poeti europei di lingua italiana nelle molteplici tradizioni, ecc… anche su questo esiste una vasta bibliografia.
Edgardo Abbozzo non è un poeta è uno dei più grandi artisti europei del Secondo Novecento, non scrive poesie, ma pensieri sull’Arte nel rapporto Arte-Alchimia… Ripellino è sicuramente uno dei poeti e degli intellettuali europei più importanti. In Europa è più apprezzato e conosciuto che in Italia, ma nessuno fa piovere sul bagnato… e il discorso diventerebbe lungo…
Leggo da oltre un ventennio gli scritti di Linguaglossa che conosco personalmente, nella differenza di prospettive culturali e nel reciproco rispetto ci scambiamo pareri da molti anni ai convegni e spedendoci i rispettivi lavori. In merito ai suoi volumi “storiografici” non sono d’accordo su molteplici questioni, ma Linguaglossa ne è consapevole. Inoltre i valori culturali si contrattano e discutono, non esistono dittature culturali: a scritto si risponde con scritto, a volume con volume, non con la chiacchiera, non se ne ha il tempo… Fra le molte questioni che ci dividono: quella dell’esistenza della linea lombarda per me non sussistente; la linea lombarda è solo un’etichetta editoriale di Anceschi che non regge ad un’analisi stilistica e di filosofia del linguaggio, l’etichetta è pedissequamente seguita storiograficamente da molti, inoltre secondo me non esiste il minimalismo come lo intende Linguaglossa e il discorso diventerebbe una serie di
cose che ho già scritto e detto, ecc..
Oldani è uno dei pochi poeti riconoscibili ed esportabili in Europa non epigonali del Secondo Novecento e come la penso sta in un libro che gradirò spedirle…la cosa diventerebbe “brodosa” ed inutile, basta armarsi di pazienza e leggere ed approfondire la bibliografia non manca… anzi direi piuttosto estesa da perdere qualche anno di studio…
Cordialità
Amedeo Anelli
Quando ci si reca al Tate Modern dopo avere visitato il Tate delle arti visive canoniche, e dopo essere usciti dal tour avendo visitato anche il British Museum e la National Gallery, dinanzi a certe istallazioni (tra cui anche quelle geniale per gli addetti di Catelan), lo/a sprovveduto/a visitato si chiede sbigottito/a: “E mò che è staì schiffezza!?” ecco, lo stesso accade in poesia.
Egli ed ella non possono capire ancora le ragioni per le quali i critici abbiano selezionato e consentito quella data opera, o quella data istallazione: ecco, lo stesso accade per i lettori di poesia diversamente dai critici di poesia. Nulla è diverso tra le arti visive e le varie arti della parola. Queste si evolvono prima del gusto popolare, e ci vogliono letteralmente decenni prima che il gusto comune (ovvero popolare, del fruitore semi-acculturato) capisca che anche quella novità, che gli era parsa una schifezza, era già accademia, proprio perché entrata nel/nei circuito/i deputato/i.
Lo stesso che vale per le nuove generazioni di computer e telefonini che sono già obsoleti al momento della loro scesa in campo, vale anche per le arti visive e della parola. Il mondo tutto processa e trita e rende obsoleto: e le rivoluzioni sono già vecchie e tardive al loro scoppio.
Eppure si muove, come dice Ennio.
scusate i molti typos, ma ho tastiera inceppata.
Excellent pieces. Keep posting such kind of info on your site.
Im really impressed by it.
Hey there, You have done a fantastic job. I will definitely digg it and in my
view recommend to my friends. I am sure they’ll be benefited from this
site.