LA NUOVA COLLANA DI PLAQUETTES DELLA MONDADORI
Carlo Carabba Canti dell’abbandono Milano, Mondadori, 2011 € 13,00
Alberto Pellegatta L’ombra della salute Milano, Mondadori 2011 € 5,00
Andrea Ponso I ferri del mestiere Milano, Mondadori 2011 € 5,00
Fabrizio Bernini L’apprendimento elementare Milano, Mondadori 2011 € 5,00
Giorgio Linguaglossa
Nel post-moderno, nella misura in cui le filosofie del tardo moderno diventano apolitiche, anche le arti soccombono alla dimensione della apoliticità, si riducono alla condizione di vassallaggio. Nel mondo amministrato divenuto corpo politico, cessa la politica, e l’arte, sua ancella, contemporanea ad un mondo non più politico, è la prova più evidente della sua inutilità e infungibilità. Resta un medaglione ornato di solfeggi e di trovate ironiche o iconiche: un’arte decorativa, insomma.
L’arte, se vuole reagire a ciò, dovrebbe diventare sempre più mondana, dovrebbe tornare a parlare agli uomini del mondo. Infrangendo la «censura» del principio di tolleranza, l’arte diverrebbe umana, e dovrebbe andare verso il fisiologico, la materia, l’umano (e il non umano), magari, dell’estetica nietzschiana. Ma l’arte del tardo Moderno non può andare oltre l’estetica (che nel frattempo ha preso congedo). Ma per far ciò occorrerebbe una negazione radicale o una intromissione radicale mediante la quale l’arte correrebbe il rischio del proprio ammutinamento. Nell’apocalisse della tolleranza universale l’arte celebra il proprio decesso.
Agli uomini di buona speranza che hanno cessato di parlare, l’arte non può che restare muta sulla soglia della comunicazione universale. Se la democrazia reclama che tutte le arti siano eguali, le arti obbediscono in quanto tutte inessenziali, inessenziali in quanto decorative. Che la tendenza al decorativismo costituisca il piano inclinato dell’arte e della poesia del tardo Novecento, è un dato di fatto difficilmente opinabile. Negli ultimi decenni si è allargato a macchia d’olio il discorso suasorio-imbonitorio e il genere diaristico-turistico (c’è anche un turismo dell’anima che ha conquistato i cuori femminili dell’ultima generazione!) quale paradigma incontrastato della scrittura poetica. Ciò che appare lampante nel design e nell’architettura (e forse meno evidente nella poesia) è la mancanza di uno stile nel tardo Moderno, che diventa un surrogato in emulsione condito con il remake di tutti gli stili del passato, oppure, con il remake dello stile suasorio-imbonitorio. Addirittura, nelle nuove condizioni spirituali, è problematico financo discorrere di arte (e di poesia) dato che se ne è perduto il concetto.
Senza contare che un’arte senza stile sarebbe già una contraddizione in termini. Così come discettare di un’arte senza concetto è, analogamente, un’arte senza spina dorsale, decerebrata, decorticata, derubricata a genere da intrattenimento, ad escursione turistica per il gradimento della post-massa. C’è da chiedersi se tutta la maggiore poesia degli ultimi tre quattro lustri non sia da incasellare nel genere di arte da intrattenimento (seppur alto). Alla fin fine, tutte le filosofie che discettano di un’arte senza stile, non sanno quello che fanno, impegnate come sono nell’eutanasia della libertà, stanno incondizionatamente dalla parte del mondo amministrato, oltraggiosamente partigiane della téchne dei medaglioni.
Già a cospetto del verismo fotometrico come di ogni forma di realismo senza stile, la poesia (e l’arte) contemporanea abita il concetto della adesione, dell’attenzione ai dettagli, la riduzione delle grandi problematiche al minimo comun denominatore di una filosofia agnostica, o meglio, asettica. In questo senso, il minimalismo e il micrologismo, intesi come campo di forze stilistiche proprie dell’ipermoderno, sono la configurazione delle esigenze di razionalizzazione della prassi. Ed è chiaro che il non-stile dell’ipermoderno sia in realtà uno stile, anzi, lo stile per eccellenza.
Forse nessuno come il secondo Montale ha compreso l’utilità di uno stile da «ectoplasma» nell’epoca della pinguedine degli stili, dove l’impiego dell’ironia socratica resta l’unico argine al dirompere del trash. Ma oggi, anche l’impiego dell’ironia si rivela un’arma spuntata, non è l’ironia il toccasana di una materia non più trattabile con le parole. La distanza che l’ironia introduce non è però più sufficiente a colmare la distanza degli oggetti tra di loro.
Direi che questi autori della nuova generazione sono accomunati dall’idea, in qualche modo condivisa, che il discorso poetico sia un qualcosa che si possa apprendere come verismo fotometrico, un tipo di apprendimento de «i ferri del mestiere», qualcosa di molto simile a una «tecnica» che si può imparare, adottare e replicare… si nota anche una certa regressione ad un concetto artigianale dell’arte poetica come apprendimento innato (qua e là formicola una sorta di innatismo e di intimismo!), «apprendimento elementare» che un’arte maieutica possa far di nuovo affiorare alla coscienza estetica, oppure che la poesia altro non sia che «canti dell’abbandono», del congedo, della dipartita da qualcosa di noumenico e di sacrale (che ritorna). C’è in questi autori un cantare restaurativo di una ferita inflitta e inferta ab origine , che ha avuto luogo nel mondo dorato dell’infanzia che il progresso ha capitalizzato e vulnerato. Tutti elementi che danno da pensare che la nuova generazione sia digiuna di pensiero critico. Ad esempio, Andrea Ponso scrive:
Io mi nascondo qui, a pochi passi
dalla selva di ortiche recise
dove si sente odore di fresco, di
fossi: ci separano
gli orti, i cumuli fragranti di fieno,
le botti scure, i tralci.
Si viene a vedere
ciò che dura nell’arsura.
Qui l’«io» non trova di meglio che riposarsi alla frescura della selva dove c’è un odore di fresco etc. etc. – L’«io» di Ponso si adagia supinamente all’ombra del paesaggio lasciato intonso dalla natura matrigna del Progresso. Insomma, Andrea Ponso non brilla per originalità di dettato per un concetto critico del modo di porre la macchina da presa di fronte al «reale»; il «reale» che vediamo è una materia che abbiamo già conosciuto e frequentato molteplici volte, i paesaggi sono ben descritti e ben stipati di cose («Le lane grezze, i cuscini lisi di/ flanella: lenzuola ruvide dove…»); si nota una accentuazione dello sguardo restaurativo, c’è tutta una fenomenologia del dolore e dell’intimità infirmata («Passi tra le mie vene ancora vivo,/ chiedi una crudeltà senza ritorno»); c’è tutta un interloquire tra un «io» e un «tu» in rapporto di intimità e di sfinimento, una fenomenologia delle tracce, dei residui, un metaforeggiare che sicuramente rivela le capacità tecniche di Ponso ma anche i suoi limiti culturali nel modo di concepire e di leggere l’«oggetto-poesia» e l’«oggetto-reale». Ma siamo veramente sicuri che questo sia il «vero» reale? Ecco, è questa la domanda che vale la pena di porsi. E poi, c’è di frequente un incrudelimento eccessivo che serpeggia nelle fraseologie costipate tra un «io» e un «tu»: «Mi vedi vivo così,/ come il cane con in bocca la fine…», come se il mondo terminasse entro il cerchio dell’«io» e del «tu» e tutto il resto non fosse che un residuo da mettere fuori quadro e fuori cornice.
In un autore della nuova generazione, il milanese Alberto Pellegatta L’ombra della salute (2011), è proprio la progettualità mirata alla discontinuità, il carattere gnomico e aforistico dei suoi versi le qualità che introducono delle illuminazioni, dei fendenti che aprono il «reale» e lo rendono «visibile» («La macelleria dell’angolo ha la sua vetrina sconcia.// La morte è una specie/ di cottura. Devi essere vivo/ per cuocere tanti anni»; «i suoi pensieri sono ascensori»; «E la notte che si bagna come un geranio nero»; e oltre a ciò c’è, in positivo, il discorso poetico che abbandona i luoghi triti e conditi del messaggio suasorio-imbonitorio che si sviluppa lungo i binari di una riflessione esistenziale: «Chi separa e scarta secondo un progetto/ crea esuberi incessanti». L’«io» è un «prodotto finito, alla ricerca della formula/ amorosa perfetta, del meccanismo terminale». Il discorso poetico di Pellegatta risulta sempre mobile e variato, nei ritmi, nei toni, nelle sprezzature lessicali e nelle strutture sintattiche, continuamente attraversato da sismi, inversioni, diversioni, incisi che danno alla progressione dei versi un andamento vivo, palpitante.
Di Fabrizio Bernini invito a leggere la più «bella» (a mio avviso) composizione della raccolta:
Alice è contenta. Dal vetro di fronte vede le classi.
Sul margine della pagina continua a scrivere, appoggia
una frase sull’altra. Alice al pensiero fa un mezzo
sorriso. Spreme le labbra.
Era bello ieri sul prato, a settembre si può ancora
resistere, schiacciati nel buio. Sopra le foglie il cielo
smorzava i bisbigli… Alice sentiva il corpo sfidare la notte.
E il tempo sembrava di pane.
Non c’è dubbio che qui Bernini abbia introiettato la koiné media del fare poesia oggi. Ma è sufficiente? È sufficiente adottare una medierà linguistica e stilistica che «racconta» la fenomenologia di «Alice»?, i suoi sorrisi, il suo spremersi le labbra? etc. – tutto qui?. Il «racconto» di Bernini è ben costruito, ordinato, pulito, addirittura direi intelligente, ma può bastare? E infine, il «buonismo» che traluce e traspare come nel finale «E il tempo sembrava di pane», è diffuso in ogni dove: «È soltanto la mano, a cucchiaio sotto al mento», «Tu ripeti e ripeti il singhiozzo…»; «Sono lento, troppo lento. Vengo assimilato male…»; «Con il tuo sguardo ho chiuso gli occhi»; collima con i «crudelismi sparsi un po’ dappertutto («Ha quasi i polmoni contorti…»). Non c’è dubbio che i giovani debbano essere aiutati ma devono essere anche guidati, spronati a tentare cose più difficili, meno facili e scontate. Ben venga, dunque, questa selezione di titoli e autori della Mondadori ma non possiamo nasconderci dietro un dito: questi giovani devono essere aiutati a capire qual è il posto della «poesia» nel mondo d’oggi e che cosa essi vogliano dire ai contemporanei, occorre spronarli a pensare in modo critico il mondo nel quale viviamo, e allora, soltanto allora, uscirà una voce robusta che dica che cos’è la «poesia» che vogliamo e che aspettiamo.
Fermo restando che neanche Carlo Carabba ha intenzione di provare ad allungare il passo e osare una tirata verso il traguardo finale, devo riconoscere al caporedattore di «Nuovi Argomenti» una onestà di fondo e il gusto di non apparire il protagonista assoluto di struggimenti interiori o di stabilimenti balneari dell’«io»; le esposizioni del «cuore» sono, indubbiamente, ridotte al minimo, il discorso poetico scorre con una certa normalità e duttilità, tra il settenario e l’endecasillabo «impoverito», senza eccessi e senza ambasce da mostrare al lettore impudente, senza esposizioni ironiche e senza alludere a facili bersagli. C’è, purtuttavia, un pendio, uno slittamento, qua e là, verso riferimenti all’«io» che se l’autore li avesse evitati avrebbero dato più corpo e solidità al suo dettato lirico; in questo anche Carabba paga lo scotto di un indirizzo un po’ generale e diffuso a macchia d’olio e di leopardo che ormai non fa neanche più notizia, e se lo rilevo è per avvertire gli autori più giovani che se non si fanno i conti con i «fondamenti della commozione» (come diceva Fortini) e con l’ossessione catartica che ci ha trasmesso il modello, pur nobile di Pascoli e di Ungaretti, non si riuscirà a trovare una via di uscita dal sortilegio di uno stile medio suasorio con gli inevitabili finali catartici e gli sbocchi nel mondo dorato dell’infanzia:
Mi venivi a trovare da bambino:
era il giorno del primo dei ricordi
siamo andati allo zoo, ridevi
e mi sporgevi verso
la vasca degli orsi polari
qualcuno ci ha fatto una foto.