L’IMMAGINE METROPOLITANA DELL’UOMO-CENTRO

Pubblicato il 3 marzo 2011 su Saggi Poesia da Adam Vaccaro

L’IMMAGINE METROPOLITANA DELL’UOMO-CENTRO

L’ultima raccolta e la forma di adiacenza nella poesia di Di Ruscio

Adam Vaccaro

Il gesto è folle, dunque giusto. Se il dato e la norma dicono che siamo in una catastrofe, in un labirinto che appare senza uscita, senza centro né punti di riferimento, lui, Di Ruscio, col suo instancabile diluvio di parole continua a riaffermare e a re-istituire un centro, il centro. Il centro, dice, sono io. Ma è un io che si qualifica con l’immagine di Joyce, di una “palla di neve all’inferno”, che rovescia la disperata impossibile difesa della propria consistenza, in capacità di sentirsi vivo come cellula di un noi. Un noi che non è generico, ma riconoscibile nei sottoposti, nei senzapotere. Il centro assume dunque una valenza eticosociale, continuamente disfatta (dal potere) e ricostruita (dalla poesia).

È questo il chiodo continuamente ribattuto, o il filo rosso che collega tutta l’opera di Di Ruscio, sin dalla prima raccolta (“Non possiamo abituarci a morire”, Milano 1952, con prefazione di Salvatore Quasimodo), a “L’ultima raccolta”, terza di una trilogia che abbraccia quasi tre decenni ed è costituita da 357 componimenti. I quali sono contrassegnati da numeri romani e suddivisi tra “Apprendistati” (I-LV), Bagaloni, Ancona 1978, “Istruzioni per l’uso della repressioni” (LVI-CXIII), Savelli, Roma 1980, e “L’ultima raccolta” (componimenti che alternano poesie a brani in prosa, dal CXIV al CCCLVII), Piero Manni, Lecce 2002. La metafora del chiodo non è poi casuale: Di Ruscio, ora in pensione, ha compiuto il grande viaggio dell’emigrante, lavorando come operaio per quarant’anni (lo ricorda una nota biografica sul retro copertina) in una fabbrica di chiodi di Oslo. E anche l’immagine del filo rosso è qui particolarmente congrua rispetto al mai arreso sogno di riscatto umano e sociale espresso dall’Autore, anche di fronte a speranze che sembrano ridotte a patetico fiato.

È una scrittura che ricostruisce le tensioni e la forma magmatica della metropoli. Senza questo punto di partenza, per me fondante, sfuggono i vettori costruttivi centrali di questa forma e si è fuorviati da elementi o aspetti che sono inevitabile portato di una scelta di stile. Per esempio, i refusi, i lapsus (richiamati anche nel sottotitolo) non sono incidenti o frutti di faciloneria da autodidatta, ma dovuti, direi voluti da un Soggetto Scrivente (che l’Autore chiama, tra senso letterale e distanza autoironica, Sottoscritto) irridente verso le perfezioni letterarie e coerente con la scelta generale di riprodurre nella (propria) lingua una maggiore adesione alla dismisura e al caos esterno-interno della forma-metropoli.

È questa una forma non tanto o solo di agglomerato urbano, ma di rapporti umani che corrispondono all’attuale fase avanzata di sviluppo capitalistico e che riguardano sia i centri maggiori che la provincia. È una realtà che tende a distruggere ogni lavorio di rielaborazione armonica in una caotica incessante irruzione di immagini (reali e virtuali) che pre-tendono di sovrapporsi le une alle altre, in una forma e una est-etica di impossibile entropia dell’incontro con l’altro, a favore di uno stato generale di latente condizione di scontro e di guerra.

Tale condizione produce diversi effetti nell’identità soggettiva. Il livello razionale e il suo sistema di valori, che opera con le modalità di linguaggio dell’area mentale riferibile a Io e Superìo (Mod-Io e Mod-Sup.), è sollecitato a un incessante sforzo di adeguamento dei propri strumenti. Mentre tutta l’area affettiva e profonda (c.d. irrazionale), fatta di sensi e mondo immaginale, che opera con modalità di linguaggio riferibile all’area mentale dominata dalle (e)mozioni del corpo e che chiamo dell’Es (Mod-Es) (1), viene a sua volta come fagocitata, invasa e drogata dal diluvio delle immagini, con reazioni di rigetto o abbandono supino.

Lo sviluppo della metropoli, con gli inizi del XX secolo, fa saltare i rapporti e i relativi codici sociali ed estetici legati alla città. La città, nei suoi tratti storicamente definiti lungo i millenni, era una forma (quadrata, come quella romana, o circolare, o altra) di misura, di limite collegato al supposto ordine celeste, talché il suo spazio poteva dirsi immagine finita dell’infinito (2). E le sue parti/immagini (palazzi, chiese, campi di Marte ecc) erano soglie e simboli rispondenti a valori, miti, archetipi, in una rete che intrecciava rigido controllo sociale e percorsi rituali, entro i quali l’identità soggettiva trovava senso di appartenenza. Soggetto rimaneva ridotto al suo etimo di soggetto a, in un luogo tuttavia di possibile entropia nei rapporti tra soggetto e gruppo. (3)

A differenza del tipo di realtà cittadina, quella metropolitana tende a presentarsi come un unicum indifferenziato, che rende più difficile se non impossibile lo smembramento delle sue parti o soglie. Ogni macchina, grattacielo, dentifricio, pur essendo sempre più identici e intercambiabili rispetto ad altri milioni di pezzi, urlano tutti insieme nel coro più accavallato e frenetico: io, io; reclamando ognuno per sé il centro del mondo. E con ragione, direi, perché ne contengono l’essenza. La realtà metropolitana non consente dialoghi né avventure estensive, e il singolo tende a sentirsi come più libero e più solo in una unità-totalità che non rimanda a nient’altro che a se stessa; e spaccia la sua eternità in forma di simulacro, che definirei, integrando le varie definizioni che ne sono state date (4): immagine muta che vuole riaffermarsi in eterno, pur priva di un codice di legittimazioni altre da sé.

La necessità, la spiegazione e il grottesco stanno nel fatto che queste modalità vengono espresse da cose che devono incarnare anche la più veloce deperibilità insieme alla massima intercambiabilità. La risultante è, in termini esattamente rovesciati rispetto a quella della città, una immagine infinita del finito, spinta a recuperare in sé l’eterno di un presente disinteressato a passato e futuro. La città produce un’ideologia della verità e della bellezza, in quanto proiezione terrena del divino. La metropoli pretende di totalizzare in sé ogni valore, ponendosi così sul crinale di quel demoniaco (come definito da T. Mann) che è il sogno di onnipotenza – senza limiti è slogan tra i più frequenti spacciati dalla pubblicità, e Infinito è un portale di Internet – e quindi la sua ideologia è incistata in tale sogno, pur chiamato, al mercato dei mantelli ideologici, libertà.

“C’è oggi una forma d’arte possibile che, della frattura tra io e gruppo, renda conto avendo come limite di totalizzazione la metropoli?”, domanda Roberto Salizzoni (5). È una realtà che può essere ripresa tutta o non essere ripresa affatto. Tutti gli strappi, stracci, separazioni, vuoti e pieni – del soggetto e tra questi e società – devono allora essere riassorbiti e rifatti propri, attraverso forme e media capaci di assorbire quell’unità-totalità per espellerla e spingerla su un’altra soglia: l’epicità che consente/richiede è rovesciata, o meglio, verticale, in forme che esaltino l’implosività, rispetto alla forma esplosiva del contesto. Per questo la poesia, che tende a implodere in un linguaggio totale dell’unità corpomente, è forma di linguaggio più adatta a renderne conto.

È un contesto che pare l’esaltazione dell’orizzontalità. Persino i grattacieli appaiono forme falliche o milizie di una Terra che penetra e terrestrizza la volta celeste. Non hanno più il senso del dito dei campanili, che tenta di toccare il cielo e avvicinare così ad esso la Terra. Tuttavia, questa apparenza copre in effetti una piramide di diversità. Il festoso e luccicante mare che brilla al suo sole-neon è una falsa, ideologica, unità-totalità di una torta millestrati, piena di sassi e cemento, vetro, scaglie di plastica e granate (in)utilmente affogati nella crema. L’epica richiesta dalla sua scoperta è un viaggio nell’impossibile: addentarla e sputarla è l’unico modo per conoscere gli strati e oggetti immangiabili di cui è fatta. Ma devi proprio arrivare a morire di nausea o di fame per conoscerla, e scoprire la necessità dell’Altro, cioè di un Oltre. (6)

Tutta l’arte moderna si è misurata con questo arrogante trionfo del caos. Le sue varie stagioni l’hanno prima osannato, con adesioni di entusiasmo fanciullesco e acritico. Spesso, poi, dopo le tragedie immani da esso generate, ne sono fuggite sognando territori geografici, antropologici e culturali, in cui rifugiarsi, nella speranza vana di ri-trovare fuori da quel magma un filo acquietato di comprensione. Ne sono venute fuori forme di sogni di paradisi perduti o di serre culturali alienate in cui coltivare (l’illusione di) un dominio razionale riconquistato.

Tranne poche eccezioni, i vari “movimenti” avevano in sé presupposti carenti, perché fondati su un soggetto esaltato o frustrato, in difficoltà a misurarsi col nuovo (pure continuamente nominato) da un punto di vista critico. La novità storicosociale della forma metropoli chiede in effetti una faticosa e continua rifondazione di tale punto. E può essere anche una fatica felice se l’operazione coinvolge la totalità dei linguaggi che costituiscono il soggetto. Ma perché l’operazione possa minimamente riuscire, richiede a quest’ultimo un atteggiamento generale, che non sia né di passività ideologica, né di fuga, né di arroganza sorretta da un linguaggio di presunta penetrazione (solo) razionale.

Se allora dunque il contesto storicosociale spinge le diverse parti dell’unità corpomente a vari modi di riduzione e separazione alienanti, le forme espressive per me più valide sono quelle che si oppongono a tale tendenza; che mobilitano nel proprio corpo-testo le varie modalità di linguaggio, in modo da farle diventare campo di forze di un’esperienza di adiacenza (7), cioè di resistenza alla divisione inter e intra soggettiva. È da tale esperienza che può scaturire quella complessità di testo e di sensi cui diamo vari nomi, come realtà, verità, bellezza. La scrittura di Di Ruscio è collocata in tale linea di ripresa di sé e dell’Altro da sé, e continua a dirci che non si può riprendere l’uno senza l’altro, che essi sono solo due nomi della stessa cosa, che esterno e interno sono limiti inventati dalla nostra mente. (8)

Ne sortisce un effetto-caos di corpi e cose, al tempo stesso dominante e lucidamente ripreso, che tende a rompere “Il discorso confezionato” (9) dal Verwaltete Welt, o mondo amministrato, come chiamato da Adorno, perché posto sul crinale di carnalità difesa contro una condizione che esalta le distanze e l’espropriazione dei corpi. Tende a sortire un’immagine storicizzata, contrapponibile al tempofermo astorico della ricerca di De Chirico: meno magia metafisica a vantaggio di un agglomerato materico senza riposo, fermato in un punto che è sempre prossimo all’esplosione.

Basta qualche testo per rendere conto di quanto fin qui detto. C’è in genere un intrico di vitale corpo a corpo con i labirinti attraversati, come sbeffeggiati e trasformati in luoghi di gioia. Ne scaturisce un percorso di accumulo proteiforme, che intercala immagini di sguardo descrittivo (Mod-Io) di esterni a irruzioni di elementi immaginali (Mod-Es), fatti emergere e reinventati dai propri sensi e magazzini profondi e non piovuti dal cielo metroplitano. Ne deriva uno sguardo complessivo che rimastica, per così dire, il caos circostante, per restituirne un senso critico (Mod-Sup.) che passa da una ricostruita complessità e non da una precotta ideologia.

XXIX

mentre ovunque era la catastrofe / solo quell’immagine fuori dalla catastrofe /…/ sorta dal più profondo della nostra catastrofe / più è l’oppressione e più si alza liberata e tranquillamente liberata /…/ l’anatomia umana misurava l’universo / mentre crollava ogni misura / tutto in una prospettiva infallibile mentre tutto falliva e crollava / e da in un ultimo caos esce fuori la regola luminosa / l’estrema perfezione / il punto più alto di ogni riferimento / mentre l’avventura si faceva più sanguinosa / il nuovo centro alzandosi dalla lurida angoscia dal lurido caos / la gioia liberata tranquillamente liberata mentre tutto cadeva / un segno fuori dalla catastrofe per riprendere fiato per resistere meglio /…/ i segni dei nuovi splendori / mentre ovunque la morte e la catastrofe

CXVIII

l’ultima poesia iscritta tanto faticosamente / riprendere fiato ad ogni parola / squadrare sul vocabolario quella parola introvabile / il tutto era così luminoso intatto /…/ muore chi è veramente vivo ed è continuamente nell’irrepetibile / le ripetizioni l’ovvio il consueto sono cose senza tempo eterne / chi vive veramente è in una estrema fragilità / il miracolo è avvenuto la cosa non sarà più ripetuta / appena si è mostrata è finita per sempre

La capacità spirituale dell’uomo di spaziare a piacimento nel terreno e nel sovrumano è in antitesi con la sua impotenza fisica, all’origine della tragedia umana…L’uomo è per metà alato, per metà prigioniero”. Questa frase di Paul Klee (10) mi sembra particolarmente adeguata sia a questa fase storicosociale, sia in particolare e a chi voglia misurarsi creativamente e reattivamente con essa.

Reagire efficacemente a questa condizione che tende a totalizzare e eternizzare il presente, che quindi chiude gli orizzonti e produce depressione e disperazione, vuol dire porsi fuori, in uno stato di crisi e (rispetto alla norma) di latente follia. È lo stato della poesia, quella almeno che non si riduce a giochino verbale. La poesia di Di Ruscio lo fa perché rovescia continuamente la disperazione in gioia, passando dal sarcasmo più corrosivo al muto inerme grido del corpo, cui dà voce con sguaiata tenerezza. E la reazione vitale non è data dalla nominazione della gioia, ma dalla sua produzione che si riproduce nel nostro corpo, per cui, per dirla a suo modo, la gioia all’improvviso dilaga e trabocca da tutte le parti, grazie a questi continui corto-circuiti di adiacenza tra i vari livelli del corpo e della mente.

CXXII

Se non fossero esistite queste notti terribili / non avrei potuto scrivere una riga /…/ scrivono poesie come fossero dei grandi uomini / con le gambe per terra e la testa nel profondo del cielo / si tratta quasi sempre dell’infatuazione ottica / causata dagli antidepressivi / normalmente chi scrive poesia / è più debole della media nazionale / ha una vita difficile sofferta / più che un gigante veggente / è il cardellino accecato nella gabbietta / e non era affatto necessario / tagliargli anche le ali

CLXIII

venite esorciste bellissime liberatemi dal male / che disperatamente preme sul mio cazzo / ed è necessario nascondere il proprio strazio / per non far ridere i nostri nemici / cercare nelle fibre estreme della nostra gioia

CLXIV

La nostra gioia che resiste perfino nello sprofondo dell’inferno.

CXC

comunque bene o male di questo universo siamo / siamo l’unica consapevolezza

CIC

tenendo bene in mente che i poeti / riescono ormai a far proprio solo i valori dei padroni / la massa sanfedista si scaraventa sull’ultimo drappello / che crolla ridendo

CCXXXVI

mica crederai che per fare un figlio occorra allagamenti di sperma / in primavera ci sono giornate di nevrosi in massa / rompe i coglioni tutte queste spropositate fioriture / l’anno più fruttifero fu il quarantaquattro / quando bombardavano e ammazzavano da tutte le parti / oggi scrivo sul terrazzo il sole riscalda ancora le carte / le giornate lunghissime di Oslo e niente è certo

CCXXXVII

chiodi incandescenti sulla volta celeste che trafiggono / un Iddio spaventoso una vagina che insemina continui spaventi

CCXXXVIII

ringraziare l’ignoto / per ogni boccata d’aria respirata / per ogni camminata fatta / per ogni pedalata ed ogni scritta felicemente espressa

CCXXXIX

passavamo felici e incazzati /…/ vivevo l’atroce perché la fine della speranza / era stata bene interiorizzata / riuscivo a fare il comico di tanto strazio

CCXL

se vedo tutto attraverso la luce riuscivo a vedere / anche l’assoluta mancanza di essa / scendere e risalire dal nulla più spaventoso

Occorre dunque un centro informatore unitario, da cercare e (ri)costituire in primo luogo dentro di noi, di fronte a un ambiente labirintico platealmente privo di centro. La città a suo modo era un sistema iconografico e simbolico di un ordine sociale e mentale. Etica ed estetica si incontravano in luoghi in cui la ritualità faceva da mediazione. Nella metropoli la mappa tende a una ripetizione modulare, di immagini (sia virtuali che concrete) in cui la distinzione di vero e non-vero, di valore e disvalore, è affidata al soggetto. Intere facciate di palazzi sono per esempio ricoperte da cartelloni pubblicitari. Elegantissimi edifici possono essere sedi della criminalità organizzata. L’immagine non garantisce perciò più alcuna corrispondenza con ciò che la sua sintassi declina. E questo si ripete a livello di abiti e oggetti che ricoprono il corpo umano.

Dunque, da un lato il soggetto (nella sua integralità corpomentale) è sempre sul punto di essere travolto dal magma in cui è immerso, ridotto a cosa tra le cose, oggetto tra gli oggetti, se non a immagine scorporata tra le immagini. Dall’altro la sua funzione potenziale è esaltata, quale unica possibile fonte di lettura e di re-istituzione di un punto di riferimento, essenziale per affrancarsi da una totale passività e alienazione.

La ricerca di un linguaggio re-attivo, che voglia misurarsi con tale realtà deve tendere, più che a rappresentare o a riprodurre tale realtà, a rielaborare nel proprio corpo di segni tale forma mai riconciliata in un possibile equilibrio dell’insieme. Tutte le forme che tendono a dare un senso di tal genere diventano false, distanti, e quindi non belle, se il bello deve accogliere almeno l’alone del vero, o il suo splendore (come auspicava Platone).

Je vous dois la vérité en peinture, et je vous la dirai”, affermava Cézanne; che voleva significare?, si chiede Derrida (11). L’ergon, opera-testo pittorica o letteraria, è sempre contornata da scritti che compongono il paratesto: nome e firma dell’autore, data, titolo, note, legenda, esergo ecc.; e rientra in tale spazio, sostiene opportunamente Derrida, anche il tentativo di leggere criticamente l’opera, non tanto con l’obiettivo di farle dire la Verità, quanto di contribuire a dis-piegarla (più che spiegarla), con un’azione di “svelamento” (12) dei suoi innumerevoli strati (pari a quelli della metropoli) di significato, facendo emergere l’invisibile o le modalità di linguaggio collegate a ciò che per statuto si nasconde e dissimula le sue profondità, quella galassia di modi che ho chiamato nel mio libro “Ricerche e forme di Adiacenza”, Mod-Es. È qui che interviene la capacità dell’artista, come soggetto capace di ri-attivarsi e ri-appropriarsi dei linguaggi di cui è costituito, per essere soggetto, inteso non più col senso di componente assoggettata e subordinata, ma come polarità autonoma.

Tutto questo – complessità metropolitana e soggettiva e loro reciproco inestricabile intreccio esterno-interno – trova una corrispondenza nello sguardo, nel progetto e nella scrittura di Di Ruscio. Per esempio distrugge e ricostruisce il concetto di realtà, non più concepibile come un monolite altro, posto di fronte alla nostra interiorità: tutto l’invisibile della realtà metropolitana corrisponde al nascosto (conscio e/o inconscio) dissimulato dal visibile e dalla complessità dell’insieme della nostra realtà corpomentale. Sia quest’ultima che quella urbana sono un soggetto-corpo fatto di corpi di corpi, come dice Giancarlo Majorino (14).

Indagare l’intrico di tale concetto di realtà soggettiva/extrasoggettiva, intesa in questa forma nuova, mobile e non rappresentabile da un’operazione (mentale) solo razionale, porta i vari linguaggi ad avvicinarsi e ad entrare nel gioco di una ricerca necessariamente interminabile e complessa, al pari della materia di cui si occupa. Porta a capire a fondo che la realtà non è un dato, ma un’operazione mentale, tanto più adeguata al referente, quanto più tutte le proprie modalità di linguaggio sono coinvolte.

Senza l’irruzione di quell’insieme di modalità di linguaggio che chiamo Mod-Es si costruisce solo l’immagine di un falso esterno, i segni non fanno il salto dalla metafora alla metonimia, diventando immagini che collegano la parte al tutto, diventando connessioni di emozioni e infine carne, materia, componenti del corpo. Corpo, che non è più materia altra rispetto alla mente o a ciò che chiamiamo anima, ma nient’altro che forma di queste ultime.

Perché questo possa essere raggiunto occorre un punto di partenza e un metodo costruttivo. In Di Ruscio tale nucleo profondo, oscuro e unitario è ritrovato e riaffermato in sé, come voce di un soggetto sociale che non accetta di essere ridotto a cosa tra le cose..

L’energia necessaria per compiere tali operazioni (mentali) comporta una inevitabile rottura di canoni che sono a un tempo eticosociali ed estetici, comporta autentici miracoli di distruzione-ricostruzione in un unico nodo, di ambiti che il caos metropolitano fa apparire come autonomi e separati. Se tutto questo è inteso a fondo si capisce anche la forma fluviale, che in questa “Ultima raccolta” tende addirittura a rompere gli argini di qualsiasi apparente forma versificata: “mi dissero anche che nella prosa sottoscritta c’è molta poesia e nelle poesie moltissima prosa facendo una confusione della madonna sui generi letterari”. È una fluvialità irruente e necessaria generata da una altrettanto necessaria esagerazione (proletaria, quanto l’enfasi è borghese), che insieme a una straordinaria capacità di vendetta della vita non può non comportare una componente di allucinata follia e non trascinare nel suo flusso materiali di scarto, ciarpame e rigurgiti inopportuni o poco eleganti. Anche questi sono dovuti e chi non lo capisce è solo più povero:

CCCIV

lo strazio della fabbrica risultava indicibile / chi era dentro l’inferno della condizione operaia non diceva niente / e chi era fuori della condizione poteva dire tutto però non sapeva niente / quindi il poeta doveva calarsi nell’inferno quotidiano / ungersi le mani in quaranta anni di putiferi / partire alle cinque del mattino con la bicicletta / anche con venti gradi sotto zero verso la fine del mondo / con una furibonda allegria timbro la mia presenza / che attesta l’esistere anche di codesto sottoscritto

Note:

1) Adam Vaccaro, Ricerche e forme di Adiacenza, Asefi Terziaria, Milano 2001

2) Rosario Assunto, Le due città, in Rivista di estetica, Rosenberg & Sellier, Torino 1980

3) È utile ricordare, per i successivi raffronti con la realtà metropolitana, l’immagine del tempo che emerge dallo spazio-contesto della città. Finché rimane prevalente la circolarità estensiva della civiltà rurale, la città storica ne è una sorta di nodo intensivo, in cui in ogni fine poteva essere visto un inizio e viceversa (“in my biginning is my end /…/ time present and time past / are…present in time future”, nel celebre quartetto di T.S. Eliot); e in ogni istante poteva essere vista in una “immagine mobile dell’eternità” (Platone, Timeo).

4) Da Deleuze, immagine demoniaca, a Foucault, vana immagine, a Perniola, immagine che rimanda a se stessa.

5) Roberto Salizzoni, Città e metropoli, romanzo ed epos, in Rivista di estetica, Rosenberg & Sellier, Torino 1980

6) Questo implica un totale superamento della teoria della conoscenza fondata sin dalle sue origini dalla cultura occidentale: conoscenza come operazione di trasferimento di elementi che esistono già dati e fuori di noi, da un esterno a un interno (mentale). La realtà metropolitana può forse fornire una condizione favorevole alla percezione che tutta la nostra conoscenza è opera della nostra totalità mentale – di sensi, affetti e razionalità e delle rispettive modalità di linguaggio. La coscienza della completa responsabilità della nostra operatività mentale rispetto a ciò che chiamiamo realtà, verità e ogni altra cosa visibile e invisibile, la dobbiamo alla metodologia operativa, fondata da Silvio Ceccato e altri, più di mezzo secolo fa. La letteratura metodologico-operativa è ampia; si veda in proposito, anche come fonte bibliografica: A.A.V.V., Studi in memoria di Silvio Ceccato, Roma 1999.

7) Adam Vaccaro, cit.

8) Mi sembra adeguato in tal senso qualche richiamo al testo di Eleonora Fiorani, “Il mondo degli oggetti”, Lupetti, Milano 2001. Ricordando Bloch e lo sforzo di “ristabilire il nesso perduto tra soggetto e mondo, tra fenomeno e noumeno, tra l’apparire e l’essere”, E. Fiorani ricorda che da “un oggetto della vita quotidiana”, quale un vaso o una brocca può scaturire una riflessione profonda: “la vecchia brocca conduce all’incontro con il Sé…Perché, come scrive Calvino ‘ogni uomo è uomo più cose…il se stesso che ha preso forma di cose’” (p.34). L’A. poi aggiunge a p.35: “L’uomo non solo utilizza le cose che trova in natura e dà loro senso, ma costruisce oggetti…utensili”, con i quali si stabiliscono connessioni “tra attività tecnica, linguaggio e simbolizzazione…È nel ciottolo scheggiato a taglio vivo che si dà l’origine dell’esperienza tecnica umana e l’uomo prende coscienza dell’altro da sé, del mondo che lo circonda”. È il fare, in particolare il fare creativo, il poiein, che in sostanza attiva tutte le nostre modalità di linguaggio e produce insieme agli oggetti la percezione del soggetto-mondo, un soggetto che non è altro dal mondo, ma è il mondo perché lo fa.

9) Lamberto Pignotti, Il discorso confezionato, Vallecchi, Firenze 1979

10) Paul Klee, Quaderno di schizzi pedagogici, Vallecchi, Firenze 1979

11) Jacques Derrida, La vérité en peinture, Flammarion, Parigi 1978

12) E. H. Gombrich, Immagini simboliche, Einaudi, Torino, 1978

13) Giancarlo Majorino, Autoantologia, Milano 2001

Adam Vaccaro

Febbraio 2003

4 comments

  1. Lorenzo Pezzato ha detto:

    La rete è un sistema ad altissimo decentramento dove il baricentro è un fatto momentaneo. Se il web fosse una città, non ci sarebbe la piazza centrale con il duomo.
    Comprendere come qualcosa possa mantenersi in equilibrio senza un centro di gravità comporta uno sforzo per scrollarsi di dosso molte abitudini, è necessario immaginare un sistema formato da indipendenze interdipendenti, una specie di ossimoro delle relazioni. Siamo portati a visualizzare le relazioni organizzate in categorie ordinate secondo criteri verticistici o centripeti, e non è facile cambiare schema.
    Navigare il web rende percepibile la mancanza di quei criteri, non vi sono punti di origine, di equilibrio o di fine, vi sono infinite piazze ed infinite cattedrali, ognuna centrale rispetto a qualcosa e a qualcuno.
    Dalle mie parti, in Veneto (ma non solo), il territorio è punteggiato da un’urbanizzazione diffusa, sparpagliata e distribuita orizzontalmente tanto che le periferie di comuni confinanti sono praticamente scomparse lasciando spazio ad un continuo centro. La si chiama in molti modi, metropoli diffusa, metropoli del Passante (quello di Mestre) e via dicendo, di fatto è un continuum di municipalità che potrebbero benissimo essere riassunte in una unica. Naturalmente senza un centro-baricentro, senza un duomo predominante.
    Isotropia è il concetto che applicato allo sviluppo urbanistico permetterebbe un fortissimo decentramento, tale per cui ogni residenza sarebbe più o meno alla medesima distanza da una fermata dei mezzi pubblici, da una piazza, da una farmacia e dagli altri servizi primari.
    Naturalmente questa diversa configurazione non diminuirebbe l’entropia, il caos interno-esterno, della metropoli, seguirebbe invece più da vicino la necessità del soggetto di essere centro, non più quella di “andare in centro”.
    Centro e periferia sono concetti superati e con essi le tensioni, i fatti di incontro-scontro tra realtà diverse. Permangono invece differenze in una proiezione economica e di status, di censo:

    Babilonia 21

    Città degli dei
    decidi le sorti
    convulse di cittadinanze
    fluttuanti in terreferme
    mobili tettoniche
    a placche subsidenti
    garage sotterranei
    attici dominanti skyline
    strati farciti di censi
    diversi –credi- meglio
    nascere upper.

    Il melting-pot, un tempo collegato al centro delle grandi metropoli, ora si è spostato nelle periferie dove finalmente abbiamo imparato a riconoscere i laboratori delle forme di convivenza del futuro, un futuro che ci è già addosso nonostante il dilatarsi del presente. Oggi l’ombelico del mondo ci segue via cavo o parabola cosicché “fare parte del gruppo” diventa l’ennesima scelta nelle mani dell’individuo, l’ulteriore particella del proprio spazio-tempo riconquistata ad una socialità invadente, pressante anche per un banale indice troppo elevato di abitanti per chilometro quadrato (anche se nella metropoli verticale dovrebbe calcolarsi il chilometro cubo).
    L’irrompere della ex-periferia nell’ex-centro ha disciolto anche quella sensazione di libera prigionia tipica dell’abitante metropolitano che ha (ri)scoperto ormai l’esistenza dell’altro da sé, in una sorta di fuga rizomatica del fuori porta, e la metropoli non può più pretendere di totalizzare in sé ogni valore. La proiezione del divino si riveste di pagano e contempla la natura, la villetta con giardino, il rustico in campagna quando possibile, declassando il grattacielo a malsana dimora per chi non ha scelta.
    L’irrompere dell’ex-centro nella ex-periferia si porta appresso un fiume di “intellettualità” che sta radicalmente modificando le piccole realtà (i comuni) generando una cittadinanza diversa con aspettative e richieste differenti in tema di cultura e servizi, una cittadinanza che chiede di riaprire teatri e cinema, che diventando platea numerosa attrae gli artisti, che spesso ormai siede nelle Giunte e determina in prima persona le scelte delle Amministrazioni.
    Diluizione del centro è anche rarefazione delle marginalizzazioni, costrizione a inglobare e risolvere il disagio per impossibilità di riporlo al confine, al di fuori di un perimetro d’attenzione, esattamente quello che oggi non accade agli angoli più periferici delle metropoli. Abbiamo intuito che la centralizzazione –in ogni campo- è figlia di un’epoca in cui il castello del Signore si imponeva sul territorio, ne diveniva il cuore pulsante e la fonte irradiante, tempi in cui rappresentatività e rappresentazione erano fenomeni piramidali e l’estetica del potere si fondava sul nucleo ristretto.
    Dobbiamo probabilmente archiviare l’icona del poeta-cittadino metropolitano e sostituirla con quella del poeta che fa poesia a casa sua, ovunque essa si trovi.
    La nuova Babilonia è orizzontale, senza dubbio.

    Lorenzo Pezzato

  2. Adam Vaccaro ha detto:

    Ringrazio Lorenzo di questo e altri suoi commenti, sempre articolati e stimolanti, come ad esempio fa qui, ampliando opportunamente l’analisi da me proposta, dal territorio alla rete. Me ne sono occupato altrove, per dire che gli scambi tra essi sono oltremodo complessi: il c.d. “reale” è a volte più virtuale del c.d. “virtuale” e viceversa. La rete (come ogni medium, comprese l’arte e la poesia) può essere una illusione marginale o ancillare (del potere), o una narrazione che reinventa la vita, rimane e ricostruisce il nostro DNA culturale e ci aiuta a vivere (meglio) perché diventa materia condivisa da un noi. E’ il problema e il pane che manca di tanta poesia contemporanea? I nodi che proviamo a dipanare alla fine tendono a questo.

    Adam

  3. Lorenzo Pezzato ha detto:

    Sono io che ringrazio dello spazio e degli spunti.
    Un “noi” è esattamente il punto della questione, anzi, il “noi” mancante declinato in due modi.
    Manca un noi poetico, la consapevolezza dell’esistere e fluire di un fiume carsico, manca la coscienza che la poesia non muore mai e che perciò non è morta neanche oggi. Direi, meglio, che più in generale gli intellettuali hanno smarrito la dimensione del noi, dell’essere una delle forze socialmente preponderanti.
    Poi manca un noi civico, la percezione dell’essere una comunità prima di tutto culturale, la voglia di proporsi ancora una volta come culla delle arti e dei saperi. Ma da qui in avanti il discorso si farebbe lungo, complicato e comporterebbe una serie di riflessioni a trecentosessanta gradi che tutto sommato possiamo risparmiarci, essendo i fatti sotto gli occhi di tutti (noi).

  4. adam ha detto:

    Sono felice di queste consonanze e chiedo a Lorenzo di proseguire, se vuole, anche personalmente con gli scambi. Le mie caselle email sono nel sito.
    Adam

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