L’adolescenza e la notte

Pubblicato il 14 giugno 2015 su Saggi Poesia da Adam Vaccaro

Domande all’Arco teso della Vita

Luigi Fontanella, L’adolescenza e la notte, Passigli Editori, Firenze 2015

Adam Vaccaro

C’è in questo ultimo libro di Luigi Fontanella un nervo teso al racconto, al bisogno di far riemergere figure e squarci di vita, di Tempo. Nervo che comunque è presente in ogni sua raccolta e in tutto il suo percorso di scrittura. Non si tratta di un tempo astratto e generico, o storico, della Storia grande, ma più semplicemente del tempo vissuto da chi scrive. E non è un tempo letterario, teso al tempo perduto, o fatto di roto-lamenti intimistici. È un tempo fatto di carne e vita del Soggetto Storicoreale, che la scrittura fa sentire adiacente al braccio del Soggetto Scrivente e che, per questo, (ci) riguarda e coinvolge tutti.

Ci riguarda il Tempo e la battaglia vitale che comporta, che opera qui e ora rispetto alla misura e al senso del limite che impone e (ci) insegna. È il nucleo centrale dei molteplici sensi di un libro limpido e complesso, anzi, limpido perché complesso. Che critica implicitamente i fumosi esercizi verbali di cui si adorna molta poesia contemporanea. La complessità non ha bisogno di ornamenti superflui, ma di sensi disvelati.

La complessità opera a strati e salti di sensi, quale è la forma di questo libro. Cosa disegna e designa, allora, qui, il termine Adolescenza? E cosa si contrappone all’adolescenza, con l’immagine altrettanto metonimica della Notte, altro polo di sensi indicati dal titolo del libro? L’adolescenza è l’età dei primi cruciali bagliori della formazione di un’identità, in cui cominciamo a riconoscerci grazie alle relazioni con persone e luoghi, qui inscindibilmente congiunti al sole mediterraneo della Salerno in cui l’autore è vissuto negli anni ‘40-50 e fino a tredici anni. L’adolescenza è immagine fusa e stampata nella memoria dell’Autore sotto il sole di quelle estati, entro le quali: “I pomeriggi assolati/ liquefanno il nostro cortile” (p. 25).

Così, l’adolescenza è la luce che abbaglia in quel “piccolo e confuso…Centro del Mondo” (p.63), primogiardino (come lo chiama Claudio Magris) in cui ci disegniamo il mondo (“Il nostro cortile è un campo di battaglia/ piccoli trionfi o cadute nella polvere”, p.37), o in cui scopriamo la “primissima figurazione” del “centro vitale del mondo” (p.64), quale è il sesso e  un eros senza parole, che ci apre all’altro: “Il bacio/ di Anna Pierro, il desiderio/ che esplode improvviso/ nell’afrore estivo” (p.47). Eros e gioia, germinati “nel candore dei miei tredici anni” (p.49), in attimi d’infinito (quali intesi da Platone) che diventano il tabernacolo in cui custodire realtà, immaginazione e memoria.

È un impasto che, tra interno ed esterno, emozioni e relazioni, trasmette una immagine di Autentico, forse illusoria, ma il testo ci dice che non è la Verità che conta, quanto quella in re, nell’incrocio fenomenologico   di esperienze e vite che rimarranno centro vivificante in tutto il nostro percorso successivo. E dico nostro, perché è quello che fa sentire il libro, e che distingue i testi di lettere vive da quelli di lettere morte.

Rispondono a tale carattere diverse scelte formali, come quelle di indicare con nomi e cognomi le persone citate, togliendole così dall’indistinto, dal mondo di ombre in cui continuano a danzare come in attesa del nostro richiamo, nel tempo che ci è dato, sempre presente e sempre passato: “I miei alleati attendono nell’ombra./…ferma nel tempo” (p.32).

Il Tempo è ovviamente tra i termini ricorrenti, nei vari modi in cui la nostra complessità percettiva e mentale lo vive. Il suo scorrere non è né lineare o a ritmi regolari, né a senso unico, come concepito dall’Io. Vedi a p.31: “In certe Domeniche lente e lunghe/…nel mio percorso a ritroso”, dove la scelta della maiuscola indica l’oltre del consueto, l’esperienza del roveto ardente o del sacro. Il tempo è perciò enigma che non si scioglie, come a p.26, con un richiamo Shakespeare: “Brucia il tempo la sua continua/ imminenza”.

Dunque “Bisogna strappare le pagine” (p.27), di un libro che pare nostro, ma non ci appartiene, in un groviglio inesausto di illusioni e imposizioni: “Questo è un film che posso modificare/ a mio piacimento” (p.40), ma se “Il pomeriggio se ne va”(p.42) lento e lunghissimo, poi “un momento e già subito un ammasso di anni” (p.43): “film muto” (p.26) e “circolare concerto” (p.44), che rimane imprendibile: “La musica è la stessa/ e si ripete ossessiva come in un film./ Ricordi Vertigo? Ricordi quel/ passo verso l’ignoto/ innamorato di se stesso?” (p.45).

È questo il film. Persiste però “quell’antica luce/ dorata che un tempo illuminava/ il pane sulla tavola” (p.46), in cui il tempo sa di miele e innerva anche il bisogno di scrivere. Sia per dare parole al primo incontro con la nostra autenticità, sia per dire dell’età successiva che, qui, più che maturità, dovrebbe (se consentito) essere chiamata adultità, con la stessa radice di adulterazione e dei sapienti mascheramenti.

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È l’età della notte, titolo della II parte del libro, immagine di molteplicità di sensi, quali accumulati da questa figura archetipica. Alla luce dell’autenticità dell’adolescenza subentrano oscurità e maschere delle convenzioni sociali. Ma non è solo simbologia in negativo, come all’opposto l’adolescenza non è ingenua o nostalgica idealizzazione positiva. La notte diventa inevitabile pedaggio all’acquisizione di coscienza della complessità della vita: essa “assorbe tutto”, “custodisce/ o rinnova il silenzio”, nasconde, falsifica con “i giochi della mente,/ il sangue di qualche innocente”, le storie e la Storia, “perfetta nei suoi scismi…nei suoi delitti.”. Per cui quel “concerto circolare” e “film muto”, sembrano declinare verso un “sogno e realtà nell’unica sequenza,/ sempre la stessa, sempre la stessa.” (pp. 56-57). Ma la prospettiva di un’ossessione di vertigine tenebrosa, di un silenzio che ripete quanto già detto nei “miei libri allineati”, che a tratti paiono patetici soldati dell’illusione della maturità di controllare tutto, genera anche altro. Ne scaturisce un grande avviso ai nostri limiti umani. Compresi quelli della scrittura e del proprio poièin.

Ne scaturiscono visionari “stati di dormiveglia” (da una nota dell’Autore), con preghiere, memorie e domande che si confrontano con gli eterni enigmi del nostro stare al mondo: “La notte stanotte è una lieve ballerina/ un minuscolo pellicano che/…tra bianchi vapori/ porta nel becco, come un lampo,/ la mia giovinezza…un filo d’erba –…un filo d’erba/ fu il primo regalo di Emma” (p.72). La Notte ci dice che siamo “Nati per ardere e morire”, che siamo “palla da bigliardo/ che sbatte impazzita” (p.74), che “Ti dirai che/ forse è davvero tutto governato dal Caso.// Ti dirai come si fa a perdere gli altri/ come si fa a guadagnare se stessi” (p.77), domande senza risposte “in questo fumo demente e dimentico”(p.78), in cui “Lotto/ con l’oscurità del tempo” (p.79).

Dunque, lotta contro l’oblio, la fine che ci attende e il tempo ci consegna: “una sfida di farfalla” (p.81), una sfida che si impone anche se non la vinceremo. O forse è solo l’arte/la poesia che alla fine la può vincere? È essa che consente di dare corpo alla paura “di scomparire nel vuoto” (p.39), la paura non della morte in sé, ma del non essere, della perdita di relazioni autentiche, quelle che ti aiutano a superare “A occhi socchiusi…/ vilipendi e ferite” (p.28). È lei che se “Nulla/ più riconoscibile” della “Salerno…cinque anni della mia adolescenza” (p.50), “perché domani e ieri/ sono precipitati nel nulla/ e le sillabe impazzite/ si confondono tra loro”; è lei che resiste al silenzio per dire che “La nostra adolescenza resta incisa in un gesto che…c’è sempre stato”, in quel “rustico campetto/ sotto casa” (p.52).

Ed è grazie a lei che troviamo la forza della debolezza che fa riconoscere: “Non sono mai entrato nella vita./ Mai appartenuto a qualcuno…Ma mi commuovo per un nonnulla, l’adolescenza/ è assoluta ed eterna./ È l’unica cosa che resta” (p.24) – (auto)denuncia limpida, forte, che non ha bisogno di arrotolamenti nebbiosi, maschere e suoni sinuosi, ma poveri di possibilità di conoscenza in re, che toccano l’osso delle cose. È questa la forza che nel percorso accidentato della vita dà un comandamento vitale ed etico: “Dovrai sapere riconoscere/ il punto in cui incontrerai/ l’altro te stesso”, quello autentico, “Poche// le volte in cui questo avverrà” (p. 29).La notte fa dunque anche regali preziosi: “È nella nostra debolezza/ che risiede la nostra immortale umanità”, rovesciata poi nella domanda: “Chi/ vorrebbe davvero essere immortale?”, regali di coscienza dei limiti del destino umano (e di tutto il ciclo vitale), che può con serena accettazione e tenerezza voltarsi ed esclamare: “O felice incoscienza dei ragazzi!” (pp. 82-83).

Per questo “La sacra notte invoca/ una calma rivolta: una sirena/ che chiama a raccolta i seguaci del nulla/ i secondini del nostro quadrato.” (p. 55), dove il nulla è sì la morte, ma dell’autentico: è la falsificazione della vita che crea una prigione, in cui siamo i carcerieri di noi stessi. Per cui, se “Siamo e restiamo solo iniziali” (p.68), alla “Sorella Notte,/ Madre Notte” (p.71) vengono rivolte persino preghiere, anche se “esercizi inutili”(p.70), di essere riconosciuto, salvato liberato: “Riconoscimi, Notte”(p.69).

Una richiesta rivolta allo specchio buio della notte, rotto da slarghi visionari da cui fuoriescono fili/figli della propria trama vitale (con senso testuale e carnale) invitati a fare “girandola” erotica e ri-creativa, insomma a continuare la vita, quasi irridendo “tra nebbie e fumi diradanti”, “il Dissipatore” (ricordo del personaggio di Settimana di sole di T. Landolfi), “bianco in viso…/ nero il suo cappello/ lieve il suo sorriso un po’ beffardo/…mentre/ dalla vicina montagna sgusciano/ combattenti rivoluzionari. Sono/ i miei alleati. Ripartirò con loro/ senza voltarmi più indietro” (pp. 61-62).

Cosa rimane infine cui appigliarsi in questo quadro che pare chiudersi in “un imbuto grandioso” (p. 38), quale è disegnata la New York contemporanea, metafora e simbolo di una notte che riguarda tutto l’Occidente. Centro del Mondo, dominato da fretta delirante e “Quattro goffi e grotteschi/ in questa febbre di potere/ sul proprio carrozzone/ i detentori della nostra pubblica res” (p.66).

Ben altro era quell’iniziale “piccolo e confuso…Centro del Mondo” (p. 63), che non aveva altra fretta che quella di crescere, entro un bisogno forte di autenticità. Bisogno ancora più acuto se le tensioni della società globalizzata e i suoi poteri creano solitudine e disgregazione di comunità e relazioni, per cui la coscienza (si) dice “Procedo in un sentiero ambiguo/ …senza verità” (p. 67) mentre  accumula domande su tutto ciò che nella notte resiste della nostra misura umana.

Maggio 2015

Adam Vaccaro

2 comments

  1. Salvatore Violante ha detto:

    Una lettura davvero convincente che indica la chiara chiave d’ingresso di questo splendido libro: coglie la sostanza di tutta la poesia di questo grande nostro poeta.

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