Helene Paraskeva – Storie, Sogni e Segreti

Pubblicato il 7 novembre 2022 su Saggi Poesia da Adam Vaccaro

STORIE, SOGNI E SEGRETI
di Helene Paraskeva, poesie, Fuis, 2018

Lettura critica di Francesca Farina

Il volumetto, pubblicato a cura della Federazione Unitaria Italiana Scrittori, agile ma tutt’altro che semplice o di facile lettura, se non apparentemente, comprende tre diverse sezioni, che tuttavia si intersecano tra loro come in arcane corrispondenze, quasi a richiamare la nota poesia di Baudelaire dal titolo omonimo. Nella prima sezione intitolata Storie, sin dalla poesia incipitaria Profughi, l’angoscia della Storia, del tempo presente che siamo vivendo, del tempo declinato in ogni suo modo, spinge la poeta a immedesimarsi nella condizione di colui che vaga perennemente lungo le strade dell’esistenza e della terra, portando pesi intollerabili, realtà che la stessa autrice, di origine greca ma residente in Italia da molti anni, probabilmente ha sperimentato e che non può non destare amare riflessioni sul destino dell’uomo. Un grido promana dai versi, una disperata ricerca di evidenza contro lo sguardo cieco del mondo, che nega la realtà tanto tangibile della violenza subita dai diseredati, dell’abbrutimento degli ultimi. Il delitto dell’indifferenza permea le menti, più che gli occhi, di chi non si cura del simile, lo ignora, lo cancella dalla vista e dal cuore.
Ancora grida di selvaggio orrore che invocano amore, corrispondenza, attenzione, laddove non esiste compassione, accettazione, compassione: muri, lacrime, valigie in Profughi e barriere, una fuga priva di speranza, e tuttavia la sofferenza umana senza senso potrebbe far “crollare i muri”, mentre nell’abisso dei gorghi marini si gioca la sorte tra chi sarà salvato e chi sarà sommerso: come se scalassero una montagna d’acqua, i naufraghi risalgono la china delle onde per non esserne travolti. L’angoscia della eliotiana “morte per acqua”, dopo aver attraversato senza cibo né bevande il deserto di un mare più crudele di quello di sabbia, è lontana dalla retorica delle parole degli indifferenti. Ma neppure all’Isola di Lesbo, il beato luogo dell’anima a cui allude la poeta, che vide Saffo aggirarsi tra le fanciulle del suo tiaso, si ritrova un po’ di pace, se ora è diventata rifugio precario e spaventoso dei miseri profughi di guerra, i cui “panni scoloriti” “violano l’atarassia delle agavi immortali”: perfino le sacre, eterne piante paiono assorbire il dolore di questa tragedia.
Nessuno, neanche la potente Medusa anguicrinita, leggiamo in un’altra poesia, benché supplicata dai suoi stessi serpenti, può salvare le vittime che sprofondano nel nero abisso dell’indifferenza, oltre che delle paurose onde del Mediterraneo. La grandezza degli dei atavici, che intervenivano a soccorrere gli antichi eroi, nulla può di fronte al nuovo sfacelo dei corpi e delle anime. Mostruosi, terribili pesci emergono dai flutti, tra le reti dei pescatori: un “Bambino vestito a festa”, ma forse ne abbiamo già dimenticato il nome, non la postura, simile a quella di un bambolotto di pezza abbandonato sulla spiaggia: nessuna salvezza per lui, nessuna pietà.
Un’improvvisa, tenera nostalgia investe i versi, dopo tanto orrore: il passato fuggito, le estati volate via come aquile, tutto ritorna nella poesia che fa risorgere ogni sentimento, ogni memoria, ogni parola, le persone amate e scomparse ma non dalle strofe, il desiderio del ballo, del canto, delle risate, della vita stessa: la poesia ricostruisce sulla pagina e ridesta a nuova esistenza tutto ciò che si credeva perduto per sempre. Anche l’amore colma di sé i testi, l’amore che arriva inaspettato e che tutto travolge, destato da “un uomo impavido” che sfidò gli eventi tragici della Storia, un bene assoluto, bramato, che trascina in un precipizio, un infinito tutto, indimenticabile e inesauribile. Immagini potenti vengono poi suscitate in Fantasmi, i cui versi sono ritmati come al suono del tamburo della voga, in un’imbarcazione: ed ecco che grazie alle parole della poeta si innalza di fronte a noi Desdemona, condannata a morte con violenza barbarica dal suo Otello, ecco Famagosta, ecco le galee e le onde, ecco il delitto e la passione, il Tempo che tutto annulla.
Si ritorna a volte a casa, nella memoria, al luogo del lutto, della tragedia annunciata, mentre imperversa un’estate furente, e ci si sente quasi invasori nella propria terra, assai bene connotata da pochi versi, certo la Grecia, patria della nostra autrice. Una leggenda millenaria si accampa sulla pagina, la splendida Sirena dalla sensuale postura, mentre l’amore aleggia tra le rocce e il cielo, fino al compimento del suo destino, al recupero doloroso della propria mortalità. La Storia è importante, questo ammonisce l’autrice da altre strofe, a conclusione di questa prima sezione del volume: dobbiamo “rimembrare tutto” e per primo il secolo appena trascorso, l’oscenità dello sterminio, parola d’orrore, odore di morte alle narici, i forni crematori ancora caldi di corpi…e oggi nella nuova, atroce guerra, sappiamo che dimenticare può costare la vita.
In apertura della seconda sezione, intitolata come detto Sogni, l’amore entra di soppiatto con la grazia di un “sogno estivo” e si fa largo tramite la dolcezza delle sensazioni e dei sentimenti, così baci e visioni si mescolano tra loro fino a creare illusioni meravigliose, fatte di fuoco come il sole d’agosto, altrettanto necessarie della stessa luce del sole. La classicità arriva quasi inevitabilmente nella poesia dedicata a Icaro, con la grecità di cui è intrisa l’esistenza, l’anima stessa della nostra autrice che si fa largo tra le frasi poetiche e squarcia l’ineluttabile, facendo trionfare ancora il mito antico quanto l’uomo nella necessità del volo, l’impossibile anelito che sempre attira al cielo e fa precipitare le ambizioni umane in un eterno baratro.
Perfino nello sport, esaltato dal testo successivo che si intitola Sci nautico, si colgono echi sovrani di classicità, la mitologia degli antichi emerge ancora, siamo di nuovo a Olimpia, nello stadio o nello specchio di mare di fronte ad Atene, ad eccitarci nello slancio che fa ebbro l’uomo che aspira al volo e alla libertà. Talvolta le poesie di Helene Paraskeva si fanno criptiche, ma bastano pochi nomi, quelli immortali di Kavafis o Seferis, a suggerire un intero universo, una stagione ardente, sensualità di colori accesi, di corpi esposti, e ancora desiderio di libertà, oltre la finitezza dell’umano, parola-chiave della sua narrazione. Ma quale sarà l’isola non trovata, la “terra perduta” della poesia Senza nome di cui parla la poeta alla pagina 43 del suo volumetto? Forse quella dei sogni mai avverati, delle occasioni mancate, dei traguardi mai raggiunti? Una nostalgia d’eterno mai sanata si rivela tra i brevi, lancinanti versi che ci fanno andare oltre l’apparente semplicità, in realtà succo distillato di senso, parola che squarcia, pensiero che dilata la vita fino all’impossibile immaginazione, vero regno del poeta. Una fiaba, una leggenda, un mito riassunti forse in questa Occhi d’oro in cui Helene Paraskeva traccia delicatamente il ritratto della dea dell’amore, la “Maestra dagli occhi d’oro”, Afrodite appunto, colei che sorse dalle acque dell’isola di Cipro, colei che insegna ad Eros la sensualità e non permette a nessuno di sfuggire al suo sguardo, di non sottoporsi al suo dominio, quasi nuova Medusa abbagliante e inesorabile.
Nella successiva, sempre dedicata ad Afrodite, sembra di assistere alla nascita della dea suprema e avvertiamo le tenerissime sensazioni che dovette provare la Dea e chi per primo la vide emergere dai flutti del mare Egeo o Greco, posata poi la mano “sulla tiepida sabbia” del litorale, l’ombelico divino esposto alle acque, alla luce, eppure l’amore è stato calpestato, quasi cancellato, perché sappiamo bene quante volte questo delitto è stato commesso col massacro pressoché incessante delle donne.
Nella terza e ultima sezione intitolata Segreti, ancora il mito classico greco pervade come un’ombra sotterranea, ma vivissima, esuberante, la pagina, e qui è Edipo a dominare i versi, ed Ercole, e Tebe, e Giove, ma anche la Bibbia con Isacco il capostipite, nomi che permeano le nostre esistenze con le loro antiche rimembranze. Il desiderio del ritorno, o meglio la nostalgia, ossia il dolore del ritorno, compongono un’unica quartina dal titolo Ancora e ancora e… colma di struggente malinconia: si vorrebbe sempre tornare, ma occorre rendersi umili e accettare di ritornare anche al se stesso di un tempo e al rischio di sentire “amara” perfino la propria terra. Nel testo successivo, la poeta ci propone quasi una rilettura dell’Amleto di Shakespeare: qui la Regina col suo mistero, forse la complicità nel delitto del suo stesso sposo, è come se si stesse risvegliando dopo l’incubo del suo assassinio e vorrebbe allontanarne l’orrendo ricordo, avviandosi lungo una strada infernale. Eppure non vuole ammettere neanche con se stessa quanto è accaduto, mentre Amleto, suo figlio, si strazia per lei più di quanto quella non sia straziata da se medesima.
In Re Barbone, sempre citando Shakespeare, troviamo un testo mosso come un mare in tempesta, agitato dal plurilinguismo che sconvolge la trama dei versi, inseguendo un senso, ma niente pare avere significato, poiché il nulla assoluto domina fino alla follia i personaggi in scena, ancora sullo sfondo delle tragedie shakespeariane. Perfino la pittura entra nella pagina, in Picasso sa, con le immagini tipiche dei suoi dipinti, le donne fatte a pezzi, ciuffi, nasi, fronti e menti, occhi e nomi, una sola guancia per non girare l’altra, accenno alla nota parabola del Vangelo cristiano: scatta quindi l’ironia che suscita un sorriso amaro e una riflessione su quell’artista irraggiungibile e irredimibile.
Anche nella successiva poesia rinveniamo il sarcasmo scatenato dall’esaltazione della falsa modernità che provoca soltanto sofferenza, dato che deriva dal possesso di oggetti per fabbricare i quali serve il Coltan, un materiale speciale e quasi demoniaco, dato che per ricavarlo dalla terra si impiegano anche dei bambini. In realtà, la tragedia della morte in fabbrica entra nella pagina a sconvolgere la memoria degli smemorati: ancora una volta lo scherno scardina il verso, quasi a voler mitigare l’orrore di un dramma inaccettabile che passa ormai sotto silenzio e si fa routine sui mass-media come fosse uno scherzo degno di Halloween. Helene Paraskeva si volge di continuo verso il mito eterno degli dei che sovrastano la sua mente, che permeano la sua stessa essenza, quando cita Selene, che poi è la Diana dei Romani, dea della luna e della caccia, colei che turba i sogni degli uomini illudendoli che siano ancora forti e potenti almeno nel sonno, ma al risveglio la realtà mostrerà di nuovo le loro ferite, precipitandoli nell’orrore e nel dolore del quotidiano.
Ancora, andando avanti nella lettura, ecco un amore che dilania, che faccia piangere e soffrire il fedifrago: questo si augura la donna innamorata e delusa, come per guarire dalla passione lacerante, devastata dall’assenza dell’amato, il quale diventa poi un cinghiale nei versi: ma si tratta di un cinghiale o di un uomo colui che viene sottoposto ai tranelli del linguaggio? Lo squartamento, l’eviscerazione avviene nelle carni dell’animale o della persona? Talvolta nei testi dell’autrice troviamo sensi assai ardui da decifrare, che forse soltanto lei potrebbe aiutarci a comprendere, a sviscerare… La parola gabbiano, abusata in poesia e spesso banalizzata, se utilizzata romanticamente come simbolo di libertà, di assoluto, di anelito supremo, assurge qui ad un nuovo significato, assai originale, dell’uccello filosofo, in contemplazione presso una pira, sul sacro Gange, ma anche di colui che è fedele al Dogma dell’Attesa. Del resto la Grecia non è forse patria della filosofia? Però qui è sufficiente una sola parola, Gange appunto, a spostare repentinamente tutta l’azione in un altrove straniante.
La triste condizione del povero Orso Manolo, costretto a umanizzarsi di fronte alla bestia-uomo e al Mostro Domatore, è più umano degli umani e ci ricorda, casomai ce ne fosse bisogno, dello sfacelo della Natura, delle indicibili sofferenze degli animali che non possono non ricadere sulle persone, sull’intera specie umana, toccando un altro tema molto caro all’autrice anche quando rende protagonista, venerandola nei suoi versi, una semplice ma mitica Civetta, Athena noctua, nella celebrazione perfetta di questa creatura notturna, una piccola dea dei boschi profondi, la quale, secondo la tradizione greca, se ne stava appollaiata sulla spalla/ di Atena, simbolo della sapienza ancestrale che irradia ancora da lei attraverso i secoli. La rievocazione dei grandi lirici greci, con l’immagine della giovinezza e della freschezza di graziose fanciulle, Lolite, solubili all’istante, contrapposta alla malinconia e ai rimpianti del vecchio Omero: immagine eterna di due diversi destini, ci riporta inequivocabilmente alla classicità, ma spesso i versi di Helene sono criptici, ermetici, quasi misterici come le profezie della Pizia, nella poesia Corridoio, in cui creature, simboli arcani, parole simili a coltelli, insomma ogni elemento del testo sembra nascondere un enigma, che forse solamente l’autrice potrebbe sciogliere, se lo volesse.
Improvvisa si fa largo una gioia amara, la fine della stagione più attraente, l’estate dei giorni raggianti, la quale non porta altro che spaesamento, dispersione, panico, quasi che si piombasse in una voragine senza luce perché tutta la felicità del tempo scintillante della calda stagione è scomparsa, probabilmente per sempre, se è emblema della maturità dell’esistenza umana che declina. Miti, leggende, fiabe e racconti, penetrati tutti nei gangli del mondo, vengono rievocati in Trasformazioni, dove la Regina di Saba si muta in Esmeralda, la protagonista di Notre-Dame de Paris di Victor Hugo, accanto al suo pio campanaro Quasimodo, e rinasce zingara, ovvero gitana, come i suoi più lontani antenati. Ricordiamo infatti che la parola “gitani” deriva da Aegyptus, Egitto in latino, perché si dicevano originari della terra delle Piramidi, mentre Saba è identificabile col Sud dell’Egitto, appunto. Esmeralda si tramuta ancora nella Carmen plebea, la sigaraia dell’omonima opera di Bizet, e tutto si fonde e si compenetra, in una danza esaltante di versi, a chiudere questo vertiginoso cerchio di connessioni culturali.
In Inspiegabilmente un’altra stagione, l’autunno, viene celebrata in pochi, perfetti versi carichi di nostalgia per ciò che scorre, che è impossibile fermare, mentre anche la passione, per un’estate o per un uomo, si spegne, spazzata via dal vento come ha spazzato dal tavolo di latta,/ l’amore eterno/ e la magia degli avanzi, oppure in Caos una pioggia incessante diventa un diluvio universale, con le sue acque infernali quasi omeriche o dantesche, che travolge ogni cosa facendo esplodere il mondo quasi fosse l’eruzione di un vulcano: immagini suggestive nate da una potente fantasia, dall’oscurità del linguaggio e venute alla luce soltanto grazie alla parola. Altra immagine infernale, quella dell’Ade, di fronte alla cui porta stazionano Minosse, Eaco e Radamante, i pesatori dell’anima, coloro che vagliano i cuori, a cui nulla e nessuno può sfuggire, mentre la classicità intride i versi, poiché appartiene al sangue della poeta e sgorga sulla pagina tanto spesso come da una ferita aperta e mai del tutto rimarginata.
Il Vesuvio con la città di Napoli è invece sullo sfondo di certi versi, rievocata dall’espressione vernacolare, allora si cade all’improvviso in un altro universo, quello sconvolto dalla modernità che si sottomette alla tecnologia, sconfitto lo zolfo dei millenni, cancellato il tempo eterno. Subito dopo non sappiamo a quale città l’autrice rivolge due brevi strofe, quale agglomerato urbano celebri nella sua patetica bellezza quando, come una mendicante, fruga tra le rovine e la spazzatura, ed è ridicola se fa la sciantosa: forse si tratta ancora di Neapolis, la Nuova Città fondata dai Greci, miserabile e scellerata, ma sempre pronta a ritrovare la grazia millenaria, risorgendo dalle sue stesse ceneri, come l’araba fenice del mito.
Nella successiva Milano invece è dichiaratamente omaggiata la città lombarda, davvero clamorosa, dove l’eccezionalità diventa pane quotidiano, e in cui ogni atto crea stupore se si incontra Manzoni sul tram, se si ritrova il quartiere popolare accanto all’elegante belcanto, se il lavoro diventa l’assoluto dell’esistenza, quando a Roma risorgono ovunque laceranti memorie, Giordano Bruno arso vivo a Campo de’ Fiori, o gli ebrei traditi nel loro Ghetto e sterminati nei lager tedeschi: da una parte l’estrema solitudine del filosofo e dall’altra l’orrore dell’indicibile che ancora aleggia nelle vie del quartiere presso il Tevere, il ricordo innominabile ma incancellabile del rastrellamento del 16 ottobre del 1943.
Il mistero della vita e della morte ancora si insegue tra i versi criptici, quasi cifrati, con Amleto che ancora una volta ci guida ad indagare sul senso dell’esistenza e della sua fine come davanti al cranio di Yorick nell’omonima tragedia shakespeariana, ma la missione del poeta è quella di dialogare col sacro e col sublime come con l’infimo, tentando percorsi secolari e aprendo nuove strade, gli occhi accesi a scrutare l’impossibile, a profetizzare da ogni cosa, Inferno Purgatorio e Speranza: Orrore, Mediocrità e Futuro, forse sono queste le parole-chiave che si celano dentro il verso che chiude l’unica, brevissima sestina Al Poeta, di pagina 101?
Testimonianza altri versi di un tempo tragico appena trascorso, probabilmente, dell’esilio sofferto, del dissanguamento simbolico patito, ma anche della speranza che infine viene esaltata come una liberazione, sebbene sia troppo tardi per festeggiare: la vita precipita e ci avviciniamo decisamente alla conclusione delle poesie e alla chiusura della silloge, con ancora un’eco indicibile della classicità mai trascorsa, che permane nel telo incompiuto/sul telaio a rammemorare Penelope, con la celebrazione dell’ormai passata stagione dell’epica, trasposta nell’attualità quotidiana, lo stile modesto delle battaglie del cuore e delle passioni amorose, irrinunciabili. La stagione estiva, che si consuma come si consuma la vita, è di nuovo oggetto di struggente poesia, denotata da un verso che ricorda banalmente le previsioni meteorologiche, commento che abbassa subito il climax perché nei testi di Helene Paraskeva alto e basso, sublime e comune convivono e si confrontano di continuo: così, nuovamente l’eccelso e il vieto si mescolano e si compenetrano nel segno della Divina Sfinge da interrogare incessantemente.
Ma è sotto il segno della frenesia della Menade, innominata eppure presente, che la poeta si congeda nel richiamo della selvaggia danza solitaria, convulsa, simbolo del piacere di vivere come anche della stessa Poesia, canto che lei si augura di praticare finché il suo cuore batterà come un tamburo, immagine potente di vitalità e di forza che invita a cogliere la gioia dei giorni, nonostante tutto.

Francesca Farina

2 comments

  1. Francesca Farina ha detto:

    Grazie mille, caro Adam e tutta la redazione. Da anni svolgete un servizio culturale di altissimo livello.

  2. Laura Cantelmo ha detto:

    Interessante leggere versi di una poeta neogreca, la cui passione e disperazione legata indissolubilmente al mito antico risulta a me, amante e regolare frequentatrice della Grecia, particolarmente cara e ricca di echi. Spero di trovare con facilità il libro. Grazie di questo contributo, Francesca Farina.

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