La poesia: lingua carnale dell’esperienza
Gabriela Fantato
Due filosofi-psicoanalisti hanno definito la nostra come «l’epoca delle passioni tristi», rifacendosi a tesi di Spinoza[1], un’epoca di disorientamento, in cui il futuro non è più sentito come «una promessa», come è stato per l’Occidente postilluminista e neopositivista, ma come «una minaccia», con il conseguente venir meno delle progettualità e delle speranze. Penso che ogni essere umano senta su di sé, oggi più che mai, una minaccia diffusa.
Gilles Deleuze direbbe che il “macchinico” oggi coinvolge l’individuo in un dominio che annienta il corpo e la mente, celandolo con la definizione (fuorviante) di globalizzazione che, occorre dirlo, è solo il nome che si dà oggi alla logica del profitto, diffusa su tutto il Pianeta: il neoliberismo. Ormai, questo sistema economico fa passare l’idea che la libertà (di mercato) sia un “valore umano” ed è conseguente il considerare la “lotta di tutti contro tutti” – popoli, culture, lingue e persone – legittima e dovuta alle necessità mondiali in atto, per l’estendersi delle relazioni economiche. E anche l’utile ci viene proposto come “valore umano”, applicabile alla vita intera: affetti e relazioni, educazione e salute, nascita e morte sono ormai pensati quasi esclusivamente con il parametro economico-produttivo dell’utilità, scordando le valenze emotivo-esperienziali e, dunque, profondamente umane che hanno gli eventi del vissuto. Spesso le persone, inoltre, finiscono per credere che “chi non ha successo”, in fondo, è solo perché “non è furbo”; “è un incapace” e, quindi, è un “perdente”, una sorta di incarnazione del disvalore.
Se il sistema non fosse complesso, se non fosse “macchinico”, appunto, se non avesse in sé una vera e propria “capacità seduttiva”, tanto che i desideri di tutti, quasi di tutti, sono agiti dall’esterno, alienati dal soggetto e diretti…solo verso un unico fine: “consumare le merci” (tra cui i corpi stessi, intesi anch’essi come “merci”); se tutto questo non sapesse insinuarsi sottilmente nell’inconscio, tramite la subcultura dei sistemi mediatici, non sarebbe capace di attecchire dentro ognuno, tanto da venire condiviso, accettato e subìto… senza consapevolezza, senza ribellione dai più. Si tratta di un vero e proprio “potere opacizzante” planetario, che oscura le menti e domina i corpi, celando il dominio in un linguaggio vacuo, pieno di eufemismi, ma anche con l’anonimicità del sistema stesso che è un Leviatano, ma “senza nome e senza volto”, ovvero, domina, ma spesso senza strumenti materiali di coercizione, tortura e abbrutimento. A volte il sistema planetario mostra il volto: la sua violenza, la sua tenacia di annientamento, eppure i più finiscono per dimenticarsene…troppo facilmente.
Se i corpi sono dominati, rattrappiti in gesti vuoti, estraniati dall’Io, è davvero necessario tornare a interrogare il corpo: è necessario vedere e sentire con il corpo. Il che non significa agire o pensare in modo emotivo, irruente e passionale, ma al contrario: cogliere come la nostra esistenza, l’esperienza e, dunque, anche il linguaggio sono radicati nel nostro corpo e come questo sia oggi sempre più aggiogato, privo di parola ed estraneo a noi stessi. Nel suo recente volume di scritti filosofici sul fervore Jean-Luc Nancy nota che è il “ci” (di heidegeriana memoria) che segna e dice la nostra presenza al mondo: è il «ci sono» che apre il soggetto al mondo e il mondo al soggetto. Il pensiero e la lingua non vengono mai dall’astratto e individualistico cogito ergo sum di Cartesio ma, scrive Nancy, dall’esperienza dell’esserci, dal nostro vivere in quanto corpi in un certo luogo, in un certo tempo ed entro certe relazioni con altri e occorre dire, con Nancy; «io ci sono, io ci penso: il pensiero ci si trova, ha lì il suo peso specifico» [2].
Parafrasando la filosofa spagnola Maria Zambrano[3], possiamo dire che il poeta è colui che vive «un’unione erotica» con il mondo, colui che vive sentendo «nella propria carne l’ustione del mondo» e testimoniando ciò in parole sa dire sia il darsi immediato del reale, sia le “leggi” in esso inscritte: il telos, il “movimento” che agita ogni evento nel continuo darsi di “possibilità”, realizzate o solo in divenire. Nella grande poesia “l’interno” (l’interiorità emotivo-memoriale) dell’Io si collega con “l’esterno” (i dati concreti e tangibili del mondo) e viceversa, tanto che tale polarità esiste ma come tensione reciproca in atto proprio nella lingua poetica che testimonia, dunque, l’intreccio tra Io e mondo, la complessità e stratificazione dell’esperienza stessa. E’ questo “ci” di cui scrive Nancy a cui allude anche Adam Vaccaro con la «teoria della Adiacenza»[4], tesa a cogliere come nella lingua poetica si intreccino le varie “parti” dell’umano, per cui la poesia non può mai essere interpretata solo come lingua dell’Io, ma anche come voce dell’Es e del SuperEgo, il che rimanda a istituti freudiani, ma applicati alla poesia. Solo chi sa avvertire la prossimità si scopre corpo tra corpi: «corpo di corpi», direbbe Giancarlo Majorino, solo così il poeta può trovare parole che eccedono e insieme sintetizzano l’esperienza individuale che proprio perché profondamente, intensamente vissuta e nominata con potenza linguistica diventerà condivisibile con/per altri.
Ogni esperienza si fonda non sul possesso del mondo o dell’altro da sé, ma sull’approssimazione al «mistero del reale», dice Jean-Luc Nancy nel citato volume di saggi: il vero “mistero” cui si dà parola in poesia (o nell’arte) non è mai metafisico ma è «la prossimità» che il soggetto vive con ciò che più gli sfugge: la realtà, l’altro da sé e se stesso. E’ questa la prossimità che l’umano avverte nel momento in cui si apre al mondo tanto che l’esperienza vissuta sia insieme percepire/sentire/pensare, cogliendo in ciò la propria stessa esistenza come «differenza»: solo vivendo questa prossimità con consapevolezza “carnale”, potrei dire, il poeta coglie il “mistero” del reale e lo «traduce in figure», direbbe la Campo, ovvero, trova le parole necessarie per dargli forma.
Percezione, visione, intuizione, pensiero ed emozione assumono nella lingua poetica una struttura precisa attraverso ritmi, suono e senso così che la parola ordini il reale e, dunque, la scelta “formale” di un testo o di un libro è fondamentale (non un sovrappiù) e consiste nel saper stare in bilico tra “vertigine” e “misura”, direbbe Marco Ercolani[5] e dico anch’io. In poesia, infatti, il senso si realizza dando voce anche ai lati oscuri, segreti, impensati della vita stessa, il che si attua dando forma alle inattuali e perturbanti modalità espressive della lingua stessa, dando “peso”, “colore” e “intensità”alle parole, dando ritmo al testo. Solo così si “spinge” la lingua a mostrare la sua forza nominante che, dando nome, dà senso all’esperienza. Per questo non si può e, a mio avviso, non si deve, dire con parole di “quasi prosa” l’esperienza come accade in molta poesia contemporanea, né lo si può fare con l’autocompiacimento narcisista in versi “di quasi diario”. La poesia che occorre scrivere in questi anni non può neppure annidarsi in una dimensione onirica dell’Io, né limitarsi a sperimentazioni verbali, tanto meno può farsi “mimetica” del reale, come è stato nel realismo classico dell’Ottocento o nel Neorealismo degli Anni Cinquanta.
Cerco nei libri che leggo una poesia che stia sul confine, la cui lingua sia cortocircuito tra le molte dimensioni esperienziali: realismo intensivo[6], definisco questa poesia che sa dire l’intreccio, il legame tra visibile e invisibile, per cui pur traendo forza dal reale, non ne è imprigionata e, pur attingendo all’interiorità immaginativa, emotiva, memoriale del singolo, non è intimista o narcisista. Roberto Mussapi ha definito «caravaggesca» quella poesia che sa essere «visiva e insieme visionaria»[7]: poesia che sa dire la concretezza del mondo e la dimensione invisibile che lo attraversa, come i quadri del grande Caravaggio. In questo senso questa è una definizione calzante a ciò che intendo dire anch’io.
Marina Cvetaeva nel saggio Il poeta e il tempo[8] annotava: «ciò che per l’uomo comune è spirito, per il poeta è quasi carne», in quanto è sul confine, nel punto di contatto/scontro tra Io e mondo, che nasce la lingua della poesia che imprigiona così in sé l’ambivalenza della vita stessa. E’ nel “chiasmo”, direbbe Merleau-Ponty[9], che si crea, si modifica e si significa l’esperienza di ognuno di noi ed è lì che nasce la grande parola che, se è tale, sa creare un “ponte” tra il singolo e gli umani, tra il presente e la memoria, tra ciò che è vita dell’individuo e una dimensione ancestrale dell’esistenza. Solo così la poesia può diventare forza ordinatrice che, nominandolo, dà ordine al reale e in essa trovano senso sia l’esperienza soggettiva, sia quella universalmente umana. Se la poesia è tale non si rivolge più solo a una cerchia ristretta di “addetti ai lavori”, ma parla a tutti e per tutti, poiché dice ciò che ognuno sente necessario. Il problema spesso posto oggi della “mancanza di pubblico per la poesia” è, dunque, un falso problema: non si tratta di “avere masse” che ascoltano o partecipano, ma occorre avere da dire qualcosa che parli ai pochi che sanno ascoltare.
Occorre avere parole acuminate: dense eppure scabre, precise eppure in movimento; parole come gesti, che siano frutto di un’esperienza e di un pensiero intensi, azzardati e rischiosi, il che richiama ciò che T.S.Eliot[10] aveva scritto moltissimi anni fa: occorre avere in poesia «un pensiero sensuoso». Idee, emozioni e immagini nascono dall’esperienza sensibile del nostro vivere al mondo e nel mondo, diceva anche il poeta e drammaturgo inglese, e per questo la poesia necessita di “correlativi oggettivi” delle emozioni e dei pensieri, tanto da essere una conoscenza carnale e insieme spirituale del mondo e di noi stessi. Solo così le parole saranno «nette come il diamante»[11], con un ritmo, un tono, una forma in cui si dica e si sveli l’esserci al mondo, la complessità dell’esperienza umana individuale e, insieme, il “battito” del tempo, il “respiro”di un’epoca.
E’ aperta la “sfida”: occorre avvertire l’urgenza di stare al mondo in modo diverso e dire in modo diverso questa esperienza: usiamo tutti la lingua della poesia! Potrebbe uno slogan paradossale da dirsi oggi, ma lingua poetica non vuol dire certo “sentimentale”, “manieristica”, “aulica” et similia, ma corporea e insieme visionaria, lingua capace di essere contemporanea e inconsueta, azzardata e impensata, ostile al senso e ai linguaggi comuni. Così è tutta la grande poesia. Esigere e praticare il paradosso: questo è il compito del poeta. Occorre attuare e praticare un linguaggio che sia frutto di uno sguardo acuminato e appassionato che non è solo del poeta (o di “pochi eletti”!), ma che ci appartiene in quanto “corpi al mondo”.
Si può parlare oggi – a mio avviso – di esercizio di resistenza della poesia. Resistenza: un termine carico di valenze ideologiche che però può e deve tornare ad avere il suo senso originario. Chi resiste, infatti, oppone un movimento uguale e contrario, impedendo e ostacolando qualche altra azione; chi resiste fa argine. Resistere per il poeta significa assumersi la responsabilità di avere e coltivare un doppio sguardo sul mondo: sguardo che non si limiti alla superficie e non slitti in metafisica retriva, controriformista o in una di vacua concezione New Age, che sarebbe solo fuga dal presente. Cristina Campo scrisse che il compito primo del poeta è la capacità di cogliere in parole l’enigma dell’esperienza, ma cogliere l’enigma – a mio avviso – significa saper avere una visione etica radicale del nostro vivere nel tempo e nello spazio, il che significa rifiutare il solipsismo e l’egotismo collegati al nichilismo che ha segnato, e segna ancora, la lingua che usiamo, i nostri affetti, i nostri corpi. Significa superare e rifiutare, in poesia e nella vita, il narcisismo, che diventa cinismo, per iniziare a ridare voce al corpo e sentire così di “abitare il mondo”, nominando l’esperienza con una lingua carnale che sia forza nominante e ordinatrice dell’esperienza: potenza inaspettata e mai attuale.
[1] Miguel Benasayag, Gérard Schimt; L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2003;
[2] Jean-Luc Nancy, Narrazioni del fervore. Il desiderio, il sapere, il fuoco, Moretti & Vitali, Milano, 2007;
[3] Maria Zambrano, Poesia e filosofia, Pendragon edizioni, Bologna, 1989;
[4] Adam Vaccaro, Ricerche e forme di Adiacenza, Asefi, Milano, 2001;
[5] Marco Ercolani, Vertigine e misura. Appunti sulla poesia contemporanea, La Vita Felice, Milano, 2008;
[6] Mi riferisco al mio intervento “Quali poeti e quali poetiche oggi?”, pubblicati negli Atti del convegno sulle riviste di poesia italiane, organizzato da la Fondazione IL FIORE di Firenze nel 2004 : Il futuro chiama il futuro, quali poetiche oggi?, LietoColle, Faloppio, 2005;
[7] Roberto Mussapi, in La Biblioteca delle voci, interviste a 25 poeti italiani, a cura di Luigi Cannillo e Gabriela Fantato, Joker edizioni, collana Materiali, Novi Ligure, 2005, pag. 195;
[8] Marina Cvetaeva Il poeta e il tempo, Adelphi,; Milano, 1984;
[9] Merleau- Ponty. Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano, 1994;
[10] T.S. Eliot Il bosco sacro, Bompiani, Milano, 2003.
[11] Cristina Campo, Gli imperdonabili, Adelphi, , Milano, 1987, pag. 212;
[…] saggio di Gabriela Fantato su Poesia, corpo e etica https://www.milanocosa.it/saggi-poesia/13(Categorie Saggi Poesia e Saggi […]
Ottimo compendio. Ritengo che, oggi, il poeta debba innanzitutto osservare la parola facente parte di un linguaggio “mediatico”, interpretarne e analizzarne la sub-cultura dei dis-valori generati. Questo è, a mio avviso, la stazione di partenza da cui iniziare un lungo viaggio che possa condurre a una “vittoriosa” riscossa della parola, avulsa da sterili manierismi/deliri interpretativi, per approdare, infine, a quella resistenza/azione che sta nel mondo “condiviso” e non in una sua piccola parte/territorio confinata, oggi, a riserva indiana.
Marco Saya
Una analisi molto acuta e ampia. Brava Gabriela. Aggiungo: io non credo che il poeta sia – come persona che soffre, dice Eliot – migliore di tanti altri taglieggiatori che ci affliggono. Penso però che, come uomo che crea, debba credere come unica fede di compiere, nel testo e per il testo, una vera dépense a favore del senso. Il suo lavoro, la sua preoccupazione, la sua Cura non sono altro che un potlac oggi sempre più insensato. ma che proprio da questa situazione oggettiva trae il proprio valore. Che poi è un lavoro che, con l’esaltazione del significato (del testo), esalta il senso (della vita, se ne ha uno).
Testo intenso che ho condiviso pienamente, vorrei aggiungere che l’esperienza del mondo attraverso la poesia, tanto più è vera e condivisa, quanto più viene abitato il corpo. Ridare voce al corpo, come fonte di esperienza percettiva e sensibile, è condizione necessaria alla resistenza della parola.
Condivido pienamente quanto scritto da Gabriela Fantato; infatti, nel mio testo Il tavolo di lettura (Manni ed.) ho parlato di Resistenza della parola poetica. Quanto alla carnalità del verbo poetico ne ho fatto pratica varia e appassionata fin dagli anni 1977.