Un’evocativa precisione
(Rosa Pierno, “Artificio”, Robin Edizioni, 2012)
Con “Artificio”, Rosa Pierno presenta una raccolta di ben calibrate sequenze verbali che trovano nella passione amorosa il loro cardine.
Uso la parola “passione” e non “sentimento”, perché ritengo il primo termine più adatto a rendere il senso di un desiderio non immune da dolorose conseguenze. Sezionare simile propensione della natura umana, portarne alla luce fisionomie e frammenti, fattezze travagliate e risvolti contraddittori, è l’impresa cui Rosa si dedica.
L’analisi penetrante, per nulla priva di sorprendenti pronunce, è ricca d’implicite valenze evocative, poiché l’autrice, avendo presenti certi limiti del linguaggio, non tende a esaurire l’argomento, bensì a mostrarlo per via di un caparbio ingegno, capace, proprio in virtù della sua esattezza, di alludere a qualcosa di non detto.
L’amore si vive, non si spiega, ma se ne può parlare.
Un’altra passione viene così coinvolta: quella per la scrittura intesa come incessante ricerca.
La parola scritta, ritenuta molto efficace, è qui proposta quale vivido gesto in grado di incidere sulla sfera esistenziale, poiché già partecipe di simile sfera. Qualcuno direbbe che c’è dell’enigmatico in tutto questo e molti, credo, sarebbero d’accordo con lui.
Io penso, invece, che siffatto enigma manchi di quella parte negativa idonea a legittimarne l’esistenza: l’enigma sussiste ove potrebbe anche venire meno, non ove regna sovrano.
L’amore, paradossalmente, non è enigmatico in quanto è soltanto tale.
Ogni vicenda amorosa è possibile oggetto di partecipe racconto (non di dissertazione) e le sofferenze che spesso la accompagnano non sono in contrasto, sono con.
Questo non significa che non possano essere evitate, che non si possa, per così dire, privare l’amore di ogni pena: occorre, però, promuovere tale auspicabile processo in àmbiti di crescita umana, d’impegno, di consapevolezza.
Insomma, non si può imporre a Eros, dall’esterno, un percorso diverso dal suo.
La lucidità descrittiva di Rosa, pur nel suo tenace insistere su un sofferto divenire, pare talvolta aprirsi non a distinte e vaghe speranze, bensì alla concreta possibilità di un itinerario costruttivo il cui punto di partenza consiste nella feconda accettazione dell’essere contingente:
“Concetti e sensazioni, anziché opporsi gli uni agli altri senza
mediazione, sono collegati attraverso un numero infinito di gradi
intermedi; ciò rende possibile il passaggio continuo da un
contrario all’altro, procurando un’unica indeterminatezza:
proprio quella relativa alla possibilità di prosieguo dell’amorosa
relazione”.
Spingersi oltre, riuscire a vedere nelle difficoltà la via di uscita di un miglioramento che passa per l’accettarsi, confidare nel fatto che il labirinto oltre a un ingresso ha anche un’apertura che porta fuori, nel territorio di una libertà non meramente edonistica, capace di costruire relazioni umane più soddisfacenti: questo mi pare emerga dalla “possibilità di prosieguo” traente origine da una “indeterminatezza” che può essere fonte d’inquietudine ma anche di fiducia e coraggio.
Il problema del tutto aperto resta quello dei “gradi intermedi”, ossia di un cammino, per nulla costituito a priori, da compiere passo dopo passo, facendoci carico di quella necessità di continua decisione in cui consiste – a un certo punto ce ne accorgeremo – l’intima natura della nostra esistenza.
Ecco, a mio avviso, l’evocativa precisione di “Artificio” ci aiuta ad accorgercene.
Marco Furia