Sorsi di saggezza

Pubblicato il 1 settembre 2016 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

Sorsi di saggezza

La filosofia del tè di Giorgio Linguaglossa, Ed. Ensemble, Roma, 2015

Per una riflessione a tutto campo sul pensiero e la condizione umana si può effettuare una forma di spostamento, un’invenzione concettuale e creativa che ci dislochi  in un luogo e un tempo immaginario nel quale situare avvenimenti e figure. Questa è la strada che compie efficacemente Giorgio Linguaglossa nel suo La filosofia del tè, una serie di testi che, narrando, percorrono come sentieri diversi campi del pensiero attraverso la relazione maestro/discepolo, cioè il nucleo essenziale della trasmissione della conoscenza.

I luoghi, teatro di leggende occidentali e orientali, sono spesso indefiniti;  il tempo viene fissato dall’autore in duemila e cinquecento anni del futuro-passato (o passato-futuro) a decorrere dall’11 settembre 2011, data simbolica della “distruzione di quella antica civiltà post tecnologica” che da lettori ci riporta al presente. I testi sono prevalentemente – ma non solo – prose, alternate talvolta a poesia, e tramandano i racconti orali che riguardano alcuni maestri di vita orientali, dal leggendario Tripikaka “che parla l’idioma degli uccelli” al filosofo materialista Me Ti, per arrivare al maestro Osho, che si ritira su un albero rinunciando alla parola, insieme ai propri allievi. Con loro alcuni filosofi occidentali, da Pitagora a Empedocle.

Il sottotitolo dell’opera è “Istruzioni per l’uso dell’autenticità”. Le parabole filosofiche narrate si possono quindi considerare anche incentrate sul tema della Eigentlichkeit – ciò che è proprio, caratteristico dell’esistenza, e in quanto tale autentico. Ed è l’uso di tale autenticità che caratterizza pensiero ed azioni come verosimili, veritiere e/o portatrici di verità. L’uso della prima persona, singolare o plurale, rafforza il senso dell’esperienza, l’attendibilità – sebbene leggendaria – delle testimonianze degli allievi e del narratore. La successione non è cronologica ma “in ordine di tramandamento”, come avverte Linguaglossa nella premessa, creando, anche alla luce di questa scelta arbitraria e in parte ludica, una rete di rimandi ironici, di nomi allusivi, di osservazioni a latere che si intrecciano al tono lapidario.

Fondamentale la domanda posta dall’allievo Cu Chi al maestro Me Ti: «Quanti modi ci sono per dire la verità?» Ma La filosofia del tè più che un libro di risposte è un insieme di domande, nel più puro spirito filosofico, e nello stesso tempo l’insistenza di queste ultime è sostenuta dai maestri (e dall’autore) con leggerezza e ironia, con il gusto del paradosso, smentendo qualsiasi dogma assoluto proprio nel momento in cui gli interrogativi si fanno più pressanti. Alle incalzanti domande logico-esistenziali riguardanti il filosofo Zenone non c’è risposta: «Quante domande si pone il filosofo che nessun altro pone. Domande inutili, anzi dannose.» La stessa funzione dell’insegnamento filosofico viene riconsiderata attraverso la lezione del maestro Moyo: «Ogni maestro deve imparare a smettere di insegnare quando capisce che non ha più parole vive per parlare ai suoi allievi.»

La formazione, la scelta e la politica della parola formano uno dei nuclei del libro. Appunto, essendo presupposti della sua autenticità e vitalità. Il Maestro Osho scrive ogni giorno una parola sul libro dei giorni, poi si immerge in un sonno profondo. Nell’orecchio del maestro addormentato l’allievo sussurra inutilmente: «Dammi una parola, maestro, una sola parola, e te ne sarò grato in eterno.» Ma anche in questo caso, se le conclusioni che seguiranno sembrano contraddire le premesse e le aspettative, in realtà invece danno loro una profondità inattesa, ne rivelano il doppio fondo, lo squarciano verso un iper-spazio: non è la parola l’essenziale, ma il suo superamento nel silenzio o nella materia, nel fare.

Altre volte le storie si concludono spingendosi verso l’irrisione dissacrante, come nel caso della parabola del maestro Anarcisio Aclastico, la cui ultima parola prima di scomparire consiste di borborigmi e peti. Oppure i racconti hanno il tono magico della favola, virata però in paradosso, per cui lo stesso maestro Osho libera il re dei messageti, obbligato alla condizione servile di stare sempre seduto sul seggio regale, attraverso i corvi che però lo assalgono beccandolo a morte. O assumono le caratteristiche dell’indagine nel mistero apparente, come nella storia “Il sandalo di Empedocle”, sul quale i discepoli discutono facendo diverse supposizioni.

“Dobbiamo imparare l’arte della distinzione”, afferma il maestro Me Ti e sembra così sintetizzare gli insegnamenti dei pensatori. L’arte del distinguo, del sollevare eccezioni si manifesta allora come la modalità critica con cui affrontare le tante problematiche che si pongono non solo nell’insegnamento filosofico in senso stretto, ma nella necessità di riflettere sulle eterne questioni, cruciali in Oriente e Occidente, di essere e divenire, essere e apparire, riflettere e agire. La filosofia del tè può servire a orientarsi meglio nel mondo mantenendosi liberi e vigili. Come passando sul ponte di corda, a cui si riferisce il saggio Marpa, “che unisce ciò che originariamente è diviso”. Per questo stretto passaggio occorrono attenzione, leggerezza, saggezza, agilità, spregiudicatezza.

Lo spostamento di cui parlavo all’inizio, inteso come rovesciamento/slittamento del punto di vista e della modalità delle sequenze narrative,  non è allora solo un espediente letterario di Linguaglossa. È l’atteggiamento necessario, oltre che ai maestri filosofi e ai loro discepoli, anche a noi lettori.

Luigi Cannillo

L’umile Hoyko

L’umile Hoyko vive da dieci anni nel bosco di salici piangenti.

Mi chiedo: è Hoyko un giglio che dorme o un serpente che attende la preda?

Sta immobile Hoyko su una panchina e attende.

Sta immobile Hoyko sulla panchina nella pioggia.

Sta immobile Hoyko sulla panchina sotto il sole rovente.

Ma chi attende Hoyko? Perché non si piega Hoyko a cogliere i fiori?

Che cosa aspetta la sua anima che l’anima non ha?

Mi chiedo: è davvero umiltà quella del maestro? O è arroganza infinita?

Sta Hoyko sotto il cielo azzurro in attesa delle stelle?

Sta Hoyko sotto le algide stelle in attesa del cielo azzurro?

Sta Hoyko nel bosco ad aspettare il mare?

Sta Hoyko nel bosco ad aspettare il bosco?

“Noi non sappiamo chi o che cosa il maestro Hoyko attenda e forse non lo sapremo mai”.

Questo pensiero mi attraversò all’improvviso come un ferro rovente le tempie da una parte all’altra. Fu allora che mi decisi. Una notte di dicembre, fredda come il feldspato freddo, mi allontanai in fretta dalla panchina dove sedeva il maestro Hoyko senza voltarmi indietro.

Abbandonai il maestro Hoyko e me ne tornai al mio villaggio di paglia e di fango a zappare l’orto che fu di mio padre e di mia madre. E non pensai mai più al maestro Hoyko.

La parola di ferro

L’ultima volta che vidi il maestro Yze

stava chino sulla riva dell’oceano davanti ad una fornace,

metteva torba nella fornace

da dove usciva un magma di ferro incandescente

che lui colava in appositi stampi quadrati,

poi saldava i singoli blocchi

uno sull’altro, nell’altezza e nella larghezza,

per costruire un muro di ferro

che divenne ben presto alto e massiccio

come le mura di Ninive o di Babilonia…

Così, davanti al mare salato

crebbe l’invalicabile muro ferrigno

fin quasi a toccare il cielo.

Un giorno, l’ultimo degli allievi, timido e sgomento, gli chiese:

«Maestro perché questa barriera di fronte al mare?

non esiste muro invalicabile

che alla fine non ceda alla corrosione, alla ruggine del mare…

E alla fine anch’esso si sgretolerà e finirà nel nulla…».

Ma il maestro Yze non lo degnò di alcuna risposta.

Continuò ad erigere il muro fino alla fine dei suoi giorni.

Forse, questa è stata l’ultima parola del maestro Yze:

costruire una parola di ferro,

salda come il ferro, pesante come il ferro,

che fungesse da argine al mare spumoso…

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