Angela Passarello, Piano Argento, edizioni il Verri, Milano 2014
Laura Cantelmo
E’ un vivere nel mito, quello di Angela Passarello nella sua Agrigento, grazie alla contiguità di quella terra ad alcuni archetipi fondativi della nostra cultura, tanto che nessun accenno storico o leggendario ai luoghi sembra essere ridondante o banale, in un mondo in cui i toponimi stessi riecheggiano quella prossimità con il classico e con i suoi miti nella potenza evocativa e nei richiami a un altrove che si concretizza nei linguaggi, letterari e visivi, attraverso i quali la Passarello si esprime. Non parrà casuale, in uno dei testi, l’accenno quasi sommesso ma ricco di senso per il progetto profondo di questa raccolta, alla prossimità del tempio di Demetra.
Piano Argento, di fatto, non è nome di fantasia: indica il cortile di una normale casa nel centro di Agrigento, noto quadrivio, dove la nonna materna dell’Autrice risiedeva e quindi luogo da lei spesso frequentato fin da bambina e ormai scomparso. Basterebbe questo per indicarne la valenza mitica legata all’infanzia, la cui distanza si contrae o si dilata nel ricordo, ingigantendone o riducendone le dimensioni reali nella narrazione ad esso legata. Una raccolta di epifanie, quindi, una sorta di Spoon River ariosa e lapidaria, nella quale l’uso di alcuni termini dialettali restituisce vita alla memoria, riducendo la crudeltà del distacco, temporale e dello sradicamento da una terra che è grembo materno e in quanto tale legame indistruttibile.
Pochi scarni versi introduttivi ricchi di risonanze annunciano il tono e l’intensità del racconto :
adesso che la tua casa è scomparsa
fra le macerie raccolgo un’antica pietra
testimone di indelebili presenze
Quest’epica personale, sotto forma di fulminanti haiku , racchiude il racconto di una famiglia, di una società arcaica e fiera dei propri valori,toccata dal dramma dell’emigrazione e, al contempo ne dispiega la dimensione leggendaria. Fin dall’inizio la voce narrante si rivolge principalmente alla madre, ne ricostruisce la figura all’interno di una variegata koiné mediante lampi impressionistici che ne fanno rivivere l’immagine, nell’ottica di un rapporto interrotto dalla caducità della vita, ma per sempre pulsante nella coscienza filiale dell’Autrice. L’uso del dialetto attribuisce maggiore autenticità al palcoscenico in cui si svolge la rievocazione di atti semplici, come il cucire a macchina ( u’ritipuntu nella prima sezione) o il richiamo alle mischinedde tra le quali la madre svolge il lavoro di infermiera nell’edificio della follia.
Come già si ebbe occasione di notare altrove, la Passarello non ama l’abbandono acritico e sentimentale né il ripiegamento nostalgico. Parla con amorevole distacco di quel mondo scomparso imprimendo energia in ogni essere, in ogni luogo, in ogni oggetto con delicatezza, con pochi, significativi particolari. Quasi che la memoria operasse la palingenesi di un mondo scomparso nei vividi ritratti di personaggi che si potevano incontrare nella Sicilia rurale in un tempo non remoto, di luoghi personificati e un po’ inquietanti, come la roccia ippogrifo. La memoria stessa ridipinge una società contadina fortemente coesa pur nelle inevitabili contraddizioni, oggi cancellata dai turbamenti e dalle sventure apocalittiche apportate in gran parte dalla globalizzazione e dalle miserie della storia.
Con l’umile evocazione dei fiori o dell’albero chiamato kharrub e dei suoi khirat, nell’accezione dialettale derivata dall’arabo, la breve sezione memoria del giardino celebra ancora la figura materna che si fa archetipo, agendo in un mondo apparentemente immobile, connotato da riti e credenze millenarie.
Nella terza sezione, Rupe Atenea, altro toponimo fiabesco che indica il luogo dove sorge la casa di famiglia che si affaccia sulla Valle dei templi, come a dire sulla Storia e sul mito, si arricchisce la galleria di personaggi con l’immagine del padre migrante. Il dramma sociale dell’emigrazione racconta una storia diffusa nell’Italia di allora e tuttavia l’Autrice, evitando il compiacimento di dettagli troppo crudi, accenna con dolcezza alle rimesse monetarie duramente guadagnate in Germania, ai ritorni per le feste tradizionali, ai canti natalizi dei bambini intonati dall’armonica paterna. La valigia “legata con la cinta” in cui il padre stipava le “cose buone” di casa da portare come doni d’amore nella baracca da operaio echeggiante del metallico suono di “arbait arbait”, dipinge il valore apotropaico delle “cose” come antidoto alla nostalgia.
Come già avvenuto in un bel libro precedente, Ananta delle voci bianche, anche qui si ritrovano accenni a una inconsapevole, fatalistica, crudeltà del mondo contadino, come l’oblio per i giustiziati gettati nella fossa comune (la chiesetta delle Forche), o i cuccioli deposti sopra la roccia, lasciati al loro destino o forse anche alla pietà di qualche passante (piccoli gridi).
Il tempo segna la vita della koiné, stravolgendone i connotati e l’antica cultura: la sezione finale, dedicata alla Rupe Atenea, si conclude raccontando la società dei consumi come operazione irreversibile, nella quale protagonisti diventano gli elettrodomestici, anch’essi personificati: la televisione, la lavatrice anticipano simbolicamente un altro tipo di migrazione, verso l’Italia del Nord. La madre ora si reca talvolta in Alta Italia a visitare la figlia e il suo sguardo affascinato di fronte alle chiese, agli alberi di Milano, serba intatte la pietà, la religiosità del passato. Ignara del mondo in cui la figlia si ritrova, la donna pensa e scrive lettere come se nulla fosse mutato. Questo tenero particolare chiude la vicenda fin qui narrata:
ti rivedo sicura attraversare la Piazza
lanci con un soffio sulla mano un bacio
alle guglie verso la bela Madunina
Quando sei partita nella tua lettera settimanale
scrivevi
mia cara figlia noi stiamo tutti bene così spero di te
L’accenno agli “smarrimenti” che la nuova realtà, riserva alla figlia, è per lei inconcepibile ed opportunamente le viene taciuto perché insostenibile nella sua visione del mondo. E’ con questo flashback che si chiude con intensa e scarna semplicità il vivido e commovente poema di Angela Passarello, a cui fanno da corollario le sapienti traduzioni in inglese di Anthony Robbins.
Laura Cantelmo
Milano, agosto 2015
Una piacevolissima analisi di un piacevole libro.